Cacciatori di speranza
Emigrazione italiana nel mondo
Sono 4.482.115 i cittadini italiani residenti all’estero al 1° gennaio 2014, iscritti all’Aire (Anagrafe degli italiani residenti all’estero). Nel 2013 sono stati ben 94.126 gli italiani che hanno lasciato il Paese, con una crescita del 16,1 per cento rispetto all’anno precedente. Mete preferite: Gran Bretagna (12.933); Germania (11.731); Svizzera (10.300); Francia (8.402), ma anche Australia, Cina ed Emirati Arabi.
Norrköping, 160 km a sud ovest di Stoccolma. In questa tranquilla cittadina affacciata sul Baltico, con un museo del lavoro, un grande parco che conserva ancora iscrizioni rupestri e asili nido che tengono aperto di notte e nel fine settimana, vivono Gabriele e Silvia. Sono giunti in Svezia nel 2009.
Lei, Silvia Mainardi, aveva appena 30 anni e in tasca una laurea in medicina da 110 e lode. Lui, Gabriele Formentini, 37 anni, era laureato in astronomia. «Ci siamo conosciuti a Padova dove avevamo frequentato l’università. Per l’esattezza pattinando in Prato della Valle, poco lontano dal “Messaggero di sant’Antonio” − racconta Silvia −. Io arrivavo da Vicenza, Gabriele da Latisana (Udine). Ci siamo sposati nel giugno 2008. E l’inizio della nostra storia va cercato proprio qui. È in questo momento che cominciamo a pensare “da grandi”, valutando tutte le opportunità che l’Italia sarebbe stata in grado di offrire al futuro nostro e dei nostri figli. Gabriele, dopo dieci anni tra partita Iva e co.co.co, aveva appena avuto un lavoro a tempo indeterminato all’Arpav. Quanto di meglio si potesse desiderare, ma senza prospettive di crescita. Per me, invece, all’orizzonte c’erano turni di guardia al pronto soccorso e lo stesso precariato che aveva affrontato Gabriele: in Italia, senza una raccomandazione, i 110 e lode non servono proprio a nulla. Così abbiamo iniziato a guardare oltre confine».
La svolta arriva alla fine del 2008. Gabriele incontra, a un congresso in Germania, una collega svedese. Parlano del suo Paese. Gabriele dice a Silvia di mandare una mail all’ospedale della città in cui viveva la sua collega. Dopo un quarto d’ora avevano risposto alla mail e fissato un colloquio che si trasformerà in un’assunzione. In quattro e quattr’otto Silvia e Gabriele si trasferiscono nel Paese scandinavo.
«A febbraio 2011 è nato, qui in Svezia, nostro figlio. Lo abbiamo chiamato Galileo, in onore del nostro amore per la scienza e il cielo e per Padova, la città dove abbiamo studiato e dove ci siamo incontrati. Un nome che mi pare sia azzeccato, vista la sua curiosità. Galileo è perfettamente bilingue − continua Silvia –. Dopo la maternità ho cambiato posto di lavoro: prima lavoravo in ospedale, ora dirigo un presidio di medicina di base. Ho più tempo per stare con mio figlio». Papà Gabriele, invece, è metereologo al Servizio Meteorologico Nazionale svedese che ha sede proprio a Norrköping. Appena arrivati, hanno preso un appartamento in affitto. Oggi vivono in una casa, a cinque chilometri dal centro. L’hanno colorata di grigio-azzurro come i colori del cielo. «Non è stato facile partire. È ovvio che il tuo Paese, soprattutto all’inizio, ti manca. Sentiamo genitori e parenti tutti i giorni, via skype o per telefono. Ma non torniamo indietro. Il nostro non è stato un salto nel buio. E non deve esserlo per nessun giovane che va all’estero. Bisogna partire preparati e avendo ben chiaro ciò che si vuole. A fare la differenza per noi, oggi, sono la qualità del lavoro e della vita quotidiana, a partire dall’aiuto che in Svezia è garantito alle famiglie con bambini o con anziani. Qui si può ancora sognare. Si può guardare avanti». E la famiglia Formentini lo fa non solo a parole. In particolare Gabriele, che nel frattempo – oltre a dedicarsi alle previsioni meteo sulle grandi rotte commerciali – è diventato «cacciatore di aurore boreali», vale a dire che organizza tour alla ricerca di uno degli spettacoli più strabilianti della Terra.
