In cammino per non dimenticare
Saranno le treccine che incorniciano il volto sbarazzino, o l’entusiasmo con cui parla – mille parole al minuto con un accento francese che ogni tanto risuona cadenzando le frasi con musicalità –, o forse anche le melodie della chitarra che lo accompagna in tutti i suoi spostamenti e incontri, fatto sta che John Mpaliza è ormai «un personaggio» tra i giovanissimi. Vanta migliaia di contatti nei più frequentati social network in uso, tra la pagina personale – dove lui con gentilezza risponde a tutti – e quelle dedicate alle iniziative che promuove.
Di certo, non è tipo da risparmiarsi o da tirarsi indietro di fronte allo scambio reciproco di idee e informazioni. Sarà per questo che i suoi interventi sono richiestissimi nelle scuole, nelle parrocchie, nei quartieri, nelle associazioni, soprattutto del Nord e del Centro Italia. Con il nuovo anno ha promesso che andrà anche al Sud, dove è stato invitato più volte.
John è nato nella Repubblica Democratica del Congo e da circa un anno, dopo venti trascorsi nel nostro Paese, ha ottenuto la cittadinanza italiana. Da tre lustri abita stabilmente a Reggio Emilia, dove lavora in un ente pubblico.
La storia della sua migrazione è senz’altro particolare. Non ha a che fare con le traversate a piedi del deserto, i nascondigli impensabili, lo stato di semischiavitù, o le famigerate «carrette del mare» e i tragici sbarchi sulle nostre coste di tanti migranti. È consapevole di ciò e, mentre parla, ripete spesso di essere stato fortunato: in Congo e in Italia. Anche per questo motivo è instancabile nella sua azione di sensibilizzazione per far conoscere le condizioni della gente congolese, martoriata da una guerra che dura da circa vent’anni. «Il minimo che posso fare per il mio Paese d’origine – sottolinea – è mettere in gioco me stesso, con quello che sono e con le forze che ho. Qui, in Italia, dove ora ho la fortuna di vivere».
Italia, seconda patria
«Sono nato quarantaquattro anni fa a Bukavu, nella parte orientale della Repubblica Democratica del Congo – esordisce Mpaliza –. A 7 anni ho raggiunto una mia sorella trasferitasi nella capitale Kinshasa. Abitare nella capitale mi è stato d’aiuto: sia per il clima più caldo, che ha giovato alla mia salute cagionevole, sia perché lì ho avuto la possibilità di continuare gli studi. Ho frequentato il miglior college, gestito dai gesuiti; poi, per tre anni, ho studiato ingegneria all’università».
Era la fine degli anni Ottanta e le ripercussioni della caduta del muro di Berlino e della perestrojka si facevano sentire anche nel cuore dell’Africa. «Noi studenti cercavamo in tutti i modi di essere aggiornati, di ricevere le notizie dall’Occidente: quando si è istruiti, si fa l’impossibile per conoscere e capire».
Il presidente Sese Seko Mobutu governava il Congo dal 1965; non esistevano altre parti politiche. «Ma molti universitari, ai quali mi ero unito, frequentavano un partito d’opposizione, ovviamente clandestino. Ci si incontrava nella foresta o in collina, mai nel campus; neppure le nostre famiglie dovevano sapere della nostra partecipazione alla vita politica. Solo dopo tre anni di attività, e qualche fuga di notizie sulla nostra esistenza, la battaglia di opposizione alla dittatura cominciò a essere conosciuta».
Al partito cominciarono ad aderire in tanti e furono organizzate delle manifestazioni pubbliche per chiedere la libertà. Ebbero, però, inizio anche i massacri degli studenti da parte dell’esercito e si arrivò al punto di chiudere per un paio di anni le università, per impedire ai giovani di incontrarsi e confrontarsi. «Ricordo che avevo paura di camminare per strada; dirigevo il coro della mia parrocchia, ma dovevo guardarmi sempre alle spalle, non potevo sentirmi mai al sicuro. Quando mi sono accorto che molti miei coetanei sparivano nel nulla, in accordo con la mia famiglia ho deciso di scappare dal Paese. Sapevo di essere nella lista dei ricercati, prima o poi mi avrebbero preso. Me ne sono andato per salvarmi la vita».
Era il 1991 e John partì senza meta. «Quando ho lasciato il Congo, non avevo idea di dove rifugiarmi. Nel mio Paese stavo bene, alla mia famiglia non mancava nulla, sono cresciuto insieme con i miei nipotini, ho avuto una vita normale, ho ricevuto una buona istruzione. Mi immaginavo ingegnere civile. Ma a quel punto dovevo reinventarmi». Mpaliza viaggiò attraverso il Congo Brazzaville, la Nigeria, l’Algeria. Per un anno si fermò a Orano, frequentando il gruppo di cristiani che si riuniva attorno al vescovo Pierre Claverie, in seguito ucciso in un attentato. Nel 1992 giunse a Roma per trovare dei conoscenti. «Il giorno in cui dovevo ripartire per l’Algeria, ho perso il treno che mi avrebbe portato all’aeroporto. Arrivato a Fiumicino, l’aereo era già partito – aggiunge il giovane –. Quel giorno, all’aeroporto della mia destinazione ci fu un attentato; ho letto la vicenda come un segno provvidenziale e ho deciso di rimanere in Italia».
