Bambini soldato
«Sì, è vero. Ho ucciso senza pietà tanta gente, a colpi di machete, ma anche sparando col kalashnikov». La sconvolgente confessione viene da un ragazzetto mingherlino, sdentato, con un visetto tondo, tondo, acqua e sapone, che in questi anni - assieme ai suoi compagni dell'Esercito di resistenza del Signore (Lra) - ha commesso ogni genere di crimini e nefandezze nel Nord Uganda. John, questo è il suo nome, parla solo l'acholi , la lingua del gruppo etnico cui appartiene, ha quindici anni, anche se non li dimostra affatto, ed è contento d'essere riuscito miracolosamente a fuggire dalle mani dei suoi aguzzini che per ben cinque anni lo hanno costretto a militare nei ranghi del più feroce movimento ribelle di tutti i tempi, presente nel continente africano.
«La storia di John è comune da queste parti - commenta con amarezza padre Tarcisio Pazzaglia, missionario comboniano - si tratta di un fenomeno aberrante, in una regione dove la vita umana sembra valere meno d'una cicca fumata in veranda da un ribelle». Dopo essere stato sequestrato nel suo villaggio natale e aver assistito inerme all'uccisione dei suoi genitori, John ha combattuto per quattro anni con i ribelli. Dice di aver sgozzato donne, vecchi e bambini, bruciato capanne e granai, camminando poi per giorni con la refurtiva dei saccheggi in mezzo a boschi, prati, cespugli e paludi. Una notte, durante la stagione delle piogge, mentre i suoi compagni dormivano nascosti tra i cespugli nei pressi di un torrente in piena e lui era di guardia, si è lasciato portare via dall'acqua. I suoi compagni pensarono che fosse annegato e, in questo modo rocambolesco e avventuroso, dopo giorni di marcia estenuante, dormendo all'addiaccio e nutrendosi di radici ed erbe selvatiche, riuscì a raggiungere un presidio sotto il controllo dell'esercito regolare. Godendo dell'amnistia promulgata dal governo, è stato affidato a un centro di recupero gestito da una Ong internazionale. Nel Nord Uganda, è triste doverlo ammettere, l'incubo delle violenze è ancora pane quotidiano per la povera gente, nonostante vi siano state alcune encomiabili iniziative di riconciliazione promosse dalla società civile locale, Chiesa cattolica in testa.
Sierra Leone: i traumi del «dopo»
Diverso è, invece, lo scenario in Sierra Leone, dove da ormai cinque anni le armi tacciono. Qui oggi gli ex bambini soldato devono portare il peso dei traumi fisici e psicologici subiti durante le ostilità in un Paese duramente colpito da ogni genere di miseria. È difficile descrivere in poche battute quello che è accaduto in Sierra Leone dal 1991, da quando, cioè, esplose una cruenta guerra civile, che ha causato più di 100 mila vittime, insanguinandoogni città , villaggio e contrada per undici anni, contrapponendo le forze governative a gruppi di feroci ribelli. Furono commesse orribili nefandezze. Su di esse oggi un Tribunale speciale ha avviato i processi nei confronti dei vertici dei gruppi armati coinvolti nelle ostilità : dagli ex ribelli del Ruf (Fronte unito rivoluzionario) allo schieramento filo-governativo del Cdf, Forze della difesa civile, un gruppo di miliziani che affiancò l'esercito regolare sierraleonese alla giunta militare del maggiore Johnny Paul Koroma .
La Corte - voluta dall'Onu e composta da otto giudici nominati dal governo di Freetown e altrettanti dalle Nazioni Unite - è un avanzato esperimento di giurisprudenza internazionale, nato da un rapporto paritetico tra la giustizia sierraleonese e il Palazzo di Vetro. Ma a pagare il prezzo più alto, negli anni della guerra, sono stati i bambini, arruolati forzatamente e costretti, sotto l'effetto di sostanze stupefacenti, a commettere crimini inauditi: uccisioni, amputazioni di arti, razzie...