Questa la storia di Silvia, Gabriele e del piccolo Galileo. Ma, in giro per il mondo, sono migliaia le storie di giovani italiani che potremmo raccontare. Quelle che stanno dietro e oltre i numeri.
Generazione fuggitivi 2.0
Cifre e storie. Sono 94.126 gli italiani che nel 2013 hanno deciso di lasciare il nostro Paese. Ben il 16 per cento in più rispetto all’anno precedente. Come se una città al pari di Udine si fosse svuotata nel giro di un anno. Le statistiche (come il Rapporto italiani nel mondo della Fondazione Cei Migrantes, pubblicato il 7 ottobre scorso) ci dicono che per ogni lavoratore straniero che arriva in Italia sono almeno due gli italiani che se ne vanno all’estero. Ad andarsene sono soprattutto giovani alla ricerca di un lavoro. Stanchi di partite Iva e co.co.co, di precariato e di nepotismi.
«Vanno via dall’Italia single, soprattutto maschi, ma anche giovani famiglie con minori. All’estero va chi ha un titolo di studio e cerca lavoro qualificato − spiega Enrico Tucci della direzione generale dell’Istat −. I cittadini italiani laureati emigrati all’estero lo scorso anno sono il 28,5 per cento, nella classe d’età compresa tra i 25 e i 35 anni; il 32,3 per cento tra i 35 e i 44 anni e il 22,2 per cento tra quelli che hanno più di 45 anni. Ma assistiamo poi anche a un’altra fuga: quella dei ragazzi tra i 18 e i 20 anni».
Alla ricerca di un lavoro ci si prepara pure imparando bene una lingua. «Siamo il Paese che ha la seconda diaspora mondiale: prima di noi solo la Cina. I giovani partono, ed è normale che lo facciano – afferma convinto Mario Giro, sottosegretario agli Esteri con delega per gli italiani all’estero –. L’Erasmus sta creando una nuova generazione. Sono cambiati il mondo e il senso dello spostarsi. Le storie delle nostre famiglie all’estero, dei nostri giovani sono quasi sempre storie di successo. Quella di oggi non è una fuga, lo era una volta. Chi arriva a Lampedusa fugge, rischiando la vita. Fuggono i cristiani d’Oriente, sono fuggiti gli ebrei durante la Seconda guerra mondiale. I giovani oggi non fuggono, si muovono e l’unico scandalo è che l’Italia non è attrattiva per altri giovani. Per capovolgere questa situazione dovremmo puntare su alcune nicchie d’eccellenza che già ci sono».
Il tempo dell’attesa
Non più valigie di cartone e disperazione. Non più le grandi navi che salpano dai porti di Genova, Napoli e Palermo. Si prediligono viaggi di sola andata, purtroppo. Soprattutto in luoghi già visitati d’estate o in occasione di studio, di preferenza in Europa, ma non solo.
«Viviamo il tempo dell’attesa in cui sempre più famiglie vedono partire i loro figli, i loro padri – spiega monsignor Francesco Montenegro, arcivescovo di Agrigento, presidente della Commissione Cei per le migrazioni e della Fondazione Migrantes –. Si parla sempre di immigrazione, ma ci stiamo dimenticando che c’è un’emigrazione che, in alcune parti si sta risvegliando». Il riferimento è alle migliaia di migranti «economici» che, dai Paesi industrializzati, ormai prostrati dalla recessione, si spostano sempre più verso Nord, nei luoghi in cui l’economia ancora «tira».
