Canzoni senza rughe

Sembrano fuori dal tempo, ma raccontano la nostra storia. Sono insieme spezzoni di vita privata e fotogrammi di un’epoca, contenitori di passato e di brandelli di futuro. Sono le canzoni che cantano tutti, colonne sonore della nostra vita.
24 Settembre 2010 | di

Canzoni senza tempo e senza rughe. Le cantano tutti, senza distinzione di età. Canzoni che gettano un ponte tra i decenni e le generazioni, capaci di raccontare uno spicchio o un fotogramma del loro tempo e, insieme, di precorrere quello che verrà.
È un fenomeno attuale, sempre più consolidato e diffuso, che coinvolge un pubblico vasto e indifferenziato, dai 9 ai 99 anni. Un pubblico che conosce tutti i successi di Luciano Ligabue o di Vasco Rossi, dei Pooh o di Franco Battiato. E parliamo, qui, solo di musica italiana, quella che da sempre racconta la nostra storia, testimonia l’evoluzione del gusto e del senso del pudore nella nostra società, lancia messaggi di amore e di dolore, di tenerezza e di speranza.


Sul proprio computer o sul lettore digitale, i più giovani «scaricano» le canzoni navigando nello sconfinato oceano di internet, andando alla ricerca dei «classici» che resistono al logorio del tempo, che fanno da filo conduttore a una memoria tante volte un po’ troppo sbadata: «canzoni vecchie ancora buone da cantare», dice Claudio Baglioni in Notti, contenuta nell’album Strada facendo, anno 1981. Quelle canzoni indimenticabili che la televisione generalista propone e ripropone a ogni ora e in tutte le salse, a volte incontrando il successo degli indici di ascolto con milioni e milioni di spettatori incollati davanti al piccolo schermo. Due esempi su tutti vengono dalla Rai: i programmi Ti lascio una canzone e I migliori anni, condotti rispettivamente da Antonella Clerici e Carlo Conti, e animati, nel primo caso, da talentuosi interpreti in erba e, nel secondo, da vecchie glorie richiamate in servizio per l’occasione. Tra l’altro, Ti lascio una canzone è stato prontamente imitato da Canale 5 con Io canto: anche questo, non a caso, un programma che fa audience.

Ma che cosa decreta il successo eterno di Volare, che fece vincere a Domenico Modugno il Festival di Sanremo del 1958, o di Azzurro, diventata parte della nostra memoria collettiva grazie alla voce di Adriano Celentano? Vincenzo Mollica, l’inviato storico del Tg1, parte proprio da Celentano – uno dei pochi cantanti che ci raccontano la storia d’Italia dal boom economico d’inizio anni Sessanta ai nostri giorni – per cercare l’elisir di lunga vita della buona musica italiana: «Celentano ha vissuto le varie epoche della sua carriera sempre con grande modernità. Anzi, potremmo dire che è stato e continua a essere un portatore sano di modernità, perché è una qualità insita nel suo Dna artistico».
Per Mollica il segreto del talento di Celentano sta nel fatto che è sempre stato un artista libero, «che ha influenzato non solo la musica, ma anche il costume, il modo di comunicare, di vivere il sociale, sempre dalla parte degli umili e contro i prevaricatori. Tutto questo Celentano lo ha trasferito in maniera diretta e originale nelle sue canzoni che non a caso continuano a essere una parte importante della colonna sonora della nostra vita. Solo lui poteva essere insieme re degli ignoranti e ribelle a ogni forma di conformismo, urlatore e inventore del silenzio in televisione, capo del Clan e perennemente il ragazzo della Via Gluck».
Celentano, insomma, ha sempre dominato il successo, non se ne è mai fatto dominare, «perché la sua qualità fondamentale – continua Mollica – è che canta e parla solo quando ha qualcosa da dire, mai a sproposito. Altrimenti si ritira nella sua tana ecologica, e pensa. Così nascono le sue sorprese nell’arte e nella vita. Per questo la banalità non è mai riuscita a sporcare la sua intelligenza. L’elisir di lunga vita artistica di Celentano, comunque, è contenuto in un verso di Azzurro, la canzone più famosa che ha cantato: “Il treno dei desideri, nei miei pensieri all’incontrario va”. Per lui, e per noi con lui, è stata sempre la direzione giusta».

