Campassi cent’anni... Le sparate dei titolisti

Nelle redazioni ci sono giornalisti il cui compito è di fare i titoli degli articoli dei loro colleghi. Per far ciò a volte le sparano grosse, travisando magari il senso dello scritto. E quando i temi sono importanti, la sparata può fare vittime.
08 Ottobre 1999 | di

Nulla di ciò che mi è più caro e sacro affiderei al titolista di un quotidiano. A rigor di termini, «titolista» è chi, nelle tipografie dei giornali, si occupa della composizione dei titoli. Non è a costoro che mi riferisco, ma a quelle eminenze occulte che scelgono i titoli. Se mai, lettori, doveste scrivere un articolo per un giornale, è del tutto inutile che proponiate un titolo. Ci pensano «loro», gli specialisti.
Avete scritto un articolo sulla pesca nel Brenta e avete, da buoni pescatori, ecceduto un po`€™ sulle dimensioni delle vostre prede? Attenzione, il titolo che avete suggerito `€“«Il Brenta sta tornando pescoso» `€“ sarà  sostituito da un ben più efficace «Catturati pesci-gigante nel Brenta. Allarme tra i bagnanti». Avete descritto una vostra personale variante nella preparazione del baccalà  alla vicentina e pensavate che fosse elegante presentare la ricetta sotto il titolo «Io lo preparo così»? Bene, troverete il vostro pezzo pubblicato con il titolo «Mozart in cucina: variazioni sul tema del baccalà ». Il titolista ha colpito ancora!
Dopo decenni di onorato servizio come lettore di quotidiani devo ammettere di essere affascinato da questo bizzarro e misterioso personaggio e, in qualche misura, di nutrire persino una certa riconoscenza verso di lui, almeno quando l`€™articolo di cui si occupa non è mio.
In ogni redazione, almeno così pensavo da ragazzo, si nascondono elfi, gnomi e folletti di umore e sentimenti imprevedibili, capaci di servirsi di titoli e occhielli per nobilitare articoli squallidi o, al contrario, appiattire un pezzo brillante e acuto. Esseri totalmente anarchici per i quali il contenuto dell`€™articolo non è che un trascurabile dettaglio, un semplice spunto per dare libero sfogo alla propria incontenibile immaginazione, oppure «velinari» servili, omogeneizzatori e omologatori del pensiero che titolano con un occhio all`€™editore e un altro al direttore.
Quando, più avanti negli anni, ho cominciato a essere intervistato nei quotidiani o a firmare qualche articolo, ho imparato a temere il titolista. Ingenuamente pensavo di affrontare il toro per le corna titolando i miei pezzi e raccomandando alla redazione di non apportare cambiamenti. Niente da fare. La risposta più comune è: «Farò il possibile ma sai bene che i titoli non li faccio io». Inutile insistere per farsi passare chi li fa. Il titolista, ammesso che esista e non sia una figura dello spirito, sembra ignoto ai suoi stessi colleghi.
Potete immaginare cosa succede quando le notizie non sono di poco conto, ma hanno un contenuto potenzialmente esplosivo e sensazionale. Il nostro titolista entra in uno stato di estasi che lo rende incapace di valutare la fondatezza della notizie.
Due esempi per capirci. Qualche mese fa giunge notizia dagli Usa `€“ un vero Eldorado per i titolisti `€“ che una brillante psicologa ha messo a punto, dopo approfondite ricerche, una «nuova» teoria dell`€™educazione secondo la quale i figli imparano più dai coetanei che dalla famiglia. Il titolista sintetizza così questa straordinaria scoperta: «I genitori non contano. Sono le compagnie che determinano il futuro dei nostri figli». Abbagliato da questa versione scientifica del vecchio adagio «Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei», il titolista dimentica che, di solito, qualunque bambino prima di frequentare i coetanei frequenta i genitori e gli adulti della sua famiglia, che si entra in contatto con il mondo, almeno inizialmente, attraverso la mediazione della famiglia e che questo primo ambiente di accoglimento conta molto per lo sviluppo futuro.. Ma tant`€™è, vuoi mettere l`€™effetto dirompente di quel «I genitori non contano»?
Sempre dagli Usa, a fine luglio, arriva un`€™altra scoperta sensazionale. Secondo un`€™altra brillante studiosa, uomini e donne sono predisposti a passioni fugaci. «Quello che noi chiamiamo amore sostiene la psicologa `€“ è il risultato di un cocktail chimico (dopamina, feniletilamina e ossitocina) nel cervello, innescato da una serie di condizionamenti sociali». Dopo un`€™accurata indagine biennale con 5 mila interviste realizzate in 37 realtà  culturali diverse, la studiosa ha concluso che l`€™effetto del cocktail dura tra 18 e 30 mesi, quanto basta per esprimere la passionalità  necessaria per innamorarsi e mettere al mondo un figlio. A questo biennio ruggente farebbe seguito uno stato di relativo relax e di relazioni abitudinarie. Il nostro titolista, entusiasta di questa versione chimica ultraveloce dei rapporti tra i sessi, è lapidario: «L`€™amore per sempre non esiste». Il fatto che tante coppie restino insieme nel tempo non per abitudine, ma perché sono capaci di dare, nel corso degli anni, sempre nuovi significati alla parola «amore», non turba il giornalista e tanto meno tutti quei brillanti studiosi per i quali, se i fatti sono in contrasto con le loro ricerche, tanto peggio per i fatti.
Certo, non possiamo incolpare i ricercatori dei titoli con i quali i giornali presentano il loro lavoro, ma mi aspetterei da loro un po`€™ più di umiltà  e, perché no?, di senso dell`€™umorismo quando affrontano temi complessi come l`€™amore o le radici del comportamento umano, sui quali tanti scienziati, filosofi, artisti e uomini della strada si sono arrovellati da sempre evitando di emettere sentenze definitive per non essere smentiti dai fatti.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017