Aziende amiche della famiglia
Alla scrivania senza l’ansia di gestire i figli in vacanza dalla scuola o il genitore non più autosufficiente che ha bisogno di assistenza. Il sogno di milioni di lavoratori è già realtà in alcune aziende, più spesso di grandi dimensioni, che hanno scelto di far diventare il benessere dei propri dipendenti un fattore strategico e competitivo. Un benessere che ha tre parole chiave, in relazione tra loro: «conciliazione» tra «famiglia» e «lavoro», e che ha infinite declinazioni a seconda del tipo di azienda, della sensibilità del management, delle relazioni che si vengono a creare con i lavoratori, i sindacati e il territorio in cui ha sede l’azienda. Grazie a questo mix di fattori, Luxottica, per esempio, azienda leader dell’occhialeria, è stata tra le prime in Italia a varare un vero e proprio welfare aziendale, un sistema di servizi e di benefit, in gran parte contrattato a livello sindacale, che va dall’estensione dell’orario flessibile ai servizi per la prima infanzia, dal finanziamento di alcune spese per l’istruzione ai campi estivi per i ragazzi, dal sostegno al reddito tramite – solo per citare una delle iniziative – i buoni spesa alla sperimentazione di nuove forme di organizzazione del lavoro come il «job sharing familiare», che permette al coniuge o al figlio del dipendente di sostituirlo per un periodo limitato.
Tra le misure di conciliazione possibili ci sono anche i servizi di time saving, che fanno cioè risparmiare tempo al lavoratore nella gestione della vita familiare. I dipendenti di Bracco, multinazionale specializzata nella diagnostica per immagini, per esempio, possono accedere al take away, il servizio che prepara la cena per casa o all’easy laundry, la lavanderia a portata d’ufficio. Particolarmente apprezzate le misure a favore degli anziani, compreso un servizio di assistenza domiciliare gratuita per le urgenze.
Aziende come queste appaiono sempre più spesso sulle pagine dei giornali, inclusi quelli economici, ma il fatto stesso che «creano notizia» è la spia di un’eccezionalità che fa a pugni con la regola. Nonostante ciò, c’è una tendenza in atto. «Sempre più aziende sono interessate ai temi della conciliazione – afferma Sara Mazzucchelli, sociologa, curatrice della ricerca Conciliazione famiglia e lavoro dell’Osservatorio nazionale sulla famiglia –, ma soprattutto sempre più aziende adottano misure di conciliazione senza che neppure se ne rendano conto, come la flessibilità in entrata concessa ai papà che accompagnano i figli a scuola o il part time reversibile alle mamme che rientrano al lavoro».
Insomma, nonostante le apparenze, famiglia e lavoro stanno cercando un nuovo equilibrio. Gli indizi già ci sono. Non è un caso che le multinazionali, che non sono propriamente enti di beneficenza, siano spesso gli avamposti della conciliazione tra famiglia e lavoro. Così come non è un caso che la conciliazione sia ai primi posti nell’agenda europea, segno che le istituzioni comunitarie la considerano cruciale per la definizione dello stile di vita e dell’identità culturale del continente.
In questo panorama è lecito domandarsi se queste aziende pro famiglia siano solo isole dorate, abili operazioni di marketing, sprazzi di un neopaternalismo illuminato o siano piuttosto nuove forme di gestione del personale, modelli inediti di organizzazione del lavoro, prove tecniche di un futuro possibile.
I volti del welfare aziendale
Dare un volto organico alla conciliazione famiglia e lavoro, in Italia ma anche in Europa, è assai difficile. Le ricerche sul campo sono parziali, legate ad alcuni territori o alcune aziende, mentre la legislazione varia da Paese a Paese; in Italia le aziende dichiaratamente impegnate in politiche di conciliazione sono soprattutto al Centro-Nord, in particolare in Emilia Romagna, Lombardia, Piemonte, Toscana e Veneto. C’è qualche esempio significativo anche al Sud, in Puglia e in Sicilia in particolare. Di grande interesse alcuni studi condotti dall’Osservatorio nazionale sulla famiglia, diretto dal sociologo Pierpaolo Donati, ma anche qui la sottolineatura è ancora sulle buone pratiche, sull’analisi delle aziende che le adottano in un dato territorio, sul supporto legislativo europeo e nazionale alla conciliazione.