Per il discografico Michele Mondella l’esempio più eclatante di longevità artistica è un altro «grande» degli anni Settanta: Rino Gaetano. Mondella l’ha conosciuto di persona perché per anni ha diretto l’ufficio promozionale della famosa casa discografica Rca e poi della Bmg Italy, ed è fondatore e amministratore unico della Midas, società di comunicazione che opera nel mondo della musica e dello spettacolo seguendo artisti come Lucio Dalla, Francesco De Gregori, Antonello Venditti, Ornella Vanoni ed Enzo Jannacci. «Sono tutti grandi nomi – afferma Mondella – che ci hanno regalato decine di classici della musica italiana, eppure io provo un affetto e una nostalgia particolare per Rino Gaetano, anche se ormai è scomparso da quasi trent’anni. Lavorando per lui, sono diventato uno dei suoi amici più stretti, fino a quella tragica mattina di giugno del 1981 in cui lo trovai morto in un ospedale romano in seguito a un incidente stradale. All’inizio degli anni Settanta, infatti, lasciai Milano, dove lavoravo per la Siae, e approdai a Roma, per entrare nella squadra di Vincenzo Micocci, mitico produttore che all’epoca era presidente di ben sette etichette discografiche tra cui la “It”, vero e proprio vivaio di giovani artisti. È qui che un giorno arrivò Rino Gaetano, al tempo uno sconosciuto giovane calabrese. Ricordo i primi passi dell’etichetta con Pa’ diglielo a ma’ di Rosalino Cellamare (in arte Ron) e con Tanto pe’ cantà, interpretata da Nino Manfredi. E poi i tanti cantanti che da lì cominciarono: I Vianella, Amedeo Minghi, i Ricchi e poveri (lanciati da Franco Califano), Riccardo Cocciante, Fiorella Mannoia e Alberto Fortis. Per loro e per me fu un’esperienza unica. Le canzoni nate in quell’atmosfera creativa e stimolante erano innanzitutto “prodotti umani” di altissimo artigianato. Solo in seguito diventarono prodotti più di tipo “industriale”».
Rino era un personaggio speciale sia come uomo che come artista: «Abbiamo fatto fatica – ricorda Mondella – ad attirare su di lui l’attenzione che meritava per la sua freschezza e per la bravura. Si conquistò uno spazio molto originale, anche se un po’ defilato. Secondo i luoghi comuni dell’epoca, in prima fila c’erano i grandi autori romantici come Claudio Baglioni e Riccardo Cocciante e i cantautori impegnati come Francesco De Gregori e Francesco Guccini. Il «mito» di Rino Gaetano, che ha conosciuto grandissima popolarità con la sua Gianna al Festival di Sanremo del 1978, in realtà si è costruito un po’ per volta, specie dopo la sua morte prematura. Da vivo, fu abbastanza sottovalutato. Il suo “messaggio”, carico di non-sense e di intelligente ironia, fu recupera­to gradualmente, grazie a Renzo Arbore e a Maurizio Costanzo. Fino al punto che poi alcuni film si ispirarono alle sue canzoni (Mio fratello è figlio unico) e addirittura la Rai realizzò una fiction sulla sua vita, con Claudio Santamaria».