Il tempo dell’andare
L’analisi di monsignor Montenegro parte dalla sua esperienza di arcivescovo. «Io li vedo questi ragazzi dalle mie parti. Non prendono più le grandi navi, ma voli low cost per andare altrove. E questo non avviene solo in Italia. Si calcola che siano circa 300 milioni le persone che nel mondo si muovono, il cosiddetto sesto continente. Se le persone si muovono è perché c’è un problema. Chi sta bene non ha bisogno di muoversi. Chi ha necessità di poter vivere meglio tenta la sorte altrove. In ogni caso, parlerei sempre in termini di risorsa migrazione. Chi si sposta e va in un’altra nazione porta sempre con sé ricchezza: capacità e professionalità. Dobbiamo ricordarcelo quando accogliamo i migranti che arrivano in Italia. Così come dobbiamo ricordare che la migrazione appartiene a tutti noi. È dentro la storia famigliare e personale di ciascuno e reclama rispetto e impegno. Ieri è toccato a noi, oggi a qualcun altro, domani nuovamente a noi. Nel mio lavoro quotidiano nella diocesi di Agrigento, ho potuto ascoltare il racconto di tante situazioni problematiche che ci si ritrova ad affrontare, nuovi strappi nelle famiglie tra genitori e figli, tra fratelli e sorelle, tra mogli e mariti. Ma come siciliano e come pastore della Chiesa italiana vedo anche la difficoltà dei sacerdoti nel capire e accompagnare chi parte, nell’accogliere l’italiano che all’estero arriva o dall’estero ritorna».
A essere colpito dal fatto che le nuove famiglie migrino soprattutto in Europa anche Mario Morcellini, docente a La Sapienza di Roma, dove dirige il dipartimento di Comunicazione e ricerca sociale. «Il fatto che il vecchio continente abbia sostituito, come destinazione, tutti gli altri è una straordinaria innovazione su cui costruire processi di legittimazione. Devo anche dire, però, che è cambiato un fenomeno senza che il mondo della cultura e della società abbiano preso atto di questi cambiamenti. Ogni partenza implica uno strappo, un dolore, una sofferenza, ma essi fanno parte del cambiamento stesso. È piuttosto la narrazione del fenomeno a essere disorientante, perché non ne restituisce gli aspetti positivi».
Ma torniamo a Norrköping dai nostri Silvia, Gabriele e Galileo. Il piccolo gioca con i Lego, mentre mamma Silvia gli sta preparando il suo piatto preferito: risotto allo zafferano. Mentre gioca guarda fuori dalla finestra. Ancora non sa che, tra qualche mese, partirà con i genitori per un viaggio molto atteso. Meta: isole Svalbard. Mamma e papà porteranno anche Galileo a caccia di aurore boreali. E, con esse, di nuovi sogni e speranze.
LE REGIONI
Da dove si parte*
1. Sicilia 698.764
2. Campania 451.927
3. Lazio 395.765
4. Calabria 375.805
5. Lombardia 372.515
6. Veneto 336.072
7. Puglia 330.263
8. Piemonte 232.215
9. Abruzzo 170.897
10. Friuli Venezia Giulia 162.203
11. Emilia Romagna 155.279
12. Toscana 140.540
13. Liguria 120.119
14. Basilicata 117.885
15. Marche 116.593
16. Sardegna 107.531
17. Molise 81.558
18. Trentino Alto Adige 78.934
19. Umbria 32.276
20. Valle d’Aosta 4.974
Incidenza emigrazione: 7,5%
*Italiani residenti all’estero iscritti all’Aire suddivisi per regione di provenienza
Fonte: Istat
Quella sposa che unisce i popoli
Abdallah non ha mai visto questo posto prima di allora. Ma appena ci mette piede è come se ci fosse sempre stato. Siamo a Grimaldi Superiore, piccolo borgo di Ventimiglia (IM), il punto più a ovest dell’Italia. Abdal, siriano di origini palestinesi, arriva da Lampedusa, il punto più lontano dall’Italia, più a sud persino di Tunisi. Ci è sbarcato l’11 ottobre 2013, insieme con centinaia di migranti, tra cui tanti bambini. Ma molti che viaggiavano con lui non ce l’hanno fatta. La barca sulla quale si trovavano è naufragata, trascinando in fondo al mare tante vite.
