Aspettando la seconda Repubblica

Sui cardini del senso di responsabilità e solidarietà, l’Italia cerca una nuova coesione sociale. I conti, però, si faranno sulle riforme politico-costituzionali.
06 Gennaio 2001 | di

 «Il Paese dei miracoli», ci definiscono all'estero: sarà  il proverbiale stellone italiano, sarà  l'atavica arte di arrangiarsi, sarà  il nostro Dna di navigatori di tanti e tempestosi mari; sta di fatto che riusciamo sempre a cavarcela anche quando ci danno per spacciati, e ad uscire dai pasticci più complicati. Una serie di segnali sembra suggerire che così sarà  anche stavolta, e che il 2001 - primo anno ufficiale del terzo millennio - porterà  un'inversione di tendenza dopo un decennio vissuto all'insegna della tensione e della confusione, a vari livelli.
C'è un evento specifico che rappresenta un appuntamento atteso, e certamente strategico: le elezioni politiche in calendario per la primavera. Da lì ci si attende un chiarimento di fondo, anche perché la legislatura che volge a conclusione è stata comunque traballante, soprattutto per due motivi: l'esistenza di una maggioranza parlamentare abbastanza solida al Senato, ma molto più precaria alla Camera; e il fatto che parecchi parlamentari abbiano cambiato partito e schieramento in corso d'opera, contribuendo così a complicare un quadro già  intricato di suo.
Tutto lascia prevedere che si andrà  a votare con la stessa legge elettorale in vigore ormai dal '94; ma tutto indica anche che questa normativa verrà  comunque cambiata subito dopo, qualsiasi sia lo schieramento vincente. E questo per l'ormai largamente diffusa convinzione che il sistema elettorale maggioritario, adottato da sei anni a questa parte, non sia servito a curare un antico male italiano: l'instabilità  dei governi. Nella cosiddetta prima Repubblica se ne cambiava in media uno ogni nove mesi; nella legislatura che sta per terminare, in cinque anni si sono avvicendati quattro diversi governi.
Se largamente condivisa è l'idea di cambiare, molta minor compattezza c'è sulla direzione da prendere. Nei mesi scorsi, si è andata diffondendo sia nel centrodestra che nel centrosinistra la convinzione dell utilità  di un ritorno al sistema proporzionale, tuttavia con un importante correttivo del tipo di quello adottato in Germania: e cioè un consistente sbarramento (4-5 per cento), che tenga fuori dal futuro Parlamento i partitini minori, e semplifichi dunque un quadro a dir poco caotico. Nessuno oggi è in grado di dire quanti siano esattamente i partiti in Italia, ma siamo comunque sull'ordine della cinquantina.
Certo, non basta cambiare le regole elettorali per assicurare stabilità . Ed è per questo che le elezioni in agenda, pur importanti, non esauriscono i temi strategici all'ordine del giorno del Paese: servono riforme di sistema, che rivedano meccanismi ormai logori o comunque inceppati. E qui c'è da segnalare che il finire dell'attuale legislatura vede finalmente avviarsi, pur con molte fatiche e contraddizioni, un assetto federale con cui correggere il vecchio e deleterio centralismo deprecato da tanti, anzi da (quasi) tutti.
Forse è improprio chiamarlo federalismo, perché quello vero è ben altra cosa. Ma sta di fatto che si sono messi in moto meccanismi di significativo decentramento, con lo spostamento di quote rilevanti di autonomia dal centro ai governi locali. I quali, a loro volta, grazie a una serie di regole istituzionali non marginali, stanno sperimentando forme di stabilità  per il momento ancora estranee al governo centrale.
Succede in maniera particolare per i comuni, dove la legge dell'elezione diretta del sindaco, che gli ha anche conferito una serie di poteri molto più elevati rispetto ai suoi predecessori del passato, ha ormai iniziato a produrre effetti che si toccano con mano. È un provvedimento in vigore da oltre sette anni che ha prodotto un rafforzamento della figura e del ruolo del «primo cittadino», riducendo di molto le vecchie e deleterie crisi di giunta con cambi di maggioranze, e ha consentito di mettere in cantiere programmi di lunga durata.