Non a caso oggi le sue canzoni risultano attualissime, «quasi profetiche, sia nella musica che nei testi» commenta Mondella. «Rino, figlio del Sud e figlio del popolo, lanciava la sua satira contro le convenzioni vuote, i luoghi comuni, i pregiudizi, i falsi valori. Parlava delle persone umiliate e offese. Esprimeva quel bisogno di verità e di sincerità che oggi i giovani colgono benissimo, perché ne hanno disperatamente bisogno. In realtà, era un cantautore più impegnato di tanti altri che avevano abbracciato ufficialmente quell’etichetta». Mondella lo ricorda come un «arrabbiato» e insieme un amante della vita: «Nelle canzoni raccontava la sua insofferenza contro le regole stupide e l’idiozia imperante. Ma, nello stesso tempo, amava scherzare e divertirsi in maniera molto semplice, restituendoci l’immagine di una persona autentica. Era un ragazzo che non voleva atteggiarsi a divo tant’è che, raggiunta la notorietà e il benessere economico, pensò subito ai problemi della sua famiglia. Perché lui era e rimase fino all’ultimo molto attaccato ai valori della famiglia e della sua terra, orgoglioso delle sue radici».
Rimanendo agli anni Settanta, la memoria va a canzoni eternamente giovani come Roma Capoccia di Antonello Venditti e Rimmel di Francesco De Gregori. Tanto che il sospetto viene: non è che la leva dell’eterno successo sia proprio il marketing della nostalgia? Susan Duncan Smith, un altro nome storico della promozione discografica italiana fin dagli anni Settanta – quando lavorava, anche lei, per la Rca – non pensa che la nostalgia sia il segreto della longevità delle belle canzoni italiane. «Sono molto legata agli anni Settanta per motivi umani e professionali, dal momento che in quel periodo ho visto nascere e crescere tante stelle della nostra canzone, da Claudio Baglioni a Lucio Dalla, da Renato Zero a Francesco De Gregori. Senza dimenticare i divi già famosi all’epoca come Lucio Battisti, Gianni Morandi e Patty Pravo. Ma più che nell’effetto-nostalgia, credo nella forza innata della melodia italiana, erede della grande tradizione lirica e di quella napoletana, e in quella del cinema: tanti film lanciano canzoni che appena giungono sul mercato discografico diventano parte integrante dell’immaginario collettivo. Per non parlare dei tanti film basati su un precedente successo delle canzoni, come i famosi “musicarelli” degli anni Sessanta, continuamente riproposti in tv, specie durante i mesi estivi. Anche questo contribuisce a formare una memoria diffusa, un patrimonio comune di ricordi e di emozioni».

Tra le canzoni che ama di più, quelle di Lucio Battisti contenute in Una donna per amico e Una giornata uggiosa, «due album storici ai quali ho avuto l’onore di dare il mio contributo professionale. Ma potrei citare anche Poesia di Cocciante, Mille giorni di te e di me di Baglioni, Il triangolo e Il carrozzone di Renato Zero, Pensiero stupendo di Patty Pravo… Canzoni che ti restano nel cuore perché ciascuno di noi le associa a un ballo sulla spiaggia, al volto di una persona cara, ma anche alla giovinezza, alle vacanze, a un periodo, triste o lieto, della propria vita. Spesso ci ricordiamo il momento e il luogo preciso in cui l’abbiamo ascoltata per la prima volta: è come una fitta, dentro, che resta indimenticabile».
 
 
Lucio Dalla. Nel Dna della coscienza collettiva
Msa. Dalla, da Volare a oggi, tante canzoni sono diventate classici cantati da tutte le generazioni. Come spiega questo fenomeno?
Dalla. Spesso l’immaginario collettivo trova il suo posto ideale in alcune anse della memoria. Lì tutti ci «associamo», riconosciamo la nostra appartenenza a una comunità che condivide le stesse esperienze e gli stessi ideali, ed è per questo che alcuni film e alcune canzoni diventano storiche e si tramandano dai genitori ai figli, entrando nel Dna della gente comune e nella coscienza di ognuno.

Quali sono i classici che ama di più?
Quasi tutti quelli che appartengono alla tradizione napoletana e alcune canzoni del Festival di Sanremo negli anni d’oro, dal 1960 al 1970: sono canzoni nelle quali le persone si riconoscono spontaneamente perché sentono che sono state scritte con una sensibilità adatta a loro.

Qual è, secondo lei, il segreto delle canzoni «senza tempo»?
Parlare di un argomento che crea interesse e mobilitazione, evidenziando la parte sentimentale e animistica di chi ascolta e creando, perché no?, un epos riferito ai protagonisti stessi della canzone, che possono essere gente comune
o grandi personaggi storici.

E che cosa significano per lei?
La mia educazione sonora ma anche narrativa. Alcune canzoni sono vere e proprie favole e la gente le vive come tali, dando loro anche un valore sentimentale; e in più colpisce la suggestione della musica. Quali sono le canzoni del suo repertorio che cantano ancora i fans di tutte le età? Caruso, L’anno che verrà, Canzone, 4/3/1943 e, sicuramente, Attenti al lupo!
 