Uno di loro, Super Soldier, sequestrato all'età di otto anni, trovava il coraggio per uccidere imbottendosi di sostanze stupefacenti, di quelle che bruciano il cervello. Nel '98 aveva tentato di fuggire, ma fu catturato nuovamente dai ribelli due giorni dopo. Per punizione, gli furono impressi a fuoco sul petto i caratteri del Ruf. Per non parlare di «Super Boy», un altro soldatino di quella banda criminale che controllava i centri diamantiferi dell'ex protettorato britannico. Aveva meno di dieci anni, capelli corti, minuto come un passerotto, indossava fieramente una Beretta calibro 9 che, nascosta sotto l'ascella e stretta alla cinta, scendeva quasi al ginocchio. Allora, a vederlo camminare faceva quasi tenerezza.
Impossibile sapere che fine abbia fatto «Super Boy», anche se a Freetown e dintorni di ragazzi come lui, ex combattenti, se ne possono incontrare ancora a bizzeffe, molti dei quali disoccupati. Come «Caporal Highway», ospite da ormai cinque anni nel centro di recupero gestito dai missionari saveriani, con l'aiuto di Ong italiane come il Coopi e l'Avsi. In Italia, la sua storia divenne celebre per un documentario girato nel 1999 da Rai3. Oggi, questo ragazzo è diventato uno spilungone di sedici anni, non si fa più chiamare con quel curioso soprannome preso in battaglia, studia alle superiori e vuole diventare giornalista.
Secondo le stime, durante la guerra furono uccisi 40 mila minorenni, 10 mila bambini vennero sequestrati e 20 mila ragazze subirono lo stupro. Un bilancio raccapricciante che pesa sul futuro di una nazione di circa 5 milioni di abitanti in cui, nonostante gli accordi di pace, l'aspettativa di vita alla nascita è di 42 anni, mentre la maggior parte della popolazione ha meno di 18 anni.
Dall'Africa al Centro America
L'Africa Sub-Sahariana è certamente la zona del mondo più tormentata dal fenomeno dei bambini soldato. Se, da una parte, è vero che l'Uganda e la Sierra Leone vanno considerati come casi estremi perché i loro principali movimenti di guerriglia - Ruf e Lra - hanno quasi sempre utilizzato bambini a differenza di altre formazioni ribelli africane, dall'altra, nella loro radicale violenza, questi due Paesi possono essere considerati anche come la cartina di tornasole di un fenomeno vasto e drammatico, a livello continentale, sia per il reclutamento dei minori, sia, soprattutto, per il loro utilizzo nelle azioni belliche.
Il bilancio fornito dall'autorevole Coalizione internazionale «Stop using child soldiers» parla di oltre 120 mila piccoli guerrieri africani costretti in questi anni a combattere in Angola, in Burundi, nel Congo Brazzaville, in Eritrea, in Etiopia, in Liberia, nella Repubblica Democratica del Congo (Ex Zaire), in Rwanda, in Sudan, in Somalia...
Recentemente, alcuni di questi Paesi hanno risolto, almeno da un punto di vista formale, le dispute interne o con le nazioni confinanti, ciò non toglie, come già accennato, che la smobilitazione e il reinserimento degli ex combattenti risulti assai arduo. Non solo per le scarse prospettive d'impiego scolastico o lavorativo nella società , ma anche per il fatto che, dopo la firma dei tanto agognati accordi di pace, molti minorenni siano ancora ostaggio di bande armate in alcune zone, come nell'Est dell' ex Zaire e in Liberia, o vengano tuttora arruolati nei ranghi di formazioni regolari.
