ASSISTENZIALISMO ADDIO!

Molto severo padre Bartolomeo Sorge con un certo modo di concepire lo stato sociale che, soprattutto al Sud, ha creato disastri. Ma quello, appunto, non è stato sociale...
03 Febbraio 1997 | di

Di tante cose ci lamentiamo, come cittadini dello stato italiano, ma soprattutto di quei servizi sociali e sanitari che giorno dopo giorno sembrano venir meno. Alle giustificate rimostranze ci viene risposto che 'ormai è in crisi lo stato sociale'. Ma cosa ha fatto andare in crisi lo stato sociale e quali saranno le conseguenze di tale situazione? Domande ricorrenti che non trovano risposte chiare. Eppure se ne dibatte in varie sedi. Abbiamo rivolto le stesse domande a padre Bartolomeo Sorge, il gesuita che ha fondato, e ancora dirige, l'Istituto di formazione politica 'Pedro Arrupe' di Palermo e che, da qualche mese, firma il mensile dei gesuiti 'Aggiornamenti sociali' a Milano, con un gruppo redazionale anche a Palermo.

Msa. È davvero finito lo stato sociale o semplicemente questo sistema va riformato e rilanciato?

Sorge. Lo stato sociale è la forma migliore di democrazia che sia stata pensata e realizzata. Sarebbe un controsenso buttarla a mare. Il vero problema è di intendersi su che cosa è e che cosa deve essere lo stato sociale. L'intuizione di base, che rende la democrazia umana e solidale, è quella di uno stato-famiglia, in cui tutti i cittadini sono uguali: non ce ne sono di serie A o di serie B, però con un occhio di riguardo alle fasce più deboli, ai meno favoriti, in modo che possano diventare essi stessi gli artefici della loro promozione.

Ma le cose non sono andate proprio così, soprattutto nel corso degli ultimi anni.

Infatti, lo stato sociale è degenerato, diventando stato 'assistenziale'. Si è sostituito ai cittadini deboli, e con l'elemosina, con miliardi a pioggia verso il Sud, e con altri privilegi gratuiti, di cui molti hanno approfittato, invece di aiutare le fasce più deboli a crescere per raggiungere le più benestanti, le ha viziate. Io dico sempre una frase che non deve scandalizzare: l'assistenzialismo ha prodotto guasti nel Sud non inferiori a quelli prodotti dalla mafia. Infatti, ha espropriato in quelle popolazioni la cultura della imprenditorialità , ha fatto nascere 'amicizie', clientele e clientelismi: una vera piaga! Lo stato deve provvedere - questo è lo stato sociale - perché i cittadini di Palermo o di Napoli abbiano le medesime possibilità  di sviluppo garantite al Nord. Se poi il meridionale non vuol lavorare, se la veda lui; 'chi è causa del suo mal pianga se stesso'.

In che misura l'azione dello stato deve cooperare con l'iniziativa privata?

Privato e pubblico non sono in antagonismo, insieme costituiscono una democrazia matura. È stato l'assistenzialismo a creare lo squilibrio. Lo stato sociale, così diviso tra pubblico e privato, è come un tavolo con due gambe, che non sta in piedi e cade. È mancata, nella realizzazione dello stato sociale ideale, la costruzione della terza gamba, che è la società  civile: la partecipazione attiva dei cittadini che mediano tra il privato e il pubblico. Senza la responsabilità  e la partecipazione della base sociale, non c'è stato sociale, perché diventa assistenziale o si sfascia.

Come risolvere il problema per equilibrare il sistema economico e sociale senza contrapposizioni?

Bisogna superare le due tendenze culturali e politiche del neoliberismo e del neostatalismo. Infatti, la corrente neoliberista dice che lo stato sociale è fallito e va sostituito dal privato. L'altra tendenza va in posizione opposta: via il privato, torniamo a forme di neosocialismo, di neostatalismo, e il privato venga assorbito dal pubblico. Tutte e due queste tendenze sono ideologiche e sbagliate.

La vera soluzione sta nella costruzione di quel terzo elemento, che esiste già , ed è costituito dalle esperienze di volontariato, di movimentismo, dalle varie forme di partecipazione, non escluse le autonomie locali, il federalismo. In definitiva, correggere la deviazione assistenzialistica e costruire una società  matura, una democrazia matura, dove i cittadini partecipano a diversi livelli, secondo il principio di sussidiarietà .

Lei si riferisce al cosiddetto terzo settore; lo considera davvero un soggetto su cui puntare?

È già  una realtà ; si tratta di darle riconoscimento giuridico, di cambiare le istituzioni e quindi la nostra Costituzione nella seconda parte, in modo che questo terzo settore sia a tutti gli effetti un vero soggetto politico; stando attenti a mantenerne l'autonomia da sindacati o partiti, e a impedire che cada nel liberismo. Penso che come modello teorico la strada sia chiara, che storicamente e concretamente esistano già  le premesse per questo discorso. Bisogna avere il coraggio di vincere timori e resistenze per ripensare l'economia libera, fondata sulla comunità  del lavoro e sul concetto di sussidiarietà .

