Belgio. Ricordando Marcinelle

22 Ottobre 2013 | di

No, non si può dimenticare che cinquantasette anni fa, l’8 agosto del 1956, morirono nel crollo della miniera di Marcinelle in Belgio duecentosessantadue minatori, dei quali centotrentasei italiani. Ogni anno da allora Italia e Belgio rievocano con emozione quella catastrofe. Nonostante le tante commemorazioni e le memorie dei sopravvissuti, non è mai stato chiarito come si siano svolti i fatti.

Nel 1959 la commissione governativa nominata per far luce sulle cause del disastro dichiarò ufficialmente che lo scoppio della miniera al Bois du Cazier era dipeso da una defaillance humaine, un fatale errore umano. Altre indagini chiarirono che la tragedia si svolse nel giro di un’ora. Alle 8 del mattino di quell’8 agosto alcuni vagonetti carichi di carbone situati in una galleria a oltre 700 metri di profondità urtarono contro un condotto che trasportava 850 litri d’olio. Riversatosi sui cavi di estrazione, il liquido provocò un incendio a causa del quale centinaia di minatori, che in quel momento stavano lavorando sottoterra, rimasero intrappolati. L’aria delle gallerie, impregnata di polveri e veleni, si era trasformata in grisou, la micidiale miscela esplosiva in grado di raggiungere in un attimo anche 1.800 gradi di temperatura.

Il governo italiano chiuse da allora gli espatri verso il Belgio: in quell’anno i lavoratori italiani erano più di 40 mila. A causa della tragedia, centinaia di donne restarono sole. Chi non riuscì a tornare in patria – la maggioranza – rimase con i figli nel Pais noir (il Paese nero), abitando accanto alle miniere vuote e ai terrils, i grandi cumuli di detriti e carbone generati dalle miniere. In pochi anni, sopravvenuta la crisi del carbone sui mercati mondiali, le miniere del Belgio vennero chiuse (l’ultima, in Vallonia, nel l984).

A Marcinelle, Charleroi, Genk, Bouffioux, Pont di Loup, ma anche a Liegi e Anversa, dove le acciaierie iniziavano a colpire la salute di altri lavoratori, si ripresentò per le donne una condizione di isolamento. Decise a crescere i propri figli e a trasmettere loro pensieri, tradizioni e ricordi, esse cercarono un’occupazione. Prive di professionalità spendibili sul mercato del lavoro, queste contadine e montanare provenienti da ogni regione d’Italia si adattarono a lavori umili e poco pagati. Divennero domestiche, operaie, addette alle pulizie e assistenti familiari.

Aggrappate al sapere assorbito nell’ambiente d’origine, educarono i figli da sole, insegnando loro il rispetto per le leggi del Paese ospite, il coraggio e la dignità. «In casa davanti ai miei figli ricordavo la mamma – rammenta Luigia Dapoz –. Ripetevo i suoi gesti, i proverbi e le orazioni che diceva lei, mattino e sera». È proprio grazie a queste madri italiane se in Belgio sono rimasti vivi linguaggi e dialetti regionali, se le usanze religiose e le tradizioni familiari dell’Italia rappresentano tuttora una realtà e se le nuove generazioni frequentano volentieri le parrocchie italiane attive in quelle che un tempo furono località minerarie.

Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017