Gianni Morandi. Le più grandi sono le più semplici
Msa. Morandi, qual è la «formula segreta» per le canzoni di successo?
Morandi. Le grandi canzoni sono quelle più semplici. Devono contenere una forte semplicità popolare, nel senso più nobile della parola e, soprattutto, trasmettere emozioni.
Sono le canzoni che ci portiamo nel cuore, perché segnano alcuni momenti della nostra vita o fotografano un periodo storico, tipo la guerra del Vietnam come nel caso della mia C’era un ragazzo… Semplicità da perseguire anche nella musica. Tuttavia il fatto che musica e testi siano semplici da ascoltare e interiorizzare non significa affatto che siano anche semplici da scrivere.

Esiste la canzone della sua vita?
Mi sento molto legato a Sergio Endrigo. Io che amo solo te è una delle più belle canzoni che siano mai state scritte: a 16 anni mi sono innamorato per la prima volta ascoltando proprio questa canzone. Col passare degli anni, ancora oggi conserva una particolare luce e grandezza. Ci sono canzoni straordinarie di Dalla, De Gregori, De André o Mogol e Battisti e altri cantautori, ma questa mi ha segnato più di tutte. Senza dimenticare, naturalmente, Nel blu dipinto di blu di Domenico Modugno. Una sera a Monghidoro (nel bolognese), il mio paese natale, ero al bar centrale, nella piazza, a vedere la televisione. Fu per me una specie di folgorazione. Quella canzone ha cambiato il linguaggio dei cantanti e delle canzoni. Prima c’erano Gino Latilla, Carla Boni, Nilla Pizzi e tanti altri. Volare ha rappresentato uno spartiacque. Da quella canzone è nato tutto il resto: Gino Paoli, Luigi Tenco, lo stesso Sergio Endrigo e tanti altri nomi famosi della musica italiana.

Quali canzoni del suo repertorio sente cantare più volentieri dai fans di tutte le età che affollano i suoi concerti?
Tutte quelle che hanno segnato i miei debutti: Un mondo d’amore, C’era un ragazzo… (tra le più significative), Uno su mille, che oggi ha superato i 25 anni. E poi, Fatti mandare dalla mamma, che è diventata una specie di filastrocca che cantano tutti in coro, anche i bambini di tre o quattro anni: guai se non la interpreto in uno dei miei concerti.
 
 
Renzo Arbore. Una grande tradizione poco valorizzata
Msa. Arbore, lei come spiega il successo della canzone italiana all’estero?
Arbore. In effetti, è un successo senza confini. L’unico limite è rappresentato dalla lingua. L’italiano è un po’ ostico. Fa eccezione il napoletano che gode di una tradizione tutta sua, ben riconoscibile nel mondo. Io sono un convinto assertore della canzone d’arte napoletana, che ha un patrimonio musicale ricchissimo, elaborato tra la fine dell’Ottocento e gli anni Sessanta-Settanta del Novecento: uno scrigno che racchiude tesori di enorme bellezza, noti in tutto il mondo grazie in particolare ai nostri grandi tenori, da Enrico Caruso ad Andrea Bocelli. Questo patrimonio oggi è «a portata di clic» grazie a Paquito Del Bosco, direttore artistico dell’Archivio sonoro della canzone napoletana: una iniziativa di Radio Rai che tutti possono ammirare all’indirizzo www.canzonenapoletana.rai.it. Ma come accennavo, a parte Bocelli che, forte della tradizione del melodramma, canta in italiano anche per il mercato estero, gli altri nostri big come Eros Ramazzotti e Laura Pausini scelgono l’inglese o lo spagnolo per varcare i confini del nostro Paese.

