Borghettinho: la musica nel sangue
È di origini mantovane Renato Borghetti, il «re» della gaita-ponto, che con la sua musica ha fatto conoscere al mondo i ritmi e le atmosfere del Brasile meridionale.
11 Novembre 2010
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Il suo nome popolare è organetto, ma in Italia è conosciuto anche come «fisarmonica diatonica» (assumendo poi vari altri nomi dialettali, a seconda delle regioni nelle quali è diffuso); in Francia lo chiamano accordéon diatonique, nei Paesi anglofoni diventa button accordion e in Brasile si chiama invece gaita-ponto.
Nato alla metà dell’Ottocento, (il primo brevetto fu depositato a Vienna nel 1829), questo strumento musicale si diffuse rapidamente a fine secolo nell’ambito della musica tradizionale e folkloristica, divenendo molto popolare in Italia, nei Paesi Baschi, in Francia, Austria, Irlanda e Germania.
L’organetto può essere considerato un progenitore della più famosa fisarmonica, ma si differenzia da questa per il fatto che qui i tasti sono sostituiti da bottoni in grado di suonare contemporaneamente la melodia e l’accompagnamento.
La peculiarità dell’organetto è che a ogni bottone (tranne uno, che viene di solito contrassegnato con un colore diverso) corrispondono due suoni differenti, a seconda che l’esecutore stia aprendo o chiudendo il mantice. Questa caratteristica lo rende di non facile esecuzione ed è forse uno dei motivi per i quali i musicisti in grado di suonarlo professionalmente sono veramente pochi, ai nostri giorni.
Poco ingombrante e pertanto facile da portare appresso, l’organetto trovò posto nei bauli dei milioni di emigranti del Vecchio Continente che fra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento solcarono l’Oceano per approdare nelle Americhe. Così si spiega la sua enorme diffusione, ad esempio, in Canada, in Argentina e nel Sud del Brasile; e così si spiega il fatto che i maggiori specialisti di questo strumento siano stati – allora – emigranti italiani e siano – oggi – i loro discendenti. Italiane, prevalentemente marchigiane, sono anche le principali aziende che da molti anni detengono il monopolio della produzione mondiale di organetti.
Nato come strumento musicale popolare e assurto a uno degli strumenti-simbolo dell’emigrazione, la fisarmonica diatonica sta ritornando in questi ultimi anni nelle terre di origine grazie ad alcuni interessantissimi artisti che sono riusciti a «reinventarlo» con sonorità nuove, fresche e vivaci nelle quali il folk viene contaminato da influenze di musica jazz, pop, blues e perfino da riferimenti alla musica cosiddetta «colta».
Il re mondiale dell’organetto
Se l’italo-argentino Astor Piazzolla (1921-1992) è stato fra i migliori virtuosi di bandoneón (uno strumento molto simile all’organetto), nonché inventore del Nuevo Tango, il «re» mondiale dell’organetto (che nel Brasile meridionale – abbiamo già detto – è molto diffuso e conosciuto come gaita-ponto) si chiama Renato Borghetti, musicista gaúcho del Rio Grande do Sul, regione brasiliana ove emigrarono i suoi nonni originari di Goito in Provincia di Mantova.
Aveva meno di dieci anni, Renato, quando il padre Rodi Pedro Borghetti (che in quei primi anni Settanta presiedeva un Centro di Tradizione Gaúcha-CTG) ebbe la felice intuizione di regalargli una gaita-ponto.
L’incontro fra quella «scatola di suoni» affatto facile da suonare e un bambino, che fino a quel momento non sapeva distinguere le note, fu un classico colpo di fulmine.
Tre anni più tardi Borghettinho (così viene amichevolmente chiamato ancora oggi) è già un’attrazione regionale: in occasione delle affollatissime feste popolari gaúche il ragazzino strabilia il pubblico per come riesce ad aprire e chiudere il mantice della sua gaita (ci vuole una certa energia) e per l’agilità con la quale le dita si destreggiano fra i bottoni dello strumento.
Man mano che passano gli anni Renato passa dallo «status» di bambino prodigio a quello di conclamata star musicale la cui fama travalica i confini del Rio Grande do Sul. A diciotto anni decide che la gaita-ponto sarà lo strumento che da allora in poi vivrà con lui in una sorta di simbiosi, che gli darà da mangiare, che lo farà andare in giro per il mondo a portare i ritmi e le sonorità della sua terra.