Abdal è il protagonista del docufilm Io sto con la sposa, presentato all’ultima Mostra del cinema di Venezia. Il regista Antonio Agugliaro, insieme con il poeta siriano palestinese Khaled Soliman Al Nassiry (che proprio durante le riprese ha ottenuto la cittadinanza italiana) e il giornalista Gabriele Del Grande lo hanno incontrato a Milano. Con lui altri quattro palestinesi e siriani, sbarcati a Lampedusa sempre quell’11 ottobre, divenuti tutti, poi, protagonisti del film. I cinque sono in fuga dalla guerra. Antonio, Khaled e Gabriele decidono di aiutarli a proseguire il loro viaggio verso la Svezia. Per evitare di essere arrestati come contrabbandieri mettono in scena un finto matrimonio. Un’amica palestinese si traveste da sposa e una decina di amici italiani e siriani da invitati. Così vestiti, attraverseranno mezza Europa, in un viaggio di quattro giorni e 3 mila chilometri che poi racconteranno nel film.
Un viaggio tutto clandestino, realmente accaduto sulla strada da Milano a Stoccolma tra il 14 e il 18 novembre 2013. Un viaggio che racconta la porta d’Europa di oggi, Lampedusa, ma che non dimentica, in pochi minuti forse tra i più carichi di emozione, quelle di ieri. Tra queste, il Passo della Morte, tragica porta della Francia per tanti migranti clandestini non solo italiani. Qui è stata girata una scena con un dietro le quinte che, in maniera inaspettata per tutta la troupe, racchiude e svela l’intero film, come spiega il regista. «A Grimaldi Superiore siamo arrivati a metà novembre. Per raggiungere il Passo bisogna percorrere un sentiero, non più lungo di 5 chilometri. Il confine è segnato da una rete di ferro. In basso ha un piccolo foro, giusto la larghezza di una persona. I migranti italiani lo attraversavano nelle notti senza luna. Ma di qui ci sono passati anche ebrei, turchi, slavi. Dall’altra parte, verso Mentone, il terreno è franoso. Nel buio assoluto di quelle notti, in molti sono rotolati giù per centinaia di metri, perdendo la vita. Per arrivare a quel punto bisogna uscire dall’abitato e raggiungere un manipolo di case abbandonate, nel bosco. Le chiamano ancora le case Gina. Era qui che i migranti attendevano i passeur che li avrebbero portati oltrefrontiera. Ed è qui, in queste case, che il film si carica della sua identità. Prima di girare la scena della rete, Abdal è entrato in uno di quei ruderi. I vecchi migranti ci vivevano per alcuni giorni. Ci sono ancora i segni di quelle presenze. Sul muro dei nomi, dei fiori, qualche figura di donna. Quando Abdal entra, rimane in silenzio. Poi raccoglie un carboncino da terra e inizia a scrivere. Sono i nomi dei compagni morti in mare. E inizia Abdal, per la prima volta da quell’11 ottobre, a raccontare. Ho chiamato subito gli operatori. Nessuno di noi, o quasi, conosce l’arabo. Ma tutti abbiamo capito. Così come lui aveva avvertito cosa ci stava tra quei muri abbandonati. Avevamo tutti le lacrime agli occhi mentre raccontava storie che solo in quel luogo potevano dispiegarsi, in una memoria comune che lui è riuscito a tessere».
Io sto con la sposa è stato finanziato grazie al crowdfunding: circa 100 mila euro arrivati da 2.617 donazioni. «È stato uno di questi sostenitori a dirci che già molto tempo prima un abito da sposa era stato il simbolo di un’odissea e di un sogno di libertà. Sulla nostra pagina Facebook ha scritto che, nel 1943, una famiglia di ebrei di Verona era fuggita e il contrabbandiere, per far loro attraversare il confine, aveva organizzato un finto matrimonio sul Lago Maggiore». I festeggiamenti, sta scritto negli archivi, durarono fino a notte fonda. Una notte senza luna. Poi saltarono tutti dall’altra parte.