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Senza spigoli.
Quote rosa nei Cda
Più donne ai vertici aziendali: un cambio di mentalità per un beneficio alla nostra economia.
Potremmo pensare che la scarsità di donne ai vertici politici ed economici del Paese riguardi soltanto le ambizioni di quante vorrebbero fare carriera. Se pensassimo così, sbaglieremmo. È un problema che coinvolge non solo tutte le donne, ma tutta una società: la caduta di barriere e pregiudizi ad alti livelli ha un forte valore simbolico, e permette di selezionare i migliori talenti pescando in un bacino più ampio.
Che i simboli agiscano con forza lo si è visto alle primarie delle presidenziali americane, quando, all’inizio, su Barack Obama convergeva il voto dei neri e su Hillary Clinton quello delle donne. L’invidia femminile agisce fino a un certo punto: più donne arrivano a posti di comando e più si rafforza in tutte la consapevolezza di non essere la metà inferiore del cielo. Quanto allo spreco di talenti di cui si macchia l’Italia, questo vale per le donne come per i giovani: chi ha il potere lo conserva con le unghie e con i denti passandolo poi ai fedelissimi, di fatto escludendo molti meritevoli in grado di fare meglio dei raccomandati. Vanno perciò considerati con favore i segnali che arrivano dal mondo delle manager, donne da sempre abituate a pensare che la carriera tocchi a chi è più bravo e lavora di più, senza tentazioni di «quote rosa». Bene: ora l’80 per cento tra loro ha avuto un’inversione di tendenza, ed è favorevole a introdurre dei correttivi per portare più donne nei Consigli di amministrazione, laddove risiede il maggior potere decisionale delle aziende. L’onorevole Lella Golfo ha presentato nei mesi scorsi una proposta di legge per far salire la presenza femminile nei Cda delle società quotate in Borsa, ora ferma a un misero 4 per cento. Una specie di «quota rosa» dell’economia, da usare per il tempo necessario a scrollare una società ingessata come la nostra.
Gli argomenti usati da chi è favorevole a simili provvedimenti sono vari. Uno di essi è che l’avanzata delle donne ai vertici del potere economico è contrastata in ogni modo, ed è quindi troppo lenta per essere lasciata al suo corso naturale. Eppure proprio la crisi ha fatto registrare migliori guadagni e minori livelli di rischio nelle aziende con maggiore presenza femminile ai vertici. Altro fattore: le donne rappresentano almeno la metà dei consumatori. Non sarebbe allora utile che nelle «stanze dei bottoni» ci fossero più rappresentanti del loro sesso, capaci di interpretarne meglio bisogni e dinamiche?
Ma c’è un argomento ancora più convincente. Ormai le ragazze si laureano più dei ragazzi e con voti migliori. Tenerle fuori da prospettive di carriera significa rinunciare a talenti sicuri. In Italia si è fin troppo bravi a scoraggiare i meritevoli, salvo poi lamentarsi della «fuga dei cervelli».
Rosanna Biffi
Non fa notizia
Cecenia
«Chi difende i diritti umani è in pericolo di morte. Gli omicidi politici sono la norma, non l’eccezione». Queste le parole di Svetlana Gannushkina (nella foto), responsabile di Memorial, associazione russa per i diritti umani, che denuncia la grave situazione sociale nel suo Paese. «La repressione utilizzata in Cecenia si è ormai estesa a tutta la Federazione russa». E la situazione nella regione del Caucaso settentrionale, già teatro di due guerre, continua a peggiorare. «La Russia è riuscita a mantenere il conflitto interno alla regione, lasciando la politica in mani cecene. Ramzan Kadirov e i suoi fanno quello che vogliono. Non c’è legge. E la paura ormai forma la mentalità dei ceceni».
PeaceReporter
Osservatorio Onu
Caschi Blu inefficaci?
Un rapporto sulla missione nella Repubblica Democratica del Congo mette in discussione l’utilità dei contingenti Onu.
Arrivati per portare la pace, i Caschi Blu dell’Onu rischiano di diventare testimoni inermi dei massacri più terribili. L’avvertimento arriva dall’organizzazione «Human rights watch», autrice di un rapporto che documenta l’uccisione di almeno 1.400 civili, l’anno scorso, nella Repubblica Democratica del Congo. Il contigente Onu dispiegato nel Paese africano – il più grande al mondo dopo quello impegnato in Sudan – agiva in cooperazione con le forze armate congolesi, che si sarebbero macchiate dei crimini più ignobili, uccidendo a colpi di machete persone innocenti. Insomma, un esercito di carnefici, non certo quei «liberatori» incaricati, assieme alle Nazioni Unite, di combattere i ribelli della Forza democratica di Liberazione del Rwanda. Nel rapporto, «Human rights watch» chiede all’Onu di elaborare al più presto una strategia di protezione della popolazione civile e di non trasformare i Caschi Blu in soldati impotenti.
Matteo Bosco Bortolaso
Cristiani nel mondo
Corea del Nord. Isolata e autoritaria
Solo i cristiani aiutano e accolgono i fuggitivi.