Il primo disco, registrato e distribuito in economia, arriva nel 1984. Trattandosi di un musicista esordiente, di soli 20 anni, se ne pubblicarono un migliaio di copie, ma dopo poche settimane la casa discografica fu costretta a stamparne ancora. E poi ancora: in pochi mesi furono vendute 100 mila copie e quell’album, dal titolo «Renato Borghetti», risultò il disco più venduto nella storia della musica strumentale brasiliana. L’anno successivo Borghettinho, con il suo secondo lavoro, riuscì nell’impresa di superare se stesso vendendo ben 250 mila copie che gli valsero un «disco di platino» e una straordinaria notorietà in tutto il Brasile.
Nasce in quella metà degli anni Ottanta il personaggio-Borghetti, riconoscibilissimo perché in scena, ma spesso anche fuori, egli ama indossare gli abiti tradizionali della sua terra come le bombachas (i tipici pantaloni a sbuffo gaúchi) e le scarpe di corda. E poi c’è quel cappellino perennemente calato sugli occhi, quasi a proteggere la sua proverbiale timidezza dal mondo esterno, dal quale escono i lunghi capelli che gli arrivano fin sulle spalle.
Borghetti, consapevole dell’enorme quanto inatteso successo, si rende anche conto che il suo è un genere musicale di nicchia, circoscritto territorialmente e pertanto difficilmente esportabile, così com’è. Per questo il suo obbiettivo, ora, è quello di trasformare l’energia e la passione della musica gaúcha, che pure l’hanno reso famoso, in un sound nuovo, accattivante, nel quale il folk venga rivisitato e reinterpretato attraverso influenze prese da altri ritmi e sonorità internazionali. Sono anni di studio, passati ad ascoltare tanto jazz e tanta «classica», a buttar giù idee, ad abbozzare sul pentagramma frasi musicali, a confrontarsi con artisti provenienti da altre esperienze. Nasce così l’originalissima musica di Renato Borghetti, fatta di raffinate composizioni che colpiscono i critici da un lato per i chiari riferimenti alla tradizione musicale del Brasile meridionale (una tradizione prima di lui poco conosciuta al di fuori dei confini nazionali), dall’altro per la capacità di aprire linguaggi nuovi, di avventurarsi in sentieri sonori inesplorati.
Negli anni Novanta le performances di Borghetti si arricchiscono sempre più con frequenti collaborazioni con orchestre, gruppi e artisti che appartengono al «gotha» della musica brasiliana. Suona al S.O.B. di New York, riceve il premio dell’Associazione Paulista dei Critici d’Arte per il miglior disco dell’anno (1991), rappresenta il sud del Brasile nel progetto «Brasil Musical» assieme a musicisti del calibro di Paulo Moura, Hermeto Pascoal, Wagner Tiso ed Egberto Gismonti, stabilisce un ponte artistico con l’Uruguay e l’Argentina e nel frattempo «sforna» un disco all’anno.
Alla fine di quegli anni Novanta, così intensi di studio e di ricerca, Renato Borghetti è pronto per spiccare il volo verso l’Europa: la culla della musica erudita, ma anche il luogo delle sue radici italiane, la terra dove nacque la gaita-ponto. Con il suo Quartetto è dapprima in Francia e Portogallo; poi approda trionfalmente in Austria, Germania, Italia, Svizzera, Olanda, Gran Bretagna, in Nord Europa, in Slovenia, in Ungheria, nella Repubblica Ceca, ospite delle più rinomate rassegne jazzistiche internazionali dove la sua musica, così nuova e così poco «brasiliana», stupisce e raccoglie anno dopo anno stuoli di ammiratori.
Ma è l’Italia – che Borghetti si è girato ormai in lungo e in largo – il Paese nel quale si esibisce più volentieri, come conferma il fratello Marcos che lo segue come manager in tutte le tournée. Qualche tempo fa gli amministratori mantovani l’hanno accolto con tutti gli onori, gli hanno fatto visitare i luoghi delle origini, gli hanno parlato dei Borghetti che ancora vivono da quelle parti e gli hanno ricordato che quelle terre hanno dato i natali a due grandi fisarmonicisti del Novecento che corrispondono ai nomi di Gorni Kramer e Wolmer Beltrami.