Nonostante il problema linguistico, dunque, possiamo parlare di un vero e proprio patrimonio culturale?
Assolutamente sì. E di un patrimonio culturale di altissimo livello, grazie alle sue radici storiche: la romanza del melodramma e la canzone d’arte napoletana. Ricordo una curiosità. Con l’avvento del disco a 78 giri, le romanze potevano durare tre minuti, tre minuti e mezzo al massimo. Questa esigenza di concentrazione (le romanze del melodramma sono in genere più lunghe) ha contribuito alla nascita della canzone. Come dire: il limite tecnico ha prodotto un fatto artistico. Ma, tornando al nostro discorso, vorrei sottolineare un aspetto che spesso non viene messo in luce in tutta la sua importanza: la canzone italiana è la terza o forse la seconda nel mondo, dopo quella americana e, forse, quella inglese. Da Carlo Buti a Simone Cristicchi, ha sviluppato una creatività eccezionale. Possiamo parlare di una vera e propria epopea, da Domenico Modugno ai cantautori esplosi negli anni Settanta, dal rock di Adriano Celentano ai complessi beat. Tanto che oggi l’aggettivo «leggera» viene molto contestato. Si può parlare di musica leggera per le canzoni di Giorgio Gaber o Fabrizio De André o Francesco De Gregori? È quella grande musica popolare (da non confondere con la musica folk) che le nostre istituzioni dovrebbero valorizzare e promuovere come forma d’arte, ambasciatrice della cultura italiana nel mondo, veicolo di promozione internazionale dell’immagine del nostro Paese.

Qualche esempio dal passato?
Quando, negli anni Cinquanta, Frank Sinatra cantava Fontana di Trevi o Nat King Cole Non dimenticar, la nostra musica (e quindi il nostro Paese) godeva di una visibilità e di una stima eccezionali. Per non parlare di Modugno e di quanto la sua Volare ci ha fatti conoscere nel mondo… Non sono le «canzonette» di cui parlava Edoardo Bennato, ma successi senza tempo, evergreen. Sapore di sale, ad esempio, è un simbolo eterno dell’estate. Lo stesso non si può dire per Vamos a la playa… Ci sono canzoni legate a mode passeggere, altre, invece, pur legate a un momento preciso, superano il tempo che le ha generate e diventano eterne, senza per questo ridursi a semplici materiali per nostalgici. In questo senso, dovremmo smettere di parlare male della musica italiana e di soffrire di amnesie. Lo stesso Battisti, pur amatissimo in vita, per certi aspetti è stato riscoperto soltanto dopo la morte: le sue canzoni sono vere e proprie opere d’arte, le nuove generazioni le cantano ancora. Forse gli adolescenti sono più condizionati dall’effimero, ma già i giovani cominciano a capire e a scegliere quello che realmente ha valore. Non aspettiamo in ogni caso che siano solo i posteri a scoprire e a valorizzare la grande musica popolare italiana.
 
Mara Maionchi. Formidabile ponte tra le generazioni
Che ruolo hanno i talent show come X Factor sulla Rai e Amici su Mediaset, nella diffusione della grande musica italiana? Lo chiediamo a Mara Maionchi, discografica di lungo corso, diventata popolare proprio come uno dei giudici di X Factor.
«I talent show – afferma Maionchi – ripropongono spesso musica di altissimo livello, viaggiando nello sterminato repertorio italiano e internazionale. In questo senso, svolgono una funzione divulgativa estremamente importante tra i giovani. Apprendere dal passato è fondamentale per educare il gusto ed essere consapevoli della nostra storia. Certo, a volte, il confronto tra canzoni e artisti di ieri e di oggi, è molto triste. Gli autori sono un po’ in difficoltà, e per vari motivi: si è già scritto e cantato di tutto, o quasi, e il mondo di oggi è piuttosto statico. Pochi si avventurano su strade nuove. Ci si ripiega sul già noto e ci si affida più al look che alla canzone. Non si coltivano quei valori sociali e quell’esperienza di aggregazione che hanno segnato gli anni Sessanta e Settanta. Bisognerebbe ascoltare più musica, con gusto, curiosità e intelligenza».

Msa. Ma che ne sa un ragazzo di oggi di cosa ha significato per i giovani di oltre quarant’anni fa una canzone come Dio è morto di Francesco Guccini, portata al successo dai Nomadi? Come fa a emozionarsi ancora ascoltando Sapore di sale di Gino Paoli o Pazza idea di Patty Pravo?
Maionchi. I ragazzi di oggi sono molto intelligenti e sono in grado di recepire, oltre al valore musicale di una canzone anche i suoi contenuti. Quando scoprono un classico del passato non solo sono molto contenti, ma iniziano una ricerca che li porta a nuovi incontri e a nuove rivelazioni. Succede anche con i giovani artisti. Ne cito uno per tutti: Martino Corti, che ha accompagnato tutto il tour 2010 dei Nomadi, aprendo per 84 serate i loro concerti. L’abbinamento tra un emergente e un gruppo storico si sposa bene con la realtà di un pubblico trasversale e intergenerazionale. C’è da dire però che l’ascolto della buona musica non sempre viene ben sostenuto dai media.