Il caso più appariscente è quello dell'Eritrea che, da quando ha ottenuto l'indipendenza, nel 1992, ha arruolato numerosissimi ragazzi e ragazze nelle varie compagini dell'esercito regolare, soprattutto durante le ostilità con la vicina Etiopia dal maggio del 1998 al 2000. Ancora oggi in questo Paese la leva obbligatoria impone a schiere di adolescenti di svolgere attività militari a tempo indeterminato. Nel resto del mondo, l'impiego dei minori per azioni belliche ammonta complessivamente a 180 mila unità ed è stato segnalato in varie parti, dalla Colombia alle Filippine, dallo Sri Lanka al Myanmar, dall'Afghanistan al Pakistan, dal Nepal ai Balcani, dal Medioriente all'Indonesia, dalla Cecenia all'Iraq.
Per documentare accuratamente questi scenari, trattandosi di una materia complessa e articolata, occorrerebbe molto più spazio rispetto a quello che una normale rivista può offrire ai suoi lettori, ciò non toglie che vanno certamente stigmatizzati almeno due scenari: quello colombiano e quello del Myanmar (ex Birmania).
Secondo l'associazione Radda Barnen, la stima dei bambini colombiani presenti nella guerriglia è di almeno 4 mila, mentre nei ranghi dei gruppi paramilitari sarebbero 3 mila. Va rilevato, a questo riguardo, che i minori colombiani, a volte, - a differenza di quanto accade in Uganda - sono obbligati a combattere in quanto i loro genitori sono membri dei gruppi armati. Altrimenti capita che la famiglia sia costretta a cedere i propri figli alla guerriglia per manifestare la propria solidarietà nei confronti dei fautori della lotta armata. Nel Myanmar la situazione non è meno drammatica. Stando ad autorevoli fonti dell'Ilo (International Labour Office) è stato appurato, ad esempio, che numerosi bambini sono stati utilizzati dai militari come scudi umani o cercatori di mine. Vi sono, poi, gruppi armati che chiedono ad ogni famiglia la cessione di un figlio maschio per sostenere la guerriglia.
Ma anche l'Occidente ha le sue pecche
Detto questo, è comunque importante sottolineare che i Paesi occidentali, tradizionali paladini della democrazia, non sono affatto estranei al fenomeno dei baby soldiers. Secondo la Coalizione internazionale, tanto per citare un esempio eclatante, Stati Uniti e Regno Unito hanno trasferito ragazzi adolescenti nella regione del Golfo Persico poco prima dell'inizio della guerra contro l'Iraq, nel 2003. Negli Usa il servizio militare è su base volontaria e l'età minima richiesta è di 17 anni. Il governo di Londra ha invece curiosamente condizionato la propria assistenza militare ed economica alle autorità della Sierra Leone vincolandola al non utilizzo dei baby soldiers ; ma l'età minima richiesta per tale condizione è stata fissata, in ottemperanza alla normativa inglese, proprio a 16 anni.
La Norvegia, Paese scandinavo molto attento alle politiche di cooperazione internazionale, consente per legge l'arruolamento dei sedicenni soltanto in caso di guerra. In molti altri Paesi è previsto l'arruolamento di volontari minorenni, mentre la coscrizione obbligatoria è riservata a chi ha raggiunto i 18 anni. Ma la militarizzazione dei minori assume contorni a dir poco inquietanti se si pensa che in alcuni Paesi europei l'addestramento militare inizia addirittura in età infantile. Un esempio emblematico viene dal Regno Unito, dove sono stati costituiti i «Sea Cadetes», «Army Cadetes» e «Air Cadetes» che ammettono l'iscrizione di preadolescenti di ambo i sessi per promuovere la disciplina e il patriottismo.
Anche in Svezia, pur non contemplando il reclutamento dei minori, le forze armate organizzano forme di addestramento volontario a partire dai 15 anni. Negli Stati Uniti, invece, al fine di promuovere l'arruolamento nelle forze armate, si svolgono corsi paramilitari nelle scuole, interessando un vasto settore della popolazione adolescenziale.