Ma chi sono queste imprese? «Il welfare aziendale più strutturato e formalizzato è quello delle grandi aziende – afferma Elena Macchioni (Università di Bologna) –, in genere multinazionali che producono beni e servizi legati al benessere della persona o all’alimentazione. Un altro gruppo è formato da aziende che hanno case madri o forti contatti con Paesi più avanzati in tema di conciliazione. Ci sono tuttavia tantissime piccole e medie imprese che realizzano misure di conciliazione in modo informale e spesso inconsapevole».
Informalità delle misure, comunque, non significa solo svantaggi: «permette di personalizzare la misura, pur avendo come limite il fatto di dipendere dal buon rapporto con l’imprenditore, di essere revocabile in qualsiasi momento e di non essere disponibile per altri colleghi. Di contro, la conciliazione formalizzata è per tutti, è spesso contrattualizzata con i sindacati, ma è difficile che calzi a pennello al singolo caso».
A usufruire di questa forma di welfare sono specialmente le donne su cui ancora grava il carico della vita familiare, ma inizia ad aumentare la quota degli uomini che vi fanno ricorso «soprattutto per servizi e benefit, ancora poco per misure come congedi e flessibilità» afferma Mazzucchelli. «I temi della conciliazione – continua la studiosa – diventeranno sempre più cruciali per tutti e attraverseranno l’intero ciclo di vita delle famiglie e degli individui, non solo quando avranno un figlio piccolo, ma anche quando saranno alle prese con un figlio adolescente o con un genitore bisognoso di cure, oppure con la semplice necessità di avere un periodo di formazione, in un mondo del lavoro in perpetuo mutamento».
Cambiamenti epocali
La difficoltà di conciliare famiglia e lavoro è un problema relativamente recente; per decenni le due sfere hanno convissuto separate e distanti. Che cos’è successo? «Crediamo di vivere nella post modernità – afferma Elena Macchioni –. In realtà su questi temi siamo impregnati di cultura moderna, quella cultura cioè che affonda le radici nella rivoluzione industriale e nella netta divisione tra vita pubblica e privata, che si è rafforzata in epoca fordista e che prima non esisteva. Al centro di quello che noi sociologi chiamiamo “compromesso sociale di metà secolo” c’è la figura del male breadwinner, il lavoratore maschio che procura il pane e lavora fuori casa, contrapposto alla donna, madre e moglie, angelo del focolare, intenta alla cura della prole». Lo stato sociale, allora molto forte, interveniva laddove la famiglia non riusciva a coprire le necessità.
Ogni lavoratore entrava in azienda dopo gli studi e ne usciva in età pensionabile. Unico obbligo per l’azienda era quello di garantire un posto di lavoro e uno stipendio sufficiente al mantenimento della famiglia. «A un certo punto – continua la studiosa – quel compromesso si rompe e avviene una serie di grandi cambiamenti che coinvolgono tutte le sfere di vita. La massiccia entrata delle donne nel mondo del lavoro non è che uno di essi. Lo stato sociale entra in profonda crisi e s’inizia a parlare di nuovo welfare, basato su più attori e sul concetto di sussidiarietà. Il modello fordista dell’organizzazione del lavoro si rompe e il modo di produrre è sempre più governato dalla parola flessibilità».