Ora sta succedendo anche per le Regioni: il 2000 ha segnato l'importante novità  istituzionale dell'elezione diretta dei loro presidenti, con un rafforzamento di poteri ancora più marcato di quanto non sia successo per i sindaci; tanto è vero che è stata loro attribuita dai mass media la qualifica di «governatori», un po' sul modello degli Stati Uniti. Una forzatura, indubbiamente, ma che rende l'idea, e che in qualche modo rappresenta una forma di passaggio verso un impianto federale dell'intero Paese.
Si viene così a creare, oltretutto, un forte legame tra eletto ed elettore, e a porre le basi per una maggiore responsabilità  di chi governa: se Roma, infatti, è lontana, il sindaco e il presidente di Regione devono invece rendere conto a persone, gruppi e associazioni con cui sono praticamente a stretto contatto quotidiano. Per tutti questi motivi, un'altra delle riforme cui si metterà  probabilmente mano nel corso del 2001 sarà  quella della forma di governo, forse giungendo all'elezione diretta anche del premier, come avviene già  in altre democrazie occidentali.
Ma al fondo c'è una Grande Riforma sul tappeto, ed è quella della Costituzione. L'attuale ha ormai mezzo secolo di vita; e pur avendo rappresentato a suo tempo un modello esemplare e apprezzato, appare ormai inadeguata a fronteggiare la complessità  sociale di un Paese come l'Italia, percorso da molti fermenti. Certo, non sarà  possibile esaurire il compito in pochi mesi: si tratta della Carta delle regole dell'intera comunità , destinata a sua volta a durare almeno per qualche decennio; dunque occorre coagulare attorno ad essa, se non l'unanimità , quanto meno una larghissima maggioranza. E ci vorrà  del tempo, prima di mettere a punto un testo che comunque, alla fine, verrà  quasi certamente sottoposto a un referendum popolare.
Tutto lascia credere che questo compito, cui la classe politica si è dedicata invano ormai dalla metà  degli anni Ottanta, si avvii finalmente a una fase concreta proprio nel corso del 2001, uscendo dall'estenuante stagione delle parole fini a se stesse. Non si tratta solo di cambiare alcuni meccanismi istituzionali, ma anche di dare spazio a nuove realtà  emergenti, come appunto la diffusa voglia di autonomia, o come la straordinaria ricchezza dei corpi sociali intermedi, soprattutto dell'articolato e ampio pianeta del volontariato.
La politica, fin qui, è stata innegabilmente in ritardo rispetto a tutti questi fermenti; e in buona parte lo è tuttora. Ma bisogna anche riconoscere che l'Italia ha attraversato un decennio di fortissime turbolenze, con l'azzeramento pressoché totale di un'intera classe partitica, e con una vera e propria rivoluzione che per fortuna si è rivelata pacifica. Il Paese, cioè, è riuscito a uscire da una crisi radicale pagando prezzi alti ma non proibitivi, e sia pur faticosamente è riuscito a rimettersi in carreggiata.
I processi drastici non possono mai essere brevi: non lo sono mai stati in passato, e in nessun Paese; non può sottrarsi alla regola l'Italia. Ma c'è un'economia che è riuscita a riprendersi da una grave crisi, e c'è una finanza pubblica che ce l'ha fatta a risalire quello che sembrava un baratro incolmabile. Molta strada resta da fare, e tuttavia c'è la consapevolezza che bisogna percorrerla assieme, e che alla fine i benefici saranno sicuramente superiori agli svantaggi e alla fatica.
I cambiamenti, di solito, non si riesce mai a coglierli dal di dentro. Ma molti segnali inducono a credere che un giorno, guardandoci indietro e prendendo in esame il 2001 che sta per cominciare, lo vedremo come un anno strategico. Quello in cui l'Italia della lamentazione continua ha saputo rimboccarsi le maniche, e cominciare concretamente a costruirsi una casa più solida per il futuro.

Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017