La stessa urgenza di decentramento da uno stato troppo centralizzato è una realtà  positiva; non bisogna avere paura di muoversi lungo questa strada e più i cittadini cresceranno - anche in un regionalismo forte, in un decentramento notevole - più sarà  matura la nostra democrazia.

Non smantelliamo lo stato sociale, ma riformiamolo aprendolo alla democrazia adulta, a un federalismo solidale, capace di rispettare l'autonomia e la libertà  di mercato, e di orientarle verso il bene comune di tutti.

STATO SOCIALE

Stato sociale o Welfare state (stato del benessere) perché proprio in Gran Bretagna si è storicamente realizzato per la prima volta, attraverso un piano di assistenza pubblica propugnato da W. H. Beveridge nel 1942 e attuato dal governo laburista nel secondo dopoguerra: è un sistema in cui lo stato si fa promotore del benessere dei cittadini, fornendo a costi irrilevanti per gli utenti o gratuitamente, una serie di servizi sociali che tutelino tutti ugualmente dalla culla alla tomba: sanità , pensioni sociali, trasporti pubblici, assistenza ai meno abbienti... È una maniera unica per rendere concreta la democrazia.

Lo stato sociale, considerato una delle cose migliori escogitate dall'uomo in questo secolo, male utilizzato dai politici, soprattutto per scopi clientelari, è poi degenerato in un assistenzialismo amorfo che ha dilapidato le risorse della comunità  e impigrito, anziché promuoverlo, l'utente. Ed è entrato in crisi. Praticamente oggi non ci sono più i soldi sufficienti, non solo in Italia, per proseguire su certi livelli. Occorre una sua sostanziale riforma (qualcuno pensa anche all'abolizione). E tutti sono d'accordo. Sul come attuarla, invece, i pareri discordano.

MODELLO A TRE TESTE

di Gianni Maritati

Sulle possibilità  e i modi di riformare lo stato sociale, abbiamo rivolto alcune domande al dottor Giuseppe Roma, direttore generale del Censis (Centro studi investimenti sociali) sullo stato sociale.

Msa. A suo giudizio, quando deve essere affrontato lo scoglio della riforma dello stato sociale?

Roma. I tempi sono non urgenti, ma urgentissimi! Bisogna intendersi, però, sul tipo di riforma che si vuole attuare. Senza dubbio, occorrono molti tagli alla spesa, ma è necessario anche - direi soprattutto - un generale riordino. Un'opera di riorganizzazione e di razionalizzazione, nell'ambito della quale non si può escludere che per certi settori occorrano anche degli aumenti di spesa (naturalmente, mi rendo conto che questa idea è controcorrente). Occorre, inoltre, più attenzione alla politica della famiglia per combattere il crollo demografico del paese. Quello per la famiglia è un investimento produttivo. Invertire il trend negativo della natalità  significa ringiovanire la popolazione nazionale e quindi riequilibrare il rapporto tanti-anziani/pochi-giovani, che crea - com'è noto - non pochi problemi al sistema pensionistico. Come l'aziendalizzazione delle strutture sanitarie ha dimostrato, s'impone una nuova equità  nel rapporto stato-cittadino. Oggi il cittadino italiano - caso unico in Europa - paga allo stato più di quanto riceve. Una situazione diventata ormai intollerabile.

Come dare, nell ottica di questa riforma, un futuro meno incerto alle nuove generazioni?

In realtà , le nuove generazioni dovranno sempre più adattarsi a un futuro incerto. Il nuovo secolo che ci attende, dopo il fatidico Duemila, sarà  all'insegna dell'incertezza, dell'insicurezza. Veniamo da un passato di certezze e di sicurezze che ormai dobbiamo essere capaci di lasciarci alle spalle. Il lavoro sarà  sempre più flessibile, ai giovani verrà  chiesta una sempre maggiore mobilità  professionale e logistica. La sfida si gioca sul terreno di una nuova mentalità : le nuove generazioni dovranno aggiornarsi continuamente, essere capaci di rischiare, di mettersi in discussione, essere sempre pronte a cambiare e a reinventarsi. Non andremo certo verso la pura legge della competizione individuale, ma nel nuovo secolo sarà  sempre più necessario attrezzarsi e autogestirsi, senza affidare tutte le soluzioni dei nostri problemi alle grandi 'agenzie' della certezza, come la famiglia o lo stato.

A quali criteri dovrà  ispirarsi, secondo lei, il nuovo modello di stato sociale?

Secondo me occorre un maggiore ricorso alla 'mutualità ', cioè a una più diffusa compartecipazione dei gruppi e degli individui agli obiettivi sociali. Al tempo stesso, vedrei molto positivamente uno sviluppo del privato-sociale, del volontariato, come terzo soggetto di offerta di servizi accanto al mercato e al pubblico. Un modello a tre teste, insomma. Bisogna consentire a ogni cittadino di seguire percorsi più flessibili e personalizzati. Inoltre, le grandi emergenze - previdenza, sanità , casa, famiglia, lavoro

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017