Le aziende per prime ne hanno bisogno, per i picchi di lavoro, per un mercato che, soprattutto dopo l’avvento di internet, richiede risposte in tempo reale, fuori dagli schemi e dagli orari. Nel frattempo, le donne hanno elevato il loro livello d’istruzione e dimostrato abilità particolari sul lavoro, richieste dalle aziende, ma sono al contempo rimaste ancorate ai vecchi ruoli. «È anche in corso, in modo più o meno cosciente – interviene Mazzucchelli –, una rinegoziazione dei ruoli all’interno della coppia. In questo contesto rientrano la rielaborazione della figura del padre e nuove richieste di presenza e di cura da parte dei maschi delle nuove generazioni, specie i più istruiti e con ruoli di responsabilità nelle aziende». Tutto questo processo è accelerato dal passaggio epocale dalla famiglia allargata a quella nucleare, con nuovi e irrisolti bisogni. «E così – conclude Macchioni – le due sfere sociali, il lavoro e la famiglia, sono sempre più complessi e articolati, non vivono più in modo così separato, ma tendono a sovrapporsi, creando nuove istanze e necessità di conciliazione e nuovi attori di welfare. Siamo nel pieno di questo processo e ce lo trascineremo per decenni».
I vantaggi della conciliazione
Ciò non significa automaticamente che se l’impresa si ritrova in casa il problema per forza lo riconosca e decida di rispondere. I tempi forse non sono ancora maturi; tuttavia, dal fronte degli imprenditori più illuminati, pionieri della conciliazione, inizia a farsi strada un’evidenza finora sostenuta solo dagli esperti in materia: la conciliazione conviene, non è una spesa a perdere, né un’operazione di mera filantropia, ma un investimento che paga a lungo termine. Dalle colonne di «Affari & finanza» di «Repubblica», Pier Paolo Pizzimbone, amministratore delegato del gruppo Biancamano (che opera nel settore dell’igiene ambientale, ha 3.700 dipendenti in tutta Italia e un nutrito programma di welfare aziendale), fa sapere che «la crescita non passa solo per i numeri del bilancio, ma anche attraverso un progresso condiviso dai lavoratori». I progetti avviati in tre anni hanno incrementato sensibilmente il senso di appartenenza dei dipendenti e la produttività: «Abbiamo registrato un crollo del 24-25 per cento delle assenze spot».
Ma se le aziende grandi hanno le spalle grosse e possono permettersi ingenti investimenti, molte forme di welfare aziendale sono alla portata anche delle piccole e medie imprese. E chi ha provato non tornerebbe indietro. È il caso di Bem service center di Abbiategrasso (MI), 13 lavoratori, quasi tutte donne: una piccola azienda di servizi per le piccole e medie imprese del commercio e del turismo, che va a gonfie vele e che ha vinto il Premio Famiglia Lavoro della regione Lombardia, per la miglior iniziativa di flessibilità. «Ho sempre messo la qualità della vita al primo posto – spiega Brunella Agnelli, la titolare – e in azienda abbiamo sempre cercato di essere flessibili. Ma all’inizio è stato controproducente: la flessibilità di alcuni diventava un aggravio per altri, con conseguenze pesanti sulle motivazioni del personale e sul lavoro. Approfittando del bando dell’art. 9 della legge 53/2000, che metteva a disposizione finanziamenti per la conciliazione, abbiamo deciso di riorganizzare completamente la struttura, avvalendoci di un manager delle risorse umane. Abbiamo ridefinito ruoli, investito in formazione, riequilibrato i tempi. Oggi siamo più flessibili di prima, più competenti, più complementari, più motivati e più corresponsabili. E con noi sono cresciuti anche gli utili. I clienti rimangono colpiti dalla professionalità e dall’entusiasmo che si respira in azienda e molte piccole imprese ora ci guardano con interesse. La fatica iniziale sta più nel cambiamento di mentalità che nel costo effettivo. Un investimento davvero sostenibile e proficuo».
