Bindi: nella famiglia il futuro di un Paese
Rosy Bindi, senese di Sinalunga, dal maggio di quest’anno ministro per le Politiche della famiglia, nel 1980 è assistente di Vittorio Bachelet quando le Brigate Rosse lo uccidono e la tragedia lascia il segno nella sua vita.
Tra il 1984 e il 1989 è vicepresidente dell’Azione cattolica, dopodiché entra in politica nelle file della Dc e, alla dissoluzione del partito, in quelle dell’Ulivo, dove ricopre incarichi sempre più importanti fino a diventare, nel 1996, ministro della Sanità: è sua la riforma del Servizio sanitario nazionale. L’abbiamo intervistata.
Msa. Ce lo siamo chiesti in tanti all’inizio: perché un ministero per le Politiche della famiglia? Essendo una realtà nuova, quali difficoltà ha incontrato per metterla in piedi?
Bindi. L’esigenza di avere un ministero per le Politiche della famiglia risponde all’impegno che l’attuale coalizione di governo ha preso con gli elettori e all’esigenza di mettere al centro della politica la famiglia. Non bastano più gli interventi estemporanei od occasionali per far fronte alle trasformazioni profonde della società e del mondo del lavoro. In Italia nascono pochi bambini, meno di quelli desiderati, e cresce il numero degli anziani soli e non autosufficienti. L’invecchiamento attivo è una buona cosa, ma lo sarebbe ancor di più se insieme all’allungamento della vita ci fosse anche un parallelo incremento di nuove nascite.
Il dipartimento che stiamo costituendo non avrà la pesante burocrazia dei ministeri con portafoglio. Pensiamo a una struttura agile, motivata, che potrà contare anche sulle competenze professionali presenti nell’Osservatorio nazionale sulla famiglia, nell’Osservatorio sulla lotta alla pedofilia e nell’Osservatorio minori. Le difficoltà ci sono, ma le stiamo man mano affrontando, e contiamo di essere pienamente operativi a breve.
È ancora diffusa e persistente una perplessità, e cioè che a capo di questo dicastero sia stata posta una donna che non ha esperienza diretta di famiglia. Ciò le richiederà un impegno in più per dimostrare che l’obiezione non ha fondamento?
Vivo in una famiglia e sperimento tutti i giorni problemi, ansie, speranze e gioie comuni a tante altre famiglie. Ho sempre pensato che la politica sia un servizio alla comunità, e per far bene questo lavoro ciò che conta è l’attenzione ai cambiamenti e ai bisogni dei cittadini. Credo che sia importante avere una visione complessiva della società e delle sue esigenze e misurarsi sulle soluzioni possibili. Il lavoro politico, poi, non è mai solitario: è un gioco di squadra in cui si incontrano e si mettono in relazione diverse sensibilità, competenze e professionalità.
Da tempo la famiglia non gode di buona salute. Le cause sono molteplici: personali, culturali, sociali... Si punta però il dito anche sulla politica, che non ha saputo intervenire a tempo debito e con progetti globali a sostegno di essa. Insomma, sarebbe mancata una politica della famiglia. Ma che cosa vuol dire avere «una politica della famiglia»?
Per anni si è posto l’accento – legittimo, sia chiaro – sull’enunciazione di principi in difesa della famiglia, senza però trarre le dovute conseguenze pratiche sul piano delle scelte politiche. A molti è sembrato sufficiente proclamare i valori. Ma così non è. Con questo governo vorremmo avviare un cambiamento e fare delle politiche per la famiglia un elemento di sviluppo e crescita del Paese. Se le famiglie stanno bene, anche il Paese può tornare a guardare con fiducia al futuro. Una politica per la famiglia significa sostenere i diritti e il benessere di un soggetto fondamentale della società: lavorare alla conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, favorire la buona occupazione per i giovani e le donne, promuovere la maternità e la paternità responsabile, ripensare la rete dei servizi alla persona, ai bambini e agli anziani, riqualificare il lavoro di cura. Un primo segnale importante è stato dato già con la Finanziaria che ha incrementato il Fondo nazionale per la famiglia con 215 milioni di euro per il 2007. Queste risorse ci serviranno a gettare le basi di un nuovo modello di welfare davvero «amico della famiglia». Pensiamo a un Piano nazionale per la famiglia nel quale individuare i Lef, i Livelli essenziali delle prestazioni per la famiglia, ovvero quelle misure e quei servizi – dagli assegni familiari agli asili nido, dai consultori familiari ai congedi parentali al sostegno delle famiglie numerose – in grado di promuovere concretamente la famiglia.