Nella certezza che la comunità internazionale non debba più stare alla finestra tollerando la drammatica situazione in cui versano molti bambini soldato, nel giugno del 1998, sei Ong internazionali (Amnesty International, Human Rights Watch, FederazioneInternazionale Terre des Hommes, Alleanza Internazionale Save the Children, Servizio Gesuiti per i Rifugiati e Ufficio Quaccheri presso le Nazioni Unite, a Ginevra) hanno lanciato la Coalizione internazionale «Stop using child soldiers» per mettere fine all'impiego dei bambini soldato. Successivamente, Defence for Children International, World Vision International e numerose Ong regionali in America Latina, Africa e Asia si sono unite alla Coalizione.
Grazie a questa straordinaria mobilitazione della società civile, il 25 maggio 2000, l'Assemblea generale delle Nazioni Unite ha adottato il testo definitivo del «Protocollo opzionale» alla Convenzione internazionale sui Diritti dell'infanzia, riguardante il coinvolgimento dei minori nei conflitti armati.
Entrato in vigore nel 2002, il Protocollo vieta agli Stati di arruolare i minori di 18 anni. Si tratta di un traguardo storico per la tutela dell'infanzia da una delle peggiori forme di sfruttamento del lavoro minorile qual è il coinvolgimento dei bambini nei conflitti armati. Tuttavia, contrariamente a quanto auspicato durante i lavori di stesura, il testo definitivo del Protocollo consente ancora agli eserciti regolari (ma non ai gruppi armati) di arruolare volontari minorenni.
La Coalizione, naturalmente, chiede agli Stati di aderire comunque al documento internazionale, aggiungendo - in fase di firma e ratifica - l'impegno a non consentire neanche su base volontaria l'ingresso di
minori di 18 anni.
Un trattato non risolve tutto
È chiaro che l'adozione di un trattato internazionale non può garantire da solo l'esercizio di un diritto e quindi molti sforzi dovranno ancora essere profusi in questi anni per liberare i tanti bambini soldato ancora ostaggio degli adulti, restituendo loro un modus vivendi conforme alla loro età e cultura e, soprattutto, impedendo che altri coetanei possano cadere nella trappola della lotta armata.
A proposito del nostro Paese, è bene ricordare che l'Italia ha ratificato il protocollo opzionale con la legge dell'11 marzo 2002, n. 46, senza però apportare i miglioramenti auspicati dalla Coalizione italiana affiliata a quella internazionale, con riferimento all'elevazione a 18 anni dell'età minima per i volontari. Cadendo, peraltro, in un grave paradosso: si può ottenere la patente di guida automobilistica solo al compimento del diciottesimo anno d'età , mentre è consentito entrare a far parte delle forze armate anche a 17 anni.
Una cosa è certa: la firma del Protocollo opzionale rappresenta un indubbio traguardo di civiltà anche se il cammino è ancora lungo. Quella dei bambini soldato, seppur di antica data, è una questione che deve essere affrontata globalmente, essendo legata ad altre scottanti questioni che non possono rimanere nel cassetto, quali, ad esempio: la povertà endemica, la militarizzazione delle società e l'assenza di democrazia in molti Paesi.
Tutte problematiche in gran parte riconducibili all'iniqua distribuzione delle risorse. Ecco perché lo sfruttamento dei minori è solo una drammatica conseguenza delle ingiustizie che affliggono la società , uno degli effetti collaterali della bramosia umana.
L'arruolamento dei bambini soldato avviene con la complicità di potentati vicini e lontani, per interessi antitetici a quelli della gente comune. Se, da una parte, si finanziano le missioni di pace e, dall'altra, si smerciano illecitamente all'estero pietre preziose e quant'altro, niente potrà cambiare. Per non rimanere nel mondo delle idee, occorre abbandonare decisamente la via della guerra e governare la pace con le armi del buon senso, consegnando loro penne e quaderni.
Il fenomeno dei baby soldiers , lo si voglia no, è direttamente proporzionale al sottosviluppo e, quindi, si traduce anche in una questione culturale. Allora sarà chiaro che la stessa energia oggi dispersa in Africa, come anche in altre periferie del mondo, nell'odio tra padri e figli potrà trasformare radicalmente il destino di molte generazioni, se messa a servizio dello sviluppo e del benessere dei popoli.