A caccia d’informazioni
Chi decide di imboccare la via della conciliazione in maniera «ufficiale», non ha all’inizio vita semplice. Ci sono alcune leggi innovative, bandi per concorsi e finanziamenti a livello regionale, provinciale o statale e percorsi di audit (vedi riquadro). Il problema è che ci vuole buona volontà sia per individuare chi ha le informazioni giuste, sia per districarsi nella burocrazia. In genere a possedere le informazioni sono le Province e le Camere di commercio, ma potrebbero essere anche le associazioni di categoria oltre, ovviamente, al Dipartimento delle politiche per la famiglia. Ci sono poi consulenti specializzati in conciliazione, da rintracciare luogo per luogo. Inutile dire che non in tutta Italia ci sono sportelli e specialisti ad hoc, ma in compenso internet può fornire buone informazioni.
«La conciliazione famiglia e lavoro – conclude Mazzucchelli – funziona soprattutto dove ci sono territori accoglienti, che mettono in rete le risorse. Una piccola azienda non può permettersi un asilo nido, ma può mettersi in rete con altre e dare in appalto il servizio, per esempio, a una cooperativa. Al contrario, se non c’è sinergia avvengono quelli che io chiamo “corto circuiti di conciliazione”, come quando un’azienda illuminata concede il part time a una neomamma, ma questa perde il posto all’asilo nido comunale proprio perché ha il part time».
La crisi potrebbe infliggere un duro colpo alle fragili gambe della conciliazione famiglia e lavoro in Italia, mentre essa con il suo carico d’innovazione a livello sociale e organizzativo potrebbe essere parte della soluzione per rendere il Paese più flessibile e competitivo.
Secondo Pierpaolo Donati, l’Europa – e di conseguenza anche l’Italia – è a un bivio: deve decidere se mantenere l’attuale modello di organizzazione incentrato sul lavoro che copre i buchi con una conciliazione assistenzialistica e posticcia o se invece vuole puntare su un nuovo modello partecipato e sussidiario, che ha al centro la relazione e le reti. La società europea di domani comincia proprio da qui.
Laboratorio Trentino
Il primo territorio in Italia a utilizzare un audit, cioè un processo di certificazione che attesta che una data azienda ha attuato una politica di riorganizzazione per conciliare la famiglia e il lavoro, è la Provincia di Trento nel 2006. Stefano Fugazza, consulente senior di Altis, Alta scuola impresa e società dell’Università Cattolica di Milano, fu tra i pionieri di quell’esperienza.
Msa. Che cosa caratterizza questo processo?
Fugazza. Il fatto che sono alcune figure esterne, consulenti e valutatori, ad aiutare l’azienda nel percorso di conciliazione. Il buon esito viene poi certificato da un marchio.
Da dove nasce l’esperienza dell’audit?
Già dal 2004 la Provincia ha perseguito l’obiettivo di incrementare la natalità promuovendo il benessere delle famiglie e ha deciso di far diventare il proprio territorio family friendly, un territorio cioè dove la famiglia si trovi bene e possa espletare i propri compiti. In base a questo obiettivo, ha definito il concetto di Distretto famiglia, un ambito in cui diversi attori presenti sul territorio, dall’esercizio commerciale al museo, dalle funivie agli hotel, danno il proprio contributo specifico in vario modo, con sconti per famiglie, luoghi attrezzati, servizi ad hoc. All’appello mancava l’azienda, da qui l’idea di importare l’Audit Famiglia & Lavoro dalla Germania e in seguito di elaborarne uno proprio, il Family Audit, che ora è stato assunto in via sperimentale dal Dipartimento per le politiche della famiglia.
Qual è l’obiettivo per il futuro?
Quello di creare sinergie all’interno del territorio. Una delle linee è quella di mettere in contatto gli offerenti di servizi di conciliazione con chi domanda conciliazione. Si sta cercando di definire una piattaforma di accesso sul web a questi servizi, per cui un dipendente di un’azienda che ha aderito al progetto può dal proprio videoterminale consultare i servizi a disposizione e individuare quello di cui ha bisogno: dai servizi di doposcuola a quelli per anziani disabili a quelli di lavanderia o di idraulica. Una tale organizzazione aprirà una possibilità di opzioni impensabile e alla portata della piccola e media impresa.