Marcia per il Congo
Della vita da migrante John non parla volentieri. Accenna di aver fatto richiesta di asilo politico, di aver mangiato e dormito alla Caritas, di essere sopravvissuto grazie a lavori saltuari tra Roma e Napoli con il supporto di connazionali nella sua stessa situazione, fino alla sanatoria del 1996, grazie alla quale ottenne il permesso di soggiorno. Quindi si trasferì in Emilia Romagna, dove, a Parma, conseguì la laurea triennale in ingegneria informatica; ora lavora al Comune di Reggio Emilia. «L’integrazione è un cammino a ostacoli – nota solamente –. Io ho avuto la fortuna di avere un’istruzione e di essere una persona positiva, con gli strumenti necessari per lottare».
Quattro anni fa, dopo tanto tempo, tornò a casa, a salutare la sua famiglia. Trovò un Paese sconvolto da quella che è stata definita la terza guerra mondiale. «In questa guerra, cominciata ufficialmente nel 1996 e non ancora finita, ho perso mio padre; mia sorella è scomparsa dal 1998 e di tre amici fraterni non ho più notizie – prosegue amaramente –. Una tragedia che, secondo le stime ufficiali, ha provocato cinque milioni di vittime sino al 2008, oltre 400 mila casi di stupro all’anno, per non parlare del numero delle persone sparite nel nulla. Il silenzio in cui è immersa è assordante; pochissimi la conoscono, ancora meno ne parlano. Sono tornato in Italia distrutto e ho trascorso tre mesi spaventosi». Tre mesi in cui Mpaliza ha riflettuto su cosa fare, per attirare – lui, singolo cittadino – l’attenzione su un dramma internazionale da tutti taciuto. «Mi sono reso conto che l’unica cosa che possedevo era il mio corpo: ho deciso di metterlo a disposizione del Congo. Ho cominciato a fare marce: 30-40 chilometri al giorno, a piedi, fermandomi a parlare con le persone che incontravo per strada, cercando di farmi ricevere dalle istituzioni o dalle associazioni di volontariato. Giravo con la bandiera del Congo sulle spalle per attirare l’attenzione, consegnavo volantini. Più di qualcuno mi ha considerato pazzo, ma ora la mia azione è conosciuta. Gli insegnanti, i catechisti, i religiosi mi chiamano a testimoniare nelle scuole e negli oratori; sono presente agli incontri per i ragazzi e ad alcuni eventi pubblici o manifestazioni, dove racconto com’è la vita nel mio Paese d’origine».
Nel 2010 John fece il cammino di Santiago de Compostela a modo suo. Si unì agli altri pellegrini per sensibilizzarli sulla «guerra dimenticata». Non credeva di avere ottenuto un gran risultato, ma fu proprio un’insegnante che aveva conosciuto durante il cammino a ricontattarlo in seguito, per chiedergli se si fosse fermato: perché lei, invece, aveva proposto un approfondimento nelle sue classi e riteneva che la cosa dovesse proseguire.
Nel 2011 partì da Reggio Emilia e giunse sino a Roma, dove venne ricevuto in Senato, e dove ottenne il patrocinio per l’impresa successiva. Nel 2012 marciò dalla sua città sino a Bruxelles, facendo tappa a Ginevra, nella sede delle Nazioni Unite.
«Ora che sull’iniziativa si è sparsa la voce – aggiunge – capita che alcune persone mi raggiungano per camminare con me. A volte per brevi tratti, altre volte per qualche giornata. Nella marcia dello scorso anno mi hanno accompagnato per tutta la durata due ragazzi, un italiano e un camerunense. Ci sono stati giorni in cui abbiamo percorso anche 60 chilometri, in altri solo 30; rispettiamo il passo e la stanchezza di ciascuno, tenendo conto che in alcune località dobbiamo essere ricevuti nei comuni o nelle scuole, quindi esiste una precisa tabella di marcia. Mai sono stato completamente solo e ciò mi ha dimostrato quanto forte può essere l’amore per un popolo o per una causa».
Nel 2013 l’iniziativa più importante si è svolta in ottobre a Reggio Emilia: il «Congo Week» ha visto una settimana di eventi, cui hanno partecipato associazioni, università, amministrazioni, parrocchie. John ha simbolicamente marciato per la città per l’intera settimana. E in futuro? «Organizzerò altre marce: mi sono reso conto che è un modo efficace per catturare l’attenzione – conclude il “camminante” –. È un’occasione per tutti: gli italiani scoprono la realtà del mio Paese, mentre i congolesi che vivono in Italia, e sembrano rassegnati, tornano a sperare per il Congo».
Per il 2014 ha già in calendario una marcia a Padova, il 6 aprile, con protagoniste le scuole che già hanno conosciuto John, e una Reggio Emilia-Verona, il 25 aprile, in occasione dell’incontro delle associazioni nonviolente nella città scaligera.
Ricchezza che fa gola
La Repubblica Democratica del Congo possiede l’80 per cento delle riserve mondiali di coltan, il minerale utilizzato per la produzione dei condensatori di computer portatili, telefoni cellulari, dispositivi video e audio digitali, console di giochi, sistemi di localizzazione satellitare, quindi nel settore aerospaziale e nella tecnologia militare. Con l’aumento della richiesta mondiale del minerale, si è accesa la lotta tra gruppi para-militari e guerriglieri per il controllo dei territori di estrazione, nell’est del Paese, al confine con Uganda e Ruanda. Tra le proposte concrete di John Mpaliza vi è una campagna per la richiesta di una legge sulla tracciabilità del coltan: l’approvazione di un protocollo di controllo della sua provenienza potrebbe contribuire a interrompere la spirale di violenza legata al controllo delle miniere.