Aringhe e maccheroni

I primi arrivi nel Settecento, con i nostri stuccatori che decorarono i palazzi si Stoccolma. Il boom nei due secoli successivi: non tutti avevano il corraggio di attraversare l'Atlantico.
17 Settembre 2008 | di

Stoccolma
Costituire un gruppo di giovani attivi interessati al dialogo per la costruzione di una nuova comunità italiana all’estero. Realizzare un forum e raccogliere idee e creare un’Associazione giovanile in Svezia e una lista di indirizzi per mantenere i contatti: Andreas Vinaccia, presidente dei giovani FIAS, e Johanna Picano del Comites, hanno il cognome italiano ma si muovono seguendo il pragmatismo scandinavo tenendo bene in mente i pochi ma chiari obiettivi tracciati nell’ultima riunione dei giovani italiani a Stoccolma. Fanno parte di un’italianità che nei Paesi del Nord ha saputo perfettamente integrarsi con la vita pratica e senza fronzoli, eredi di un’emigrazione nata nel 1947 grazie al patrimonio industriale uscito indenne dalle distruzioni della guerra. Formata da manodopera specializzata e, in particolare, da ceramisti, molto richiesti per le fabbriche di ceramiche artistiche di Gustavsberg, gli italiani si insediarono senza formare particolari nuclei regionali.
«Quello che apprezzo della Svezia è il dinamismo sociale. Nella quiete quotidiana svedese è possibile costruire grandi progetti partendo da piccole idee». Paola Moscatelli vive a Stoccolma dal 2000 dopo essersi sposata con Manne, svedese conosciuto in Germania. Laureata in Economia alla Luiss di Roma, lavora presso il Ministero del Lavoro svedese, e si occupa proprio di inserimento degli immigrati nel mercato del lavoro.
«In questo Paese – commenta Filippo Esposito, residente a Helsinborg, nella regione meridionale della Scania, consulente di informatica di un’azienda di Malmoe – ho imparato ad apprezzare la tranquillità della vita anche se mi manca il cibo italiano e la famiglia che ho in Italia. In compenso cucino all’italiana e non vengo meno alla nostra tradizione culinaria».
«Dopo una vita da emigrante – spiega Carlo Taccola, presidente di Italiaclub – tra Francia, Lussemburgo, Germania e Norvegia, sono arrivato in Svezia nel 1964, e la prima cosa che mi colpì fu la sincerità di questo popolo. Sincerità unita alla semplicità. Oggi mi sento italo-svedese e i miei figli sono orgogliosi di essere discendenti di italiani. In casa cerco di trasmettere la mia personalità italiana nelle abitudini svedesi, e di insegnare ai miei figli a studiare e ad accettare le idee e le tradizioni della nazione che ci ospita senza dimenticare l’amore per le nostre tradizioni».
La prima comunità italiana censita in Svezia, sul finire dell’Ottocento, contava un migliaio di persone raccolte intorno alla Parrocchia della Chiesa cattolica di Götgatan, a Stoccolma. Tra queste persone vi furono i fondatori, nel 1909, della Società assistenziale italiana: un’Associazione di mutuo soccorso per l’aiuto in caso di malattia e indigenza. Oggi la Svezia conta almeno 17 Associazioni sparse in un raggio di 600 chilometri.
Alberto Pierobon è trevigiano, ha 26 anni, una fidanzata svedese e tanta passione per la cucina italiana cui provvede in proprio, e per la gioia di tanti amici svedesi. «Io vivo in questo Paese da soli quattro mesi – spiega Pierobon – e mi sposto molto per lavoro. Non ho molto tempo per frequentare le Associazioni ma ho trovato il modo di tenermi in contatto via internet attraverso il mio sito www.italianisvezia.com. Vorrei aiutare altri giovani che decidono di trasferirsi. Mi sento un italiano in Svezia, ma apprezzo molto la capacità locale di non ostentare ricchezze e non fare gare a sfoggiare abiti costosi e firmati. Gli svedesi sono decisamente meno legati ai beni materiali, e giudicano meno in base all’apparenza. C’è più uguaglianza tra le classi sociali, e perfino tra uomini e donne».
L’evoluzione associativa oggi interessa anche il mondo della scienza che nel 2008 ha tenuto la terza riunione dei ricercatori italiani in Svezia. All’incontro hanno partecipato una settantina di ricercatori (sui 200 presenti nel Paese), che operano in modo continuativo in varie istituzioni svedesi, in particolare nelle Università di Stoccolma, Uppsala e Göteborg oltre che in alcune aziende private.