Il Ministero
Quali politiche per la conciliazione?
Il Dipartimento per le politiche della famiglia in seno al Ministero competente è nato appena nel 2006; tra i suoi compiti è stata inserita anche la conciliazione vita e lavoro, area di cui è responsabile Francesca Pelaia. In tutti questi anni al centro della discussione c’è stata proprio la gestione dell’articolo 9 della legge 53 del 2000, il quale consente agli imprenditori che presentino un progetto di conciliazione per la loro azienda di ottenere un finanziamento, «una legge complessa che ha dimostrato una serie di limiti, a cui abbiamo cercato di porre rimedio nel corso di questi anni».
Msa. La legge, sulla quale molti attori sul territorio contavano, oggi è sospesa. Non le pare che in questo modo s’interrompa un processo virtuoso che era in atto?
Pelaia. La sospensione ha più ragioni. La prima: non ci sono più i fondi. La seconda è più complessa. La misura era stata introdotta in via sperimentale nel 2000 e fino a oggi ha prodotto molte indicazioni utili: è venuto il momento di metterle a frutto, passando dalla fase sperimentale a misure di sistema, magari meno generose ma accessibili a tutti, non solo a chi riesce a ottenere il finanziamento.
Sì, ma non si rischia un vuoto di leggi e di punti di riferimento?
Abbiamo aperto alla sperimentazione un’altra misura: è il Family Audit, il processo di certificazione che interviene sull’organizzazione aziendale per migliorare la conciliazione tra vita e lavoro. Abbiamo scelto questa misura perché è utilizzata con successo in Trentino, ma anche perché introduce un know how specifico nelle aziende. Durante la sperimentazione dell’articolo 9, ci siamo resi conto che molte aziende non avevano mezzi e capacità per elaborare politiche di conciliazione in autonomia. Il Family Audit consente alle aziende di intraprendere un percorso costruito su misura, guidati da un consulente esperto. Già 30-35 aziende hanno aderito al bando.
Non le pare che un audit, con il suo processo lungo e complesso, possa intimidire soprattutto le piccole aziende?
Mi rendo conto che il termine audit possa allarmare. In realtà il processo è piuttosto soft, non è vincolante ed è una grande opportunità per le aziende, perché permette loro di usufruire di esperti molto qualificati. In secondo luogo, a differenza della legge 53 che era a fondo perduto, il Family Audit prevede un contributo minimo delle aziende. E questo serve a responsabilizzarle, a innescare un percorso di cambiamento culturale.
- All’art. 9 stanzia contributi alle imprese che intendono realizzare azioni di conciliazione.
- Azioni finanziate: le misure di flessibilità, la formazione per chi rientra dai congedi di paternità o maternità, la sostituzione del titolare d’impresa in caso di paternità o maternità.
family audit
- Strumento manageriale che permette di monitorare la gestione del personale e individuare obiettivi e interventi per migliorare la conciliazione vita-lavoro.
- Nasce in Germania, ma la Provincia autonoma di Trento ne ha elaborato uno proprio, ora assunto in via sperimentale dal Ministero.
premi
- Sono premi gestiti da diversi enti locali attributi alle aziende per le loro politiche di conciliazione. Usano solo marginalmente la leva economica.
- I più importanti sono il Premio Amico della famiglia del Dipartimento politiche familiari e il Famiglia Lavoro della Regione Lombardia.