È da allora che il nostro Borghettinho ha cominciato a pensare che al suo innato talento musicale abbia contribuito, in buona parte, quel sangue mantovano che gli scorre nelle vene.
Nato alla metà dell’Ottocento, (il primo brevetto fu depositato a Vienna nel 1829), questo strumento musicale si diffuse rapidamente a fine secolo nell’ambito della musica tradizionale e folkloristica, divenendo molto popolare in Italia, nei Paesi Baschi, in Francia, Austria, Irlanda e Germania.
L’organetto può essere considerato un progenitore della più famosa fisarmonica, ma si differenzia da questa per il fatto che qui i tasti sono sostituiti da bottoni in grado di suonare contemporaneamente la melodia e l’accompagnamento.
La peculiarità dell’organetto è che a ogni bottone (tranne uno, che viene di solito contrassegnato con un colore diverso) corrispondono due suoni differenti, a seconda che l’esecutore stia aprendo o chiudendo il mantice. Questa caratteristica lo rende di non facile esecuzione ed è forse uno dei motivi per i quali i musicisti in grado di suonarlo professionalmente sono veramente pochi, ai nostri giorni.
Poco ingombrante e pertanto facile da portare appresso, l’organetto trovò posto nei bauli dei milioni di emigranti del Vecchio Continente che fra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento solcarono l’Oceano per approdare nelle Americhe. Così si spiega la sua enorme diffusione, ad esempio, in Canada, in Argentina e nel Sud del Brasile; e così si spiega il fatto che i maggiori specialisti di questo strumento siano stati – allora – emigranti italiani e siano – oggi – i loro discendenti. Italiane, prevalentemente marchigiane, sono anche le principali aziende che da molti anni detengono il monopolio della produzione mondiale di organetti.
Nato come strumento musicale popolare e assurto a uno degli strumenti-simbolo dell’emigrazione, la fisarmonica diatonica sta ritornando in questi ultimi anni nelle terre di origine grazie ad alcuni interessantissimi artisti che sono riusciti a «reinventarlo» con sonorità nuove, fresche e vivaci nelle quali il folk viene contaminato da influenze di musica jazz, pop, blues e perfino da riferimenti alla musica cosiddetta «colta».
Il re mondiale dell’organetto
Se l’italo-argentino Astor Piazzolla (1921-1992) è stato fra i migliori virtuosi di bandoneón (uno strumento molto simile all’organetto), nonché inventore del Nuevo Tango, il «re» mondiale dell’organetto (che nel Brasile meridionale – abbiamo già detto – è molto diffuso e conosciuto come gaita-ponto) si chiama Renato Borghetti, musicista gaúcho del Rio Grande do Sul, regione brasiliana ove emigrarono i suoi nonni originari di Goito in Provincia di Mantova.
Aveva meno di dieci anni, Renato, quando il padre Rodi Pedro Borghetti (che in quei primi anni Settanta presiedeva un Centro di Tradizione Gaúcha-CTG) ebbe la felice intuizione di regalargli una gaita-ponto.
L’incontro fra quella «scatola di suoni» affatto facile da suonare e un bambino, che fino a quel momento non sapeva distinguere le note, fu un classico colpo di fulmine.
Tre anni più tardi Borghettinho (così viene amichevolmente chiamato ancora oggi) è già un’attrazione regionale: in occasione delle affollatissime feste popolari gaúche il ragazzino strabilia il pubblico per come riesce ad aprire e chiudere il mantice della sua gaita (ci vuole una certa energia) e per l’agilità con la quale le dita si destreggiano fra i bottoni dello strumento.
Man mano che passano gli anni Renato passa dallo «status» di bambino prodigio a quello di conclamata star musicale la cui fama travalica i confini del Rio Grande do Sul. A diciotto anni decide che la gaita-ponto sarà lo strumento che da allora in poi vivrà con lui in una sorta di simbiosi, che gli darà da mangiare, che lo farà andare in giro per il mondo a portare i ritmi e le sonorità della sua terra.
