Bellezze in sedia a rotelle
Nel corso della mia vita ho incontrato e trattato i più diversi argomenti: dalla sessualità alla comunicazione, dalla scuola allo sport, dalla cultura alla cronaca e alla politica. Se sono arrivato fin qui, il merito è anche vostro, cari lettori, che in questi anni mi avete seguito. Eppure, non finisco mai di stupirmi quando trovo certe notizie che stuzzicano la mia curiosità e la mia creatività. Chi, almeno una volta nella vita, non ha sognato di volare fino a Los Angeles, di perdersi nei paesaggi hollywoodiani, di lasciarsi conquistare dalle auto lussuosissime e dai divi del grande schermo? Viviamo nel mondo dell’immagine, è un dato oggettivo, così come lo è il fatto che, senza immagini, non potremmo percepire e interpretare la realtà. Ciò non toglie tuttavia che, proprio per questo, l’insorgere del pregiudizio abbia radici e tragga linfa dalle immagini stesse. Mi spiego meglio. Sulle ali della fantasia, proviamo a prendere un aereo e a partire insieme per un viaggio oltreoceano. Tra un chitarrista e un giocatore di basket, finiremmo anche per incontrare bellezze non in bicicletta, ma su carrozzina. Sto parlando delle protagoniste di Push girls, l’ultima docu-serie americana, prodotta da Gay Rosenthal e trasmessa da Sundance Channel, che racconta le vicende di quattro donne disabili, giovani e attraenti. La domanda che sorge spontanea è: che senso ha esporre in questo modo la disabilità e che tipo di immagine potrà mai uscirne? Quesito provocatorio e rischioso che, tuttavia, ha il pregio di ammettere una delle tante verità che il pietismo troppo spesso rifiuta e nasconde: un disabile ha il diritto di sentirsi piacente e di divertirsi.
Nei miei incontri affronto spesso questo tema, partendo dall’esperienza personale. Racconto come negli anni ’60 fosse «consigliato» tenere la disabilità nascosta, per non turbare chissà quali cliché. Dalla fine degli anni ’80, invece, il fenomeno si è invertito. A testimoniarlo è stata la famosa e spiacevole «tv del dolore», che dipingeva il disabile come un povero essere umano da compatire. In linea generale, io sono più che favorevole a mostrare tutto e tutti, con l’idea di palesare la realtà così com’è, cioè fatta non solo di attori e modelle, ma fortunatamente neppure di soli «mostri». In questo senso, la serie Push girls tenta di rivoluzionare l’immagine della disabilità. Vuole produrre uno scarto culturale che, di per sé già difficile da realizzare, diventa ancora più delicato e complesso quando entrano in campo temi come la bellezza e la sessualità.
Lasciando per un attimo da parte Hollywood, lo stesso ragionamento si potrebbe adattare a un’immagine più ordinaria, come per esempio quella di un disabile che abbraccia serenamente la sua educatrice. Che c’è di male in questo? Non credo che il problema stia nell’esibire i sentimenti o la fisicità nuda e cruda di una persona paralizzata, almeno finché ciò avviene nel rispetto del buon gusto. Penso sia peggio, piuttosto, atteggiarsi a custodi di quest’immagine, quasi fosse una fragilità da salvaguardare per condizione intrinseca, restando così invischiati nella paura di offendere la convenzione e senza trovare il coraggio di cambiarne prospettiva.
Le Push girls, tuttavia, vanno ben oltre questo discorso, segnando un cambiamento antropologico discutibile, ma senza dubbio in atto: il disabile passa da invisibile a magnifico. È ovvio che i rischi della spettacolarizzazione fine a se stessa sono in agguato, ma la possibilità di trovare oggi nella camera di un teenager anche il poster di un’attrice disabile è sintomo di una rivoluzione culturale da cui, nel bene o nel male, non si può più prescindere.
Provate anche voi a ripensare ai poster appesi in cameretta. Quante rivoluzioni avete visto? Raccontatele a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina Facebook.