Misure di conciliazione / Famiglia Lavoro
1 – Flessibilità
Orario flessibile, flexiltime (autodefinizione dell’orario), banca delle ore, telelavoro, part-time, job-sharing
2 - Servizi di cura
Nidi aziendali, centri estivi, assistenza anziani
3 – Congedi parentali
Congedi di cura, di formazione, di interruzione di carriera
4 – Rientro da congedo
Azioni di sostegno e formazione
5 – Buoni
Buono mensa, buono spesa, buono trasporto, borse di studio, facilitazione acquisti
6 – Servizi specialistici
Servizi di salute, servizi assicurativi, servizi finanziari (mutui, prestiti) consulenze varie
7 – Salva tempo
Lavanderia, catering, maggiordomo aziendale
MANTOVA
Territorio a misura di famiglia
La provincia di Mantova è, in Italia, uno dei territori più avanzati in tema di conciliazione vita e lavoro. Da dove parte questa esperienza e che frutti sta portando?
Appena fuori dal centro storico, ma ancora nel cuore moderno di Mantova, tra un groviglio di palazzine, si staglia la sagoma imponente delle confezioni per uomo Lubiam, un grande edificio anni ’30 in mattoni faccia vista, retaggio di antichi fasti industriali. Da qui parte un breve viaggio all’interno di un territorio privilegiato, quello di Mantova, che ha fatto della conciliazione tra vita e lavoro il suo fiore all’occhiello. Lubiam ne è l’emblema.
L’azienda, che da tre anni registra un aumento degli utili del 20 per cento l’anno, ha conservato a Mantova la produzione di qualità. Vi lavorano 280 persone, in maggioranza donne, tutte altamente specializzate.
L’interno, che rammenta quelli degli anni ’70, è tappezzato da istallazioni e grandi quadri moderni, frutto del Premio Lubiam, fondato nel 1972. Da tre anni l’azienda, che ha appena compiuto il secolo di vita, ha imboccato la strada della conciliazione, ha il 38 per cento di part time ed è aperta a forme di flessibilità: «Per la verità – spiega Ilaria, addetta alla comunicazione – già negli anni ’30 l’azienda aveva una mensa, un asilo nido, le abitazioni per i dipendenti. Poi tutto fu smantellato negli anni ’70, in seguito al clima dell’epoca e alle accuse di paternalismo».
Nell’ampio show room a pianta circolare ci aspettano alcune lavoratrici. Giuliana, impiegata al Ced, il cuore dei sistemi informativi, ha due figli di 9 e 4 anni. Ha chiesto un part time all’80 per cento per andare a prenderli a scuola, e non è l’unica misura che le consente di vivere con serenità il suo doppio ruolo di madre e lavoratrice. «Ognuno di noi – spiega – può usufruire di flessibilità in entrata e in uscita, tagliarsi su misura la pausa pranzo e, all’occorrenza, accedere al servizio di BabyLubiam, organizzato durante le vacanze di Natale, Pasqua o Carnevale per i figli dei dipendenti dai 5 ai 12 anni». Le fa eco Corina, rumena, addetta al controllo tecnico di qualità, due figli di 3 e 1 anno all’asilo nido aziendale: «Ho una grande tranquillità quando vengo al lavoro, i miei figli sono a due passi da me e il clima aziendale è sereno, quasi familiare. Ricevo e ho voglia di dare; quando mi si chiede del lavoro in più, come potrei negarlo? Mi sento una privilegiata». L’asilo nido, tre locali ampi e attrezzatissimi, al piano terra della grande fabbrica, è stato aperto per i dipendenti ma ha anche 10 posti a disposizione delle mamme del quartiere.