Sono poche le notizie che filtrano dalla Corea del Nord. Il pugno di ferro della dittatura di Kim Jong-il controlla popolazione e informazione. Negli ultimi anni è riuscito perfino a nascondere per molto tempo la carestia e la morte per fame di quasi 2 milioni di persone. Le uniche notizie che si riescono ad avere sono quelle che provengono da gruppi religiosi e organizzazioni non governative che, con molte difficoltà, hanno ottenuto il permesso di lavorare al Nord o sono impegnati nell’accoglienza dei numerosi fuggitivi.
Le fonti di notizie sono infatti soprattutto i profughi nordcoreani. Nel Sud ve ne sono almeno 20 mila. Grazie ai loro contatti coi familiari, essi riescono ad avere informazioni sulla povertà, sull’inflazione, sulle violenze assurde del regime, sui piccoli segni di dissenso. Ma, mentre il governo di Seoul non si fida troppo degli esuli nordcoreani, essi vengono accolti e aiutati da cristiani protestanti e cattolici. La Chiesa cattolica sudcoreana ha una serie di progetti umanitari tesi verso il Nord, che porta avanti da decenni. Tra i più noti vi sono il «Centro per l’unità», al confine tra i due Paesi, e l’ospedale in Corea del Nord retto dai religiosi di sant’Ottone, l’unico sanatorio religioso che ha il permesso di operare sul territorio nazionale.
p. Bernardo Cervellera
Le parole della nostra vita
Ci amiamo, non c’amiamo
Non è questione di sentimenti, ma di apostrofo: nello scrivere, la «i» di «ci» è proprio necessaria.
Dolce è la c
Provatevi a sfogliare un giornale: prima o poi vi troverete di fronte a forme verbali tipo c’amiamo o c’odiano, c’unisce eccetera. Errori da matita blu, come si diceva una volta. Ecco perché.
La c ha suono palatale, cioè dolce, davanti ad i ed e; suono gutturale, cioè duro, davanti ad a, o, u; e questo lo sanno anche i bambini. Se diciamo «cera», il suono della c è dolce. Lo stesso se diciamo «c’era», che sta al posto di ci era, dove la i di ci è caduta e al suo posto è andato l’apostrofo. Ma se partiamo da «ci amiamo», non possiamo togliere la i e mettere al suo posto l’apostrofo, perché la c verrebbe a trovarsi davanti ad a, e cambierebbe suono: proprio come se avessimo scritto «camiamo». Lo stesso vale per ci odiano, ci unisce o ci azzecca: dobbiamo tenerci il nostro bravo pronome ci per intero. Anche se nella pronuncia quella i è diventata così corta che sembra volata via, nello scrivere dobbiamo conservarla per difendere il suono dolce della c.
Eurolandia: cos’è?
Già è difficile capire cos’è l’Europa. Come se ciò non bastasse, per confonderci le idee ecco apparire in giornali e telegiornali il nome fiabesco di Eurolandia. Fa pensare a luoghi, reali o virtuali, il cui nome è composto con il suffisso anglosassone land che vuol dire «terra», come Disney-land, Future-land, Wonder-land, Never-land... Ma se scomponiamo la parola scopriremo che Eurolandia non è formato da Europa più land come a dire «terra d’Europa», ma da euro più land come a dire «terra dell’euro». Di fronte alle incertezze di una nuova patria, sulle cui radici nemmeno ci siamo messi d’accordo, il linguaggio giornalistico si rifugia nell’unica nostra certezza identitaria, l’euro. Non ancora figli d’Europa, siamo già figli di una Banca Centrale.
Paolo Pivetti
Oblò
Mezzi di corruzione di massa.
La televisione e i mezzi di informazione ci stanno proponendo un’immagine del mondo che ci deve preoccupare. Chi sono oggi i protagonisti nei mezzi di informazione? Di chi si parla e a quali comportamenti umani facciamo continuamente riferimento? A mio modo di vedere, la situazione va sempre più peggiorando. Certamente la prostituzione, i viados, la corruzione nell’ambito delle istituzioni e della politica sono sempre esistiti. Ma la presenza, da protagonisti, di individui che non possono essere dei modelli di comportamento, diventa sempre più frequente e viene implicitamente giustificata dai mezzi di informazione di massa. L’altro giorno ero seduto a un tavolo di un ristorante per un pranzo. Mi ha avvicinato la proprietaria e mi ha detto: «Ma perché quel viados deve diventare una star mentre io fatico e lavoro onestamente per vivere?».Già: l’onestà, il lavoro, le fatiche quotidiane non fanno notizia. La notizia è nei cinque o dieci mila euro guadagnati come sappiamo da chi sappiamo. E tutto questo, purtroppo, quando viene amplificato mediante un passaggio attraverso i mezzi di informazione di massa, sembra diventare normale, naturale, comprensibile. Succede quando nei media, a cominciare dalla televisione ma non solo, prevale una pericolosa pedagogia negativa.
Sabino Acquaviva