Bioetica a Sud del mondo

La nostra società non considera più la salute un diritto fondamentale anche per il Sud del mondo. Preferisce esercitare un’azione umanitaria che è spesso oggetto di interessi internazionali.
22 Aprile 2010 | di


«Perché è morta Safar Banu?». Questa domanda dà il titolo a uno dei capitoli del rapporto sulla disuguaglianza nel campo della salute elaborato dalla Banca Mondiale (Attacking inequality in the health sector). La storia della donna bengalese è infatti emblematica del complesso intreccio di fattori culturali ed economici che determinano l’accesso alla cura nei Paesi in via di sviluppo. E che, nei fatti, sanciscono l’esistenza di una concezione di «salute» che varia a seconda delle mappe geografiche, politiche ed economiche determinate da attori diversi, pubblici e privati, dai governi alle multinazionali del farmaco, dalle politiche economiche ai trattati commerciali.

Una chiave di lettura che costringe a inquadrare anche la riflessione sulla bioetica in un orizzonte più ampio, che – ancor più all’indomani della Dichiarazione universale sulla bioetica e i diritti umani approvata nell’ottobre del 2005 – non può ignorare il Terzo Mondo. Pensiamo per esempio al problema della dignità umana... anche quando si trova in condizioni di povertà o di disagio, scrive Fabrizio Turoldo della Fondazione Lanza, la quale ha pubblicato un volume su La globalizzazione della bioetica.

La Banca Mondiale inserisce la storia di Safar in uno studio che individua i vari fattori che condizionano l’accesso alle cure mediche: le strade e i mezzi di trasporto (in Bangladesh i trasporti sono la voce di spesa più alta dopo le medicine; nello Zimbabwe la mancanza/ritardo nei trasporti sono la causa del 28 per cento delle morti nelle aree rurali); la formazione e l’educazione delle donne (nel 1998 in India due terzi delle madri non avevano vaccinato i loro figli: un terzo perché non sapeva dove portarli e un altro perché non ne vedeva la necessità); l’acqua potabile e l’igiene. Infine incidono sulla salute i fattori ambientali (per esempio sorgenti tradizionali di energie a basso costo – come il carbone e le biomasse – generalmente usate nei Paesi poveri per cucinare o riscaldare, sono nocivi).


Verso la privatizzazione

«Tutti questi elementi sono importanti. Ed è precisamente in quest’ottica che deve essere inquadrata la questione tanto citata dell’accesso ai farmaci essenziali. Molte cose però si possono fare adesso, senza attendere troppe infrastrutture. Basterebbe ingegnarsi per assicurare il diritto alla cura, tenendo conto delle poche risorse, con un sistema semplice, con strutture snelle, e con la formazione di personale anche non medico per garantire la possibilità di cura a tutti. Questo approccio è fattibile, anche con le malattie croniche come l’aids. Era uno degli obiettivi del Millennio ed è stato mancato: e oggi la salute non è più considerata un diritto ma un’azione umanitaria». Ad affermarlo è Nicoletta Dentico, consulente dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), che ci aiuta a capire come si sia passati dalle conquiste degli anni Settanta – la Dichiarazione di Alma Ata (box a pagina 35); la definizione di farmaco essenziale in un’ottica di diritti umani, secondo la quale esso deve rispondere a bisogni e non a logiche di mercato; una sanità di base per tutti – alla «privatizzazione della salute». A grandi linee il cambiamento nella politica della salute è determinato da alcuni passaggi chiave. Il primo è l’ingresso di una logica liberista attraverso i rapporti della Banca Mondiale i quali, alla fine degli anni Settanta, stabiliscono che l’efficienza e l’efficacia della sanità di uno Stato va misurata non sul benessere delle persone, ma sui numeri dell’economia. Questo vuol dire che un Paese che chiede prestiti alla Banca mondiale o al Fondo monetario internazionale si sente rispondere, in una logica di «aggiustamento strutturale», che la salute è una spesa sociale, non genera profitto, e come tale deve essere tagliata. Queste politiche di decurtazione dei fondi, che hanno portato a una sanità privatizzata, hanno oggi esiti agghiaccianti: per esempio, in Paesi come il Sud Sudan una madre che vuole curare il figlio per la malaria, se non ha i soldi, viene rimandata indietro dall’ospedale. E se per curare il bambino decide di vendere la mucca di casa, unica fonte di reddito, manda la famiglia sul lastrico.