«Lo spostamento di italiani verso la Scandinavia sta riprendendo quota perché in questo Paese esiste un’organizzazione perfetta, e la possibilità di trovare una casa ampia. Il clima e la gente molto riservata sono problemi sormontabili per noi italiani che ci adattiamo facilmente grazie a un carattere estroverso».
Mauro Onori è figlio di un medico delle Nazioni Unite, e ha scoperto la Svezia per amore, dopo cinque anni di lavoro in Inghilterra. È impegnato nel progetto Eupass, nell’ambito dell’ingegneria industriale al Kungliga Tekniska Högskolan (KTH, il Politecnico di Stoccolma). «In Italia non erano in molti a interessarsi al mio tipo di ricerca, e durante una vacanza ho avuto la fortuna di conoscere il professor Arnstörm che mi ha dato fiducia. Oggi gestisco un gruppo di giovani che lavora a progetti che durano 3-4 anni, e ho il compito di creare un nuovo gruppo di ricerca».
Guidati da Piero Mazzinghi, addetto dell’ufficio scientifico dell’Ambasciata d’Italia, gli italiani operano in un Paese considerato un modello ideale per l’innovazione, e al primo posto degli obiettivi dello European Innovation Scoreboard.
«Dopo un’esperienza in Finlandia e a Chicago – ammette Rosario Leopardi, del Karolinska Institute – questo Paese mi ha stupito per la forte europeizzazione che ha compiuto soprattutto entrando nell’Unione europea. Stoccolma, in particolare, è una città molto internazionale, cosa importante per chi come me ha due figli che hanno sempre studiato in inglese. Gli scienziati italiani all’estero sono più competitivi dei colleghi in Italia. Sono persone che hanno goduto di meno privilegi sociali e sono più disposti a “rischiare”. Ci sono poi scienziati che vengono da famiglie influenti in Italia, ma hanno preferito l’estero rinunciando a molte facilitazioni. Per molti si tratta di una vera vocazione alla scoperta scientifica, e questi non tornerebbero in Italia solo con un’offerta di un impiego senza la possibilità di continuare con la loro attività di ricerca».
Formatosi come biologo molecolare e genetista, Leopardi ha scelto la psichiatria clinica come base dei suoi studi professionali e il suo campo d’azione riguarda appunto la biologia e la genetica molecolare di alcune malattie psichiatriche quali, ad esempio, la depressione e la schizofrenia.
«Nella mia vita professionale tendo a interessarmi alle attività interdisciplinari. Ecco perché, di recente, sono stato attratto da un progetto molto interessante propostomi da alcuni colleghi operanti in Italia che vorrebbero trasferire idee e metodologie in ambito medico e psicologico dall’estero in Italia. Tornare in Italia? Certo, chi non ci pensa di tanto in tanto... Oggi, però, la possibilità di lavorare a distanza non mi impone più di pensare a un trasferimento a tutti i costi. Invece, non ho mai pensato di cambiare la mia identità italiana. Ho una moglie siciliana come me, e due figli che si rifiutano di parlare con noi in inglese o in svedese (pur parlando benissimo entrambe le lingue), persino in presenza di ospiti a casa che non parlano l’italiano».
In un Paese scarsamente popolato come la Svezia, gli italiani rappresentano una pattuglia di forze unite di cui gli scandinavi sentono un assoluto bisogno.
«Gli svedesi hanno una moralità e una serietà che in Italia spesso mancano. Nel campo medico, e in particolare in psichiatria, c’è bisogno continuo di colleghi che arrivano dall’estero, in quanto qui l’Università non ne produce abbastanza. Per un giovane medico italiano imparare lo svedese e cominciare a lavorare (con stipendi quantomeno decorosi) non è affatto difficile. Dobbiamo collaborare con i colleghi in Italia, e abbiamo il dovere morale di essere parte integrante dello sviluppo scientifico in Italia e in Europa. Gli italiani, a mio avviso, possono contribuire moltissimo, se ci credono. Come ricordo ai miei figli adolescenti, che a volte si sentono “diversi” in Svezia: con tutto il rispetto per gli svedesi, loro hanno dovuto fare domanda per entrare nell’Unione europea, noi italiani mai, essendone membri fondatori. E, quindi, andiamone fieri!».

Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017