Carla Fracci. Regina della danza
Si muove con grazia nella sua casa piena di quadri appoggiati alle pareti. Carla Fracci, la stella della danza che tutto il mondo ci invidia, la farfalla per cui sembra non esista la legge della gravità, centellina le parole come perle preziose, mentre una luna esile e sottilissima si alza sui tetti di Milano. Ha al suo fianco il marito, Giuseppe Menegatti, regista che ha lavorato a lungo con Eduardo De Filippo e che l’ha accompagnata con intelligenza e amore sulle scene e nella vita. L’ultimo spettacolo proposto al Teatro San Carlo di Napoli è stato ideato e curato proprio da lui che spiega: «Tanti anni fa trovai Das Marienleben (La vita di Maria) di Rainer Maria Rilke presentato da David Maria Turoldo. Allora padre Turoldo mi diede lo spunto per uno spettacolo in cui immaginai che Etty Hillesum avesse portato nel campo di concentramento proprio queste liriche di Rilke. A ciò idealmente si collega il più recente Das Marienleben. Sogno Annunciazione Vita di Maria, proposto a Napoli, con il coinvolgimento di tutta la compagnia del Teatro San Carlo». È stato un omaggio a Maria attraverso la poesia, la musica, la danza. «Mi piace ricordare – afferma ancora Beppe Menegatti – che nei vangeli apocrifi si dice che quando Maria bambina venne portata al tempio si tolse i calzari e danzò».
A Carla Fracci, che ha conservato intatta la freschezza di una bambina, chiediamo di partire proprio da Maria.
Msa. Qual è il rapporto di Carla Fracci con Maria e con la fede?
Fracci. La Madonna è come «un abbraccio»: ci si sente come avvolti da questa donna. Maria è la nostra Madre, una nostra amica, una parente, il nostro tutto. Sono una credente, ogni sera prima di addormentarmi dico una preghiera alla Madonna. A lei ci si affida. Prima di entrare in palcoscenico si fa il segno della croce. Perché ci si rivolge a nostra Madre o a nostro Signore? Indipendentemente dal fatto che si creda o no, ci si affida sempre a Qualcuno che da lassù ci segue e ci aiuta.
Alle ballerine sta particolarmente a cuore un’immagine della Madonna nella chiesa di San Fedele a Milano.
Prima degli spettacoli alla Scala noi andavamo in una cappella della vicina chiesa di San Fedele a rendere omaggio alla Madonna. Il giorno dopo lo spettacolo tornavamo a portarle i fiori per ringraziarla. Per questa tradizione, tanti anni fa, quell’immagine (originariamente la Madonna dei Torriani, ndr) venne detta la «Madonna delle ballerine».
Che significato hanno per lei i santi, in particolare sant’Antonio e san Francesco?
Mia madre era molto legata e devota a sant’Antonio, lei era fedele a questo santo. E io ancora oggi, quando vado in chiesa, accendo sempre una candela a sant’Antonio pensando alla mia mamma.
San Francesco è un «nostro caro». Questa predilezione è testimoniata anche dal fatto che nostro figlio si chiama Francesco. Poi abbiamo un papa con questo nome, Francesco, che è un uomo straordinario.
Lei e suo marito avete condiviso tanti progetti nella vita professionale e privata. Come definirebbe il matrimonio?
La famiglia è fondamentale. Non è che sia facile il matrimonio, però è un legame che unisce anche ai figli, ai nipoti… Noi due, poi, abbiamo avuto la fortuna di lavorare insieme e questo per me è stato fondamentale. Beppe ha ideato progetti che vanno oltre la tradizione, proposte culturali innovative, spaziando in diversi tipi di spettacoli: musicali, culturali… È stato importante, mi ha fatto crescere, mi ha aperto la mente.
Quando lei era incinta, Eugenio Montale le dedicò la poesia La danzatrice stanca. Il poeta poi venne a trovarla il giorno della nascita di Francesco e fu presente al suo battesimo, il primo gennaio del 1970, al Santuario francescano della Verna. Che tipo era Montale?
Eusebio, così lo chiamavamo, era un uomo molto spiritoso. Pur con le sue ombre, era divertente e simpatico, sbuffava, cantava con voce da baritono. Era acuto, ironico, una persona molto cara. A Milano abitavamo vicini: una volta si fece accompagnare da Beppe, da via Bigli dove stava, a rivedere la facciata del teatro Gerolamo. Camminava pianissimo, trascinando i piedi, passo dopo passo, in mezzo al traffico di corso Matteotti e diceva: «Ora arriverà un gendarme e ci dirà: “Sei pedone, via in prigione”!». Abbiamo passato insieme con lui delle belle vacanze a Forte dei Marmi, è stato accanto a noi non solo come poeta, ma come amico. Montale non parlava molto, durante i pranzi o le cene chiedeva se qualcuno avesse delle matite o del rossetto e incominciava a disegnare. Incuteva soggezione, ti guardava attentamente in silenzio e chissà che cosa pensava. Andò a Stoccolma a ricevere il Nobel con Gina, la sua governante…
Montale intitolò il suo discorso a Stoccolma: «È ancora possibile la poesia?». E a lei noi chiediamo: e la danza, è ancora possibile?
Certo. L’importante è che si vada oltre, che non la si consideri un mero divertimento. Siamo però in un momento di confusione che interessa anche la danza.
Poesia e danza vanno insieme?
Per forza, è tutto un «fatto poetico». Entrambe, poesia e danza, fanno arrivare al pubblico la tua emozione. Anche le bambine quando danzano sono proprio «come una poesia»: sono così innocenti, con questo sogno, questa fantasia, si muovono ascoltando la musica. Fanno anche molta tenerezza.
Lei non ha rinunciato alla maternità per danzare.
Credo che sia un fatto naturale per una donna. Un figlio completa la vita, ti matura. Tutta l’esperienza della maternità poi te la ritrovi addosso, la trasmetti nel tuo lavoro, nelle manifestazioni e nelle tue espressioni. Un figlio è una responsabilità. Io, come donna, non dimentico mai l’attenzione per la casa, per l’ordine. È un’abitudine che mi deriva dall’educazione, dalle persone che mi hanno formato: i miei genitori, le zie. La stessa pignoleria che ho in casa era naturale per me anche in teatro. Sono doti che uno ha dentