Argentina. Terre promesse di ieri e di oggi
Nel 1939, quando mio padre, Giuseppe Artusa, scese dalla nave che in ventiquattro giorni lo aveva portato dalla Calabria in Argentina, nessuno lo aspettava per fargli la foto segnaletica, caricarlo su un pulmino e portarlo in un centro di prima accoglienza come capita oggi ogni volta che c’è uno sbarco. Ad accoglierlo non c’erano la Guardia Costiera né la Polizia scientifica né Medici senza Frontiere. Aveva 6 anni e, preso per mano dalla mamma, salutava dalla nave l’uomo con il cappello che lui non aveva mai visto in vita sua e che gli avevano detto essere suo papà. Mio nonno, infatti, era partito dall’Italia nel 1932, pochi giorni dopo la nascita di mio padre. In un secolo, tra il 1876 e il 1976, 3 milioni di italiani sono stati accolti dall’Argentina. Per decenni, infatti, il Paese è diventato una «terra promessa» per il grande bisogno che esso aveva all’epoca di manodopera per lo sviluppo. Oltre a fare richiesta d’asilo o di permesso di soggiorno, molti italiani che lavoravano nell’amministrazione pubblica erano costretti a diventare cittadini argentini.
Oggi, più di un secolo dopo quella diaspora italiana, che allontanò da casa in totale 26 milioni di persone, l’Italia è, dopo la Grecia, il Paese europeo che riceve il maggior numero di immigrati: tra gennaio e agosto di quest’anno sono sbarcati sulle coste italiane 107.633 persone, soprattutto da Eritrea, Nigeria, Somalia, Sudan e Siria.
Sono stata a Pozzallo, in Sicilia, uno dei punti più critici dell’emergenza profughi nel Mediterraneo, dove, tra il 1° gennaio e il 24 agosto, 2.373 migranti hanno perso la vita in mare. Ho visto la paura affiorare negli occhi delle donne; uomini e bambini che ringraziavano Allah appena messo piede sulla terra ferma. Ho parlato con i migranti bloccati a Ventimiglia, al confine tra l’Italia e la Francia: ancora oggi dormono sugli scogli in attesa di oltrepassare la frontiera. Ho visto le tendopoli a Roma, i piatti di cibo e acqua distribuiti dalla Croce Rossa alla stazione di Milano Centrale.
Negli anni Trenta, in sei anni mio nonno riuscì a trovare un lavoro, comprare un pezzo di terra a Buenos Aires, costruire la propria casa e mettere soldi da parte da mandare in Italia. I profughi d’oggi hanno come unica uscita d’emergenza l’illegalità: pagano 600 dollari agli scafisti che li prelevano dalla Libia e, una volta in Europa, tentano d’eludere le pratiche migratorie perché vogliono usare l’Italia come scorciatoia per raggiungere la Germania e i Paesi nordici.
La crisi migratoria sta diventando epocale e cambierà la geopolitica mondiale. E mentre l’Italia vorrebbe creare consapevolezza nel vecchio continente per fare capire che siamo davanti a un problema internazionale che deve essere affrontato da tutta l’Europa, quest’ultima suo malgrado si appresta a diventare multirazziale.
Mio padre morì a Buenos Aires nel dicembre del 2002 senza essere mai tornato in Italia. La malinconia di pensare che non avrebbe ritrovato nessuno non gli ha permesso di rivedere Filandari (VV), il paese dov’era nato. Non voleva tornarci anche perché in Argentina aveva una bella vita. I profughi di oggi non vogliono tornare a casa perché lì c’è l’inferno. E nessuno sa fino a quando durerà. Sono d’accordo con Umberto Eco quando ritiene che, violente o pacifiche, le migrazioni sono come i fenomeni naturali: «Avvengono e nessuno le può controllare».