Vediamo in concreto alcuni problemi. Oggi non solo sempre più donne lavorano, ma anche sempre più uomini vorrebbero partecipare più attivamente alla vita familiare. Ma il lavoro assorbe sempre più gli uni e gli altri. Questa situazione mette a rischio uno dei compiti principali della famiglia: mettere al mondo dei figli. Come uscire da questo circolo vizioso? Con quali concrete politiche?
Nei Paesi dove il tasso di disoccupazione femminile è più basso si registra parallelamente un alto tasso di natalità. Di contro, nei Paesi – come Italia e Spagna – in cui c’è un alto tasso di disoccupazione femminile, nascono meno bambini. Sembra un paradosso, ma non lo è. Anzi, è la dimostrazione che per le donne il lavoro non è l’ostacolo principale alla maternità.
Certo per i genitori lavorare e, al tempo stesso, seguire la crescita dei figli non è affatto facile. Per questo credo che sia decisivo favorire la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro. Si deve lavorare su questo versante. Bisogna incoraggiare il part time, senza eccessive penalizzazioni nel reddito, per chi vuole coniugare lavoro e famiglia. Si possono estendere i congedi parentali anche al di là del terzo anno di vita, per esempio almeno fino a tutta l’età dell’adolescenza, quando la figura del padre svolge un ruolo sempre più significativo. Si deve promuovere la diffusione delle cosiddette «banche del tempo» e favorire lo scambio di aiuto e la solidarietà informale tra le famiglie. Bisogna evitare che la donna si trovi di fronte alla secca alternativa fra il lavoro e i figli.
Molte famiglie hanno problemi economici: quali interventi di tipo economico prevede per incidere nelle situazioni di disagio delle famiglie?
Il sostegno economico per le famiglie si struttura su più fronti. Nella Finanziaria abbiamo previsto una rimodulazione delle aliquote Irpef in favore della famiglie con redditi medio bassi: saranno aumentate le detrazioni per coniuge e figli a carico e rivalutati gli assegni familiari. In questa operazione abbiamo investito circa tre milioni di euro. Per quanto riguarda le famiglie più povere, in particolare quelle degli anziani, abbiamo esteso la fascia di reddito esente dall’Irpef. Per incoraggiare la buona occupazione, inoltre, abbiamo previsto lo sconto fiscale alle imprese che assumono a tempo indeterminato, con incentivi maggiori per quelle del Mezzogiorno, e verrà riconosciuto il diritto alla maternità anche per le lavoratrici precarie e a progetto.
Ci siamo inoltre posti con molta determinazione l’obiettivo di incrementare i posti disponibili negli asili nido: contiamo di passare, nei prossimi tre anni, dagli attuali 160 mila a circa 250 mila. Un servizio fondamentale per i bambini, ma anche per le famiglie. Con 300 milioni di euro in tre anni, infatti, crediamo sia possibile attivare imprese ed Enti locali che, grazie ad accordi di programma, mettano risorse proprie per raggiungere l’obiettivo.
Sono le prime misure, ma non bastano. Considero necessaria, ad esempio, una maggiore attenzione alle famiglie numerose, soprattutto in relazione ai costi delle tariffe e dei servizi pubblici e privati. E anche su questo fronte abbiamo mosso i primi passi con questa Finanziaria.
Un grosso problema per molte famiglie è la presenza di persone anziane non autosufficienti che necessitano di assistenza continua. In mancanza d’altro, si ricorre a quella rete semiclandestina e costosa di badanti: un intervento del governo è necessario, non le pare?
Il problema sempre più grave delle persone non autosufficienti non può più essere trascurato. Nella Legge finanziaria è stato posto un primo tassello per l’avvio del Fondo nazionale per la non autosufficienza. È un punto del mio impegno irrinunciabile e fondamentale, ma che considero una base di partenza per altri interventi in questo campo a favore della famiglia.
Penso, ad esempio, al lavoro di cura prestato dalle assistenti familiari, le cosiddette «badanti». È necessario rendere più trasparente e affidabile il loro reclutamento e inserimento nelle famiglie. In alcune Regioni si sta lavorando in questa direzione e vogliamo intervenire in modo più uniforme anche a livello nazionale. Bisogna far emergere dalla clandestinità questo settore, prevedendo percorsi di formazione e di tirocinio per dare più sicurezza alle famiglie e dignità a queste lavoratrici, in gran parte straniere e ancora irregolari.