Il primo disco, registrato e distribuito in economia, arriva nel 1984. Trattandosi di un musicista esordiente, di soli 20 anni, se ne pubblicarono un migliaio di copie, ma dopo poche settimane la casa discografica fu costretta a stamparne ancora. E poi ancora: in pochi mesi furono vendute 100 mila copie e quell’album, dal titolo «Renato Borghetti», risultò il disco più venduto nella storia della musica strumentale brasiliana. L’anno successivo Borghettinho, con il suo secondo lavoro, riuscì nell’impresa di superare se stesso vendendo ben 250 mila copie che gli valsero un «disco di platino» e una straordinaria notorietà in tutto il Brasile.
Nasce in quella metà degli anni Ottanta il personaggio-Borghetti, riconoscibilissimo perché in scena, ma spesso anche fuori, egli ama indossare gli abiti tradizionali della sua terra come le bombachas (i tipici pantaloni a sbuffo gaúchi) e le scarpe di corda. E poi c’è quel cappellino perennemente calato sugli occhi, quasi a proteggere la sua proverbiale timidezza dal mondo esterno, dal quale escono i lunghi capelli che gli arrivano fin sulle spalle.
Borghetti, consapevole dell’enorme quanto inatteso successo, si rende anche conto che il suo è un genere musicale di nicchia, circoscritto territorialmente e pertanto difficilmente esportabile, così com’è. Per questo il suo obbiettivo, ora, è quello di trasformare l’energia e la passione della musica gaúcha, che pure l’hanno reso famoso, in un sound nuovo, accattivante, nel quale il folk venga rivisitato e reinterpretato attraverso influenze prese da altri ritmi e sonorità internazionali. Sono anni di studio, passati ad ascoltare tanto jazz e tanta «classica», a buttar giù idee, ad abbozzare sul pentagramma frasi musicali, a confrontarsi con artisti provenienti da altre esperienze. Nasce così l’originalissima musica di Renato Borghetti, fatta di raffinate composizioni che colpiscono i critici da un lato per i chiari riferimenti alla tradizione musicale del Brasile meridionale (una tradizione prima di lui poco conosciuta al di fuori dei confini nazionali), dall’altro per la capacità di aprire linguaggi nuovi, di avventurarsi in sentieri sonori inesplorati.
Negli anni Novanta le performances di Borghetti si arricchiscono sempre più con frequenti collaborazioni con orchestre, gruppi e artisti che appartengono al «gotha» della musica brasiliana. Suona al S.O.B. di New York, riceve il premio dell’Associazione Paulista dei Critici d’Arte per il miglior disco dell’anno (1991), rappresenta il sud del Brasile nel progetto «Brasil Musical» assieme a musicisti del calibro di Paulo Moura, Hermeto Pascoal, Wagner Tiso ed Egberto Gismonti, stabilisce un ponte artistico con l’Uruguay e l’Argentina e nel frattempo «sforna» un disco all’anno.
Alla fine di quegli anni Novanta, così intensi di studio e di ricerca, Renato Borghetti è pronto per spiccare il volo verso l’Europa: la culla della musica erudita, ma anche il luogo delle sue radici italiane, la terra dove nacque la gaita-ponto. Con il suo Quartetto è dapprima in Francia e Portogallo; poi approda trionfalmente in Austria, Germania, Italia, Svizzera, Olanda, Gran Bretagna, in Nord Europa, in Slovenia, in Ungheria, nella Repubblica Ceca, ospite delle più rinomate rassegne jazzistiche internazionali dove la sua musica, così nuova e così poco «brasiliana», stupisce e raccoglie anno dopo anno stuoli di ammiratori.
Ma è l’Italia – che Borghetti si è girato ormai in lungo e in largo – il Paese nel quale si esibisce più volentieri, come conferma il fratello Marcos che lo segue come manager in tutte le tournée. Qualche tempo fa gli amministratori mantovani l’hanno accolto con tutti gli onori, gli hanno fatto visitare i luoghi delle origini, gli hanno parlato dei Borghetti che ancora vivono da quelle parti e gli hanno ricordato che quelle terre hanno dato i natali a due grandi fisarmonicisti del Novecento che corrispondono ai nomi di Gorni Kramer e Wolmer Beltrami.
È da allora che il nostro Borghettinho ha cominciato a pensare che al suo innato talento musicale abbia contribuito, in buona parte, quel sangue mantovano che gli scorre nelle vene.
Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017