Australia. Una lezione di vita
La crisi economica degli ultimi anni ha spinto molti giovani italiani a cercare lavoro all’estero, soprattutto nelle grandi metropoli come Londra e Berlino. I più coraggiosi, animati anche da spirito di avventura, hanno optato per l’Australia. Ma l’ondata di arrivi si sta attenuando. Forse l’apice è stato raggiunto nel 2013, con oltre 20 mila giovani approdati nella terra dei canguri con il visto Working Holiday (Lavoro-vacanza). Oggi, invece, si parla di 15 mila.
La realtà è che l’Australia, pur godendo della fama di Paese delle grandi opportunità, adotta una politica molto restrittiva sulla residenza e la cittadinanza. I giovani che arrivano con il permesso di lavorare per un anno o di studiare si aspettano di poter rimanere qualora trovino un buon lavoro. Purtroppo non è così. Oltre il 90 per cento ritorna in patria, spesso amareggiato e deluso. Sono meno di 900 i permessi di residenza permanente. A fronte di 123.438 stranieri provenienti da 190 nazioni diverse, nel 2012-13, solo 694 cittadini italiani hanno ottenuto anche la cittadinanza australiana, lo 0,56 per cento del totale. È un numero davvero irrisorio. Oggi rimanere in Australia è un lusso per pochissimi. Il visto di residenza «permanente» lo si può avere se si trova uno sponsor pronto a «dimostrare» che non trova «in loco» (Australia) una persona capace di fare quel determinato lavoro; deve pagare 1000 dollari, e fare un contratto di assunzione di 2 anni. L’operaio specializzato o professionista deve, a sua volta, pagare circa 7.000 dollari (euro 5.000) e presentare i certificati che dimostrano le qualifiche, la conoscenza dell’inglese e avere tre anni di lavoro nel suo Paese dimostrabili con la busta paga. Pochi sponsor sono disposti ad assumersi questo rischio.
L’Australia promuove il progetto «Lavoro-vacanza» per i giovani con le parole «accoglienza, ospitalità, scambio di esperienze, arricchimento culturale». Ma nello stesso tempo li mette in guardia da possibili condizioni di sfruttamento da parte di hotel, ristoranti, pizzerie, panifici, aziende agricole che offrono loro un impiego. Non esiste alcuna garanzia di lavoro continuativo. In molti casi il datore di lavoro avvisa il giovane con un sms: «Domani lavoro, sì o no». Chi volesse ottenere il visto per un secondo anno è «obbligato a lavorare per un minimo di tre mesi in località regionali e remote dell’Australia», cioè nelle campagne, magari per 10 ore al giorno a temperature di 40 gradi.
La soluzione «Lavoro-vacanza» attira molti giovani anche da Paesi sviluppati. Su oltre 200 mila visti, la nazione con il maggior numero di domande è l’Inghilterra con circa 40 mila richiedenti. Seguono Corea del Sud, Taiwan, Germania (oltre 30 mila) e Francia con 25 mila. Questo indica che non ci troviamo di fronte a un fenomeno di «emigrazione», ma di «mobilità» giovanile. Di certo si tratta di un’esperienza formativa, come spiegano gli stessi giovani al rientro in patria: «Ho dovuto fare dei lavori che in Italia non prendevo neppure in considerazione». Come a dire che è stata soprattutto una lezione di vita!