Molte famiglie si disgregano, chi divorzia cerca altre soluzioni, ma resta il problema dei figli, sbattuti da un nucleo familiare all’altro, senza punti di riferimento: è possibile fare qualcosa per una loro sana crescita personale?
Sono convinta che in queste situazioni la politica debba agire con molta prudenza, in punta di piedi direi. Con la discrezione necessaria quando si affrontano temi delicati che coinvolgono la sfera privata. Troppo spesso sento parlare della facilità con cui ci si separa, di scelte che sarebbero prese dai genitori con superficialità anche in presenza dei figli. Se questo può essere vero in qualche caso, nella grande maggioranza delle storie il clima è quello di grande sofferenza e lacerazione. Ecco: penso che il diritto e la politica più in generale debbano trovare quelle soluzioni idonee, perlomeno, a non aggiungere al dramma psicologico della separazione anche quello della gestione concreta della vita quotidiana.
L’attenzione ai minori e alla famiglia passa anche attraverso un sistema giudiziario che sia al tempo stesso capace di tutelare e promuovere i diritti della famiglia e dei singoli suoi componenti, con particolare attenzione ai bambini e agli adolescenti.
Il nostro Paese dispone già di uno strumento importante, il Tribunale per i minorenni. Ma forse è maturo il tempo per fare un passo in più. Stiamo pensando in particolare all’istituzione di un giudice unico specializzato per la famiglia e i minori. Un Tribunale che si occupi specificamente della famiglia, sia per affrontare le sue crisi che per gestire – pur all’interno di una vita familiare regolare – i passaggi che richiedono un intervento giurisdizionale. Un Tribunale affiancato da esperti e dotato di conoscenze specifiche, sensibilità, capacità di mediazione.
Quali altri interventi pensa di poter operare per rompere la solitudine nella quale una famiglia, soprattutto quando è in difficoltà, è immersa?
Credo che vada potenziata la vocazione socio-assistenziale dei consultori familiari, da vedere come presidi territoriali più prossimi alle famiglie. Penso a consultori in grado di affiancare e cooperare con i genitori, valorizzando la dimensione multidisciplinare degli interventi, nel percorso di crescita e formazione dei figli. Consultori che diventino dei veri centri di promozione della stabilità e del benessere delle famiglie, in grado non solo di fornire informazioni, ma un aiuto e un sostegno concreto a superare i momenti di difficoltà, le crisi e la solitudine di tante famiglie. Si può anche prevedere, come è già stato sperimentato in alcuni Comuni, la creazione di sportelli dedicati.
Lei ha una certa visione della famiglia che le viene dalle sue radici e dalla sua cultura cattolica, ma deve fare i conti e decidere anche per chi ha concezioni differenti della famiglia: come concilia le cose? Non le crea crisi e imbarazzo?
No, non parlerei di imbarazzo, tra l’altro la famiglia non è solo un valore dei cattolici. La famiglia è un valore laico ed è percepita come un’istituzione fondamentale della società, come un bene per tutti. Lo dice anche la Costituzione, all’art. 29. È vero però che nella nostra società pluralista convivono concezioni diverse. Occorre allora fare la fatica di coniugare le proprie convinzioni etiche con la ricerca del bene comune, del bene possibile, senza arroganza e senza prevaricazioni. Credo che sia un principio alla base di un modo laico di intendere la politica. Ce lo ha ricordato il Concilio Vaticano II e anche, di recente, Benedetto XVI, con l’invito fatto ai politici cattolici di assumersi le proprie responsabilità. Sono cresciuta alla scuola di maestri come Bachelet, Dossetti, Moro e da loro ho imparato che i valori che professiamo debbono trovare il modo più giusto per diventare norme e atti di governo attraverso il confronto anche con chi non la pensa come noi. È vero: i principi non si negoziano, ma le concrete opzioni politiche nascono sempre dalla convergenza e dalla sintesi tra opinioni e culture politiche diverse. A volte ci si riesce in maniera quasi spontanea e unanime; altre volte, invece, questo lavoro richiede un grande impegno per cercare il punto di intesa più alto e coerente. Non è una trattativa al ribasso. Tutt’altro. Credo sia invece il modo migliore per servire la comunità e dare una risposta quanto più condivisa ai problemi e alle sfide del nostro tempo.