Oggi va forte il filone delle cover, cioè la reinterpretazione dei classici, riletti da una nuova voce e presentati in una nuova veste musicale.
È un’operazione-nostalgia che spesso trova riscontri positivi sul piano commerciale. Si tratta di canzoni che evocano storie, ricordi e sentimenti che attraverso queste reinterpretazioni si rinnovano e s’intrecciano in un nuovo presente.

Ma i figli capiscono meglio i nonni o i genitori ascoltando le loro canzoni?
Certamente. Al di fuori di tanta apatia che ci circonda, i ragazzi vogliono conoscere e capire chi li ha preceduti nell’esperienza della vita. Non dimentichiamo che le canzoni raccontano un momento storico ma spesso anticipano i tempi. Magari proprio quel futuro in cui i giovani di oggi si trovano immersi. Le canzoni creano un ponte tra le generazioni. I nuovi artisti, in particolare, possono alimentare le loro intuizioni musicali alla fonte dei classici e cercare così strade nuove: almeno è quello che mi auguro.
 
Pippo Baudo. Ritornare al talento
«Più il tempo passa e più ci rendiamo conto di quanto la grande canzone italiana sia una fonte inesauribile di freschezza artistica e di successo popolare». Ne è convinto il re dei presentatori televisivi, Pippo Baudo. Che però precisa: «Questa mia valutazione riguarda il patrimonio storico della musica leggera italiana, perché negli ultimi anni assistiamo invece a una crisi profonda».

Msa. A che cosa attribuisce questo momento di stallo?
Baudo. Le grandi canzoni di una volta hanno già detto tutto, o quasi. Anche perché in loro c’è già molto del nostro presente e del nostro futuro. È difficile raccontare esperienze inedite. È sempre più difficile trovare il momento magico dell’ispirazione. E poi quelle canzoni di una volta sono state scritte in modo straordinario e interpretate da artisti di altissimo livello, da Domenico Modugno a Lucio Battisti, passando per gli altri grandi prima dimenticati e poi riscoperti, come Sergio Endrigo e Luigi Tenco. Dobbiamo essere sinceri: non esistono quasi più le grandi canzoni di una volta, quelle che in tre-quattro minuti riescono a racchiudere un microcosmo di storie e di emozioni, come fossero un’opera lirica in miniatura.

È una crisi che riguarda anche i cantautori?
Sì, i cantautori hanno scritto tantissimo e, quando tornano a scrivere canzoni dopo un periodo di silenzio, rievocano temi e melodie a loro cari. Dopotutto, la vena creativa non è sempre fertile: nella storia della lirica, Verdi continuò a scrivere capolavori fino a tarda età, ma Rossini si fermò molto prima. La crisi c’è anche nella produzione musicale di altri Paesi come Francia o Stati Uniti, da dove spesso arrivano canzoni usa-e-getta, instant-songs dal successo effimero.

Che cosa suggerisce per superare questa crisi d’ispirazione?
Bisognerebbe ridare centralità alla figura dell’autore, senza seguire a tutti i costi la strada del «cantautorato». Ci sono artisti che non si sono mai cimentati nella scrittura, ma che alle canzoni degli altri riescono a dare vita e successo come pochi. Ne cito uno per tutti: Massimo Ranieri. Bisognerebbe tornare a quella figura di editore musicale che una volta girava per i locali e per le piazze alla ricerca dei nuovi talenti e bisognerebbe anche lanciare concorsi destinati alla scoperta di nuovi autori. Di quegli autori capaci di scrivere belle canzoni come si faceva una volta, con eccezionale bravura, fiuto per i gusti del pubblico e passione artigianale. Poi, magari, saranno altri a cantare le loro canzoni.

I suoi classici?
Le più belle melodie del repertorio napoletano, tutto Modugno (che fu un vero rivoluzionario della musica) e i pezzi di Battisti realizzati con i testi di Mogol, che sono di una attualità pazzesca. Ci sono canzoni, come Emozioni, che mi fanno venire i brividi ancora oggi.
 
 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017