Questa situazione è stata seguita da un ulteriore passaggio, avvenuto negli anni Ottanta e Novanta, quando «tutto il negoziato sul commercio internazionale dell’Uruguay round e dell’Organizzazione internazionale del commercio ha fatto capire che anche la salute viene gestita attraverso quegli accordi: non soltanto attraverso l’Accordo sui diritti di proprietà intellettuale relativi al commercio (Trips), ma anche l’Accordo generale sul commercio di servizi (Gats) laddove la salute diventa un prodotto, misurabile finanziariamente, trasportabile in qualunque luogo». Nicoletta Dentico fa quest’esempio: domani un anziano signore americano potrà, in un’ottica globalizzata, essere ricoverato in una casa di riposo in Ghana perché lì la sua compagnia di assicurazione ha deciso che è possibile gestire il paziente in un ospedale privato a costo inferiore. «Questo tipo di processo ha prodotto nella pratica un allontanamento progressivo dal diritto fondamentale alla salute, perché in questo settore le priorità sono stabilite da chi ha i soldi. Si lavora nel senso di una tecnologizzazione e una medicalizzazione progressiva, quasi irreversibile, della salute anche nei Paesi in cui le soluzioni dovrebbero essere di tutt’altra natura». E i fondi vengono indirizzati a settori funzionali a quella piccola parte del pianeta che può pagare. «A chi interessa che la diarrea sia la prima causa di mortalità per i bambini nei Paesi in via di sviluppo da zero a cinque anni? Eppure il numero di morti per questa malattia è superiore ai malati di aids, ma da noi nessuno ne parla».

In questo scenario, «dagli inizi degli anni Novanta sono nate una serie di iniziative pubblico-private che hanno prodotto un cambiamento sostanziale nel panorama di chi oggi gestisce la salute nel mondo, a scapito dell’Oms, dei governi e a vantaggio di molti attori privati, che sono, per esempio, le Fondazioni come quelle di Bill Gates, le case farmaceutiche, la Coca Cola o Mc Donalds che, insieme all’Unicef, assicurano le campagne di vaccinazione. È come se i governi e le organizzazioni intergovernative avessero deciso che l’unico modo per arrivare alle popolazioni è attraverso la catena capillare di alcuni prodotti globali e globalizzati. L’Oms rischia di essere sempre di più un ufficio di natura tecnica e sempre meno un attore di natura politica». Un esempio? La famosa febbre suina e i milioni di vaccini inutilizzati rimasti sul groppone degli Stati europei. «È emblematico, perché il consigliere dell’Oms era un esperto olandese legato al settore farmaceutico e ora, non sapendo cosa farne, alcuni Paesi pensano di portare questi vaccini nei Paesi del Terzo mondo».

L’Occidente vive così questo paradosso: la salute è diventata di moda, si parla di salute globale, ma i modelli proposti per parlarne nel Nord sono passati senza neanche tante modifiche concettuali ai Paesi in via di sviluppo. Una visione tecnologica, legata al farmaco, che si focalizza sulla cura e non sulla prevenzione sembra la pressione fondamentale che i Paesi donatori esercitano nei confronti dei problemi sanitari dei Paesi in via di sviluppo.

Dietro il glamour dei grandi eventi e e le iniziative filantropiche, dunque – sostiene Dentico – si combatte una vera e propria guerra sulla salute, che produce milioni di vittime, viene fatta con le armi del commercio e mette in gioco di tutto, dal controllo dei saperi alla fuga dei cervelli dal Sud verso il Nord, alla competitività per il futuro. È una guerra in cui, per esempio, le industrie farmaceutiche stanno tentando in vari modi di bypassare la clausola della «licenza obbligatoria» prevista dagli accordi Trips. Questa prevede che i governi possano richiedere l’accesso al brevetto dei principi attivi di un farmaco, per motivi di «sanità pubblica». (È quanto accaduto, per esempio, nel 2008 in Thailandia per farmaci antiaids e per un farmaco antitumorale).

«Nei Paesi in via di sviluppo la bioetica ha implicazioni che hanno a che fare con quella che Giovanni Paolo II chiamava “struttura di peccato”. O affrontiamo la questione – conclude Dentico – con la stessa serietà che ha il dibattito qui da noi, tenendo conto anche delle giuste proporzioni della situazione, oppure si rischia di cadere in una discettazione di lusso, puro riflesso di questa società opulenta».


I numeri

3/1000: mortalità infantile nel Nord del mondo

300/1000: mortalità infantile in Africa;

85 % quantità di acqua consumata dal 12 % della popolazione mondiale;

20 %: popolazione mondiale che beneficia dell’82 % delle esportazioni e consuma l’86 % dei beni disponibili;

13 dollari: cifra da restituire nei Paesi in via di sviluppo per ogni dollaro ricevuto in aiuti;

3,6 milioni morti per guerre nel Sud del mondo;

2 dollari: sussidio per le mucche europee, superiore al reddito giornaliero di metà della popolazione mondiale.