Un sistema solidale
Dalla fabbrica alla città e dalla città alla fabbrica, il segreto di realtà aziendali come Lubiam sta nella propria storia ma anche nella capacità del territorio di fare sistema. Una capacità che ci si concretizza solo qualche ora dopo, intorno al grande tavolo della sala Ovale nella sede della Provincia di Mantova. All’appello di Alessandra Tassini, responsabile dell’Ufficio pari opportunità hanno risposto molti degli attori coinvolti nel processo che ha portato Mantova a diventare una delle capitali italiane della conciliazione: dall’assessore alle politiche del lavoro, Giovanna Martelli, a quello delle pari opportunità, Elena Magri; dalla presidente della cooperativa sociale Sanithad, Monica Granzerla, alla titolare della Lubiam, Marzia Monelli. Un’altra figura chiave, il presidente del comitato per l’imprenditoria femminile, Annick Mollard, l’abbiamo incontrata al mattino, in Camera di commercio. Ciò che salta agli occhi è che sono tutte donne, tutte nei gangli della rete sociale, istituzionale e produttiva. Ne deriva un’intervista corale, vasta e appassionata. Il clima è cordiale, di quelli che si instaurano tra chi si conosce da tempo, tanto che scappa qualche battuta: «Vi ricordate le facce degli imprenditori quando abbiamo incominciato? Sembrava parlassimo degli ufo», osa una delle donne, e ci chiede di soprassedere. Ma il concetto è vero. All’inizio il progetto viene accolto con diffidenza: non ci credono gli imprenditori che vedono la conciliazione solo come un costo; non ci credono i sindacati perché esce dalle logiche di contrattazione tradizionale; non ci credono i lavoratori che si ostinano a cercare la fregatura. La fortuna è che ci crede una donna: la consigliera di parità Grazia Cotti Porro. È lei a convocare, nel 2006, il primo tavolo di conciliazione a Mantova, che porta a un primo accordo territoriale. Il motivo è una legge, la 53 del 2000, farraginosa nelle sue articolazioni ma estremamente concreta: mette a disposizione degli imprenditori che intendano realizzare progetti di conciliazione dei finanziamenti tutt’altro che trascurabili.
Dalla diffidenza alla rete
Il passaggio alla fase istituzionale crea fiducia nei vari attori. All’inizio ci si concentra soprattutto sulla sensibilizzazione ai temi della conciliazione. Si apre uno sportello informativo presso la Camera di commercio e viene messo a disposizione un pool di tecnici preparati e competenti. La cabina di regia rimane alla Provincia. Il terreno è pronto per passare all’azione. Dal 2006 al 2009 vengono ammessi a finanziamento 25 dei 28 progetti presentati, per un totale di 2 milioni di euro. Destinatari degli interventi: 588 donne e 344 uomini. La conciliazione a Mantova s’inizia a declinare anche al maschile, e soprattutto diventa un habitus, una tendenza. Nel 2010 la Provincia vince il Premio Famiglia Lavoro della Regione Lombardia, come miglior sistema territoriale per la conciliazione vita-lavoro.
Oggi che l’articolo 9 è stato sospeso per mancanza di fondi, la conciliazione continua: c’è un nuovo tavolo e un nuovo accordo territoriale. I finanziamenti, messi a disposizione dalla Regione Lombardia e dalla Camera di commercio, saranno utilizzati per la creazione di reti territoriali tra piccole imprese per la condivisione di servizi. Già si parla di campi estivi per i bambini o di servizio di maggiordomo aziendale. Ma tra le astanti ci sono anche molti dubbi, perché le normative in materia di conciliazione sono ancora troppo sperimentali e discontinue, a volte addirittura contraddittorie. Tuttavia il pessimismo non vince. E infatti l’ultimo discorso è una proposta: «Perché – domanda una di loro – non lanciare un servizio di tagesmutter (baby sitter in caso d’urgenza) sull’esempio trentino? Sarebbe utile per le dipendenti e aiuterebbe molte mamme a reinserirsi nel mondo del lavoro». L’assemblea si anima. Ed è ormai chiaro: il vero asso nella manica del territorio mantovano è questo gruppo di donne appassionate e instancabili, che non cede alle insidie della burocrazia. Ciò che non può la legge, possono le persone.
- Dipartimento politiche per la famiglia: www.politichefamiglia.it
- Osservatorio nazionale sulla famiglia: www.osservatorionazionalefamiglie.it
- Family Audit: www.familyaudit.it