Balcani in fiamme Quando le armi taceranno

Sarà possibile, dopo tanto odio e tanti orrori, un Kosovo multietnico? Di chi le responsabilità di un conflitto che poteva essere evitato? Quali conseguenze nei rapporti internazionali? I rischi di una rinascita del panslavismo.
03 Maggio 1999 | di

La guerra in Jugoslavia sta rivelando ai paesi europei occidentali gli orrori dei conflitti armati. Una guerra intrapresa alla leggera, dimentichi che la violenza chiama violenza, e odio chiama odio. Che i serbi, una volta iniziati i bombardamenti, avrebbero sfogato la loro collera sugli albanesi inermi e non sugli irraggiungibili mezzi di distruzione della Nato, era largamente previsto dagli operatori umanitari e dagli osservatori in Kosovo. La presenza del personale dell'Osce, fino al momento in cui si è delineata la prospettiva dei bombardamenti, era una garanzia umanitaria che consentiva, almeno, di delimitare il conflitto interno in Kosovo agli scontri fra guerriglieri dell'Uck e poliziotti serbi, sia pure col contorno di qualche vittima civile da entrambe le parti. Occorreva aumentare la consistenza e la capacità  di dissuasione di questi osservati internazionali, non procedere a grandi passi nell'escalation bellica.
La Jugoslavia e il Kosovo sono precipitati in una tragica spirale da cui ora è difficile uscire. Quando la pace tornerà  nella regione, questi due popoli avranno sofferto enormemente e saranno probabilmente dominati da profondi rancori e propositi di vendetta. La popolazione albanese soprattutto nella parte settentrionale del Kosovo, sta subendo una ignobile «pulizia etnica»; forse il governo serbo ritiene che la pace comporterà  una spartizione della regione... Masse di profughi cercano rifugio in Albania, Macedonia e Montenegro: vi arrivano in condizioni drammatiche, spoglie di tutto, raccontando particolari atroci.
A sua volta, il popolo serbo sta subendo i massicci e quotidiani bombardamenti Nato, che nella loro discussa «intelligenza» non risparmiano i civili.
A monte del conflitto c'è la responsabilità  di Milosevich che per un decennio ha preteso di congelare la questione del Kosovo in uno status favorevole ai serbi, dopo averne abolito l'autonomia nell'indifferenza generale di un mondo che allora appena conosceva il nome di questa regione. Milosevich non ha condotto una politica che favorisse la distensione, né ha preso in considerazione la saggezza di una leader politico come Ibrahim Rugova e la sua lotta pacifica, non violenta. Il governo serbo è stato arrogante e avaro verso gli albanesi kosovari, discriminandoli brutalmente come cittadini e impedendo loro ogni forma di autogoverno benché costituissero il 90 per cento della popolazione della regione. Così la guida della lotta kosovara è passata dal pacifista Rugova, delegittimato, agli estremisti dell'Uck che hanno avviato lo scontro armato prima con attentati e poi con la guerra aperta dell'estate scorsa.
Milosevich non ha negoziato seriamente per migliorare le condizioni di vita degli albanesi del Kosovo e per favorire la distensione. Ora è arroccato sul fronte del rifiuto. Ma Milosevich non è solo. Gran parte dell'opinione serba è con lui. I bombardamenti Nato hanno l'effetto di compattare ancor più il consenso attorno a Milosevich. La gente comune di Jugoslavia, anche per la distorta informazione (non a caso sono stati espulsi dalla Serbia i giornalisti stranieri), non solo ha del Kosovo il concetto di terra sacra serba, ma è convinta che nella regione sia essenzialmente in atto un'aggressione di terroristi albanesi contro poliziotti e civili serbi. Poco o nulla sa delle brutalità  e delle stragi della «pulizia etnica» perpetrate dai reparti speciali di Belgrado.
Gli Stati Uniti non sono privi di responsabilità . Certo, sono stati portati alla guerra dalla durezza e dall'inflessibilità  di Milosevich, ma hanno la responsabilità  dell'uso della forza, quando poi era prevedibile che i serbi si sarebbero vendicati sui civili albanesi inermi.
Alcuni dirigenti albanesi hanno desiderato un conflitto che portasse ai kosovari l'indipendenza. Altri invece, più moderati, chiedevano un distacco graduale dalla Jugoslavia, che evitasse gli orrori della guerra. Ora probabilmente, il Kosovo indipendente si realizzerà  perché dopo tanta violenza sarà  purtroppo molto difficile ricomporre nella regione la società  multietnica, una convivenza fragile e già  incrinata peraltro dalla prepotenza serba degli ultimi anni. Forse sarà  un Kosovo dimezzato, con la minoranza serba a occupare la parte settentrionale svuotata dagli albanesi. Ma indubbiamente questo Kosovo indipendente nascerà  nel segno di lutti e sofferenze enormi, difficilmente dimenticabili.
La guerra disegna poi, su uno scacchiere più vasto, una pericolosa divisione in Europa, tra occidentali e slavi, o meglio, tra occidentali e ortodossi. Umiliare la Russia sarebbe un errore. Gli slavi vanno compresi nella loro alterità  rispetto alla nostra cultura occidentale, non combattuti per omologarli alla nostra sfera di civiltà . La rinascita del panslavismo sarebbe una grave rischio per la pace e la stabilità  europea.
Un'ultima osservazione riguarda l'Italia. Siamo terra di frontiera fra Occidente e Oriente europeo. A differenza che per americani e inglesi, la nostra percezione dei drammi balcanici è da molto tempo diretta, incarnata. Ha l'aspetto di genti con le quali da sempre esistono scambi e contatti. Ha il volto dei rifugiati che approdano in Puglia. Forse la posizione geografica dell'Italia ha reso l'opinione pubblica alquanto scettica sull'utilità  della guerra, benché simpatizzante per la causa albanese. L'espressione politica di questa maggioranza pacifista è stata quasi nulla. Constatarlo è amaro, tanto più se si pensa che nel 1997 l'Italia ha dato un contributo decisivo alla pace nella vicina Albania. Ci si chiede cosa fare. L'aiuto umanitario ai rifugiati kosovari è un primo atto di pace, ma poi occorre chiedere ai dirigenti politici di risolvere la crisi del Kosovo imponendo il negoziato in luogo della guerra.
Quando - si spera prima possibile taceranno le armi, si dovrà  riflettere sull'opportunità  dell'averle usate. Le guerre nei Balcani producono vincitori ma hanno sempre prodotto nelle popolazioni che le hanno vissute, anche folli propositi di rivalsa e di morte. Nella complessità  dei Balcani le guerre si ripresentano proprio perché i conflitti del passato sono stati risolti con la forza, in una catena di orrori e pulizie etniche che solo soluzioni politiche consensuali possono spezzare.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017