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Dichiarazioni internazionali


- La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948 attesta che «ogni persona ha diritto a un adeguato livello di vita che assicuri a lei e alla sua famiglia la salute e il benessere, inclusi il cibo, il vestiario, l’abitazione, l’assistenza medica e i servizi sociali necessari e il diritto alla sicurezza
in caso di disoccupazione, malattia, disabilità, vedovanza o vecchiaia».


- La Dichiarazione di Alma Ata dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, del 1978, riferisce che «la salute, come stato di benessere fisico, mentale e sociale e non solo come assenza di malattia o infermità, è un diritto fondamentale dell’uomo e l’accesso aun livello più alto di salute è un obiettivo sociale estremamente importante, d’interesse mondiale, e presuppone la partecipazione di numerosi settori socio-economici oltre che di quelli sanitari. Le profonde disuguaglianze nello stato di salute tra i Paesi più industrializzati e quelli in via di sviluppo, così come all’interno dei Paesi stessi, sono politicamente, socialmente ed economicamente inaccettabili e costituiscono motivo di preoccupazione comune per tutti i Paesi».


L’intervista. Sviluppare logiche di giustizia

Sulle politiche della salute nel Nord e nel Sud del mondo abbiamo sentito il dottor Gian Antonio
Dei Tos, direttore dell’Unità operativa qualità etica e umanizzazione dell’azienda Ulss 7 del Veneto.

Msa. Come cambia la prospettiva se guardiamo alla tutela della salute al Sud del mondo rispetto al Nord?

Dei Tos. Il principio di tutela della salute non ha soltanto implicazioni personali e relazionali, ma importanti risvolti di carattere sociale e politico che chiamano in causa il tema dell’equità e della giustizia distributiva. La tutela della salute ha un carattere di universalità morale che, nei fatti e al di là delle dichiarazioni, viene disdetta dai meccanismi economici e politici che generano la disuguaglianza tra Nord e Sud del mondo. Il Nord del mondo è assillato dalla patologia che si genera dall’eccesso e dall’uso improprio della ricchezza, mentre il Sud del mondo è afflitto da un’assenza di dignità e di diritto alla vita prodotta dalla colpevole incapacità di rispondere ai bisogni primari.

Salute e sanità sono dimensioni che sottolineano e incrementano le disuguaglianze a livello mondiale: perché?

Le disuguaglianze si stabiliscono nei primissimi anni di vita e, in assenza di interventi, si ampliano negli anni successivi. La disuguaglianza diventa iniquità morale lì dove le ineguaglianze della salute possono essere evitabili mediante ragionevoli interventi correttivi. Correggere queste iniquità è un problema di giustizia sociale e di violazione del diritto alla vita che sta uccidendo le persone su larga scala.

Le politiche della salute devono analizzare lo stato e l’accesso ai servizi secondo la prospettiva dell’equità. È necessario investire nelle malattie della povertà, nei gruppi sociali più vulnerabili e nei periodi di maggiore fragilità della vita. Purtroppo invece i governi tendono a spendere di più per i ricchi che per i poveri, perché sono maggiori le probabilità di successo.

Quale consapevolezza c’è in Occidente di questa situazione?

L’opinione pubblica delle aree Nord-occidentali non dimostra di avere significativa consapevolezza delle iniquità generate dagli squilibri dell’economia mondiale. Se ciò fosse, assisteremmo ad azioni correttive di sistema. Invece la maggior parte degli interventi è lasciata alle iniziative spontanee della solidarietà, la quale non è sufficiente per produrre cambiamenti strutturali permanenti. Probabilmente c’è anche una scarsa informazione che non giunge capillarmente alle famiglie del Nord del mondo, così da scuotere le coscienze e generare il desiderio di cambiare i propri stili di vita verso un utilizzo responsabile ed equamente condiviso delle risorse. Anche la ricerca scientifica tende a essere cieca di fronte al tema dell’iniquità. Da più parti giungono notizie che in aree povere come l’America Latina, l’Asia, ma soprattutto l’Africa, le logiche del mercato facile consentono una corsa alle biotecnologie (dalle staminali ai tentativi di clonazione e alle strategie eugenetiche) senza regole né meccanismi di controllo.

La grande Africa rischia di diventare la cavia di nuove, discutibili manipolazioni i cui costi umani ricadranno ancora una volta sui poveri del mondo. Il grido di allarme che sorge da queste aree in cui la vita è così difficile ci riporta all’evidenza della speculazione consumistica la cui unica logica è quella del profitto e del mercato indifferente al valore intrinseco della vita.

Non è possibile tutelare il valore della vita se tutti non diventiamo più consapevoli dei nostri livelli di responsabilità, se non cooperiamo a sviluppare logiche di giustizia, se non difendiamo, nei fatti, la persona da ogni attentato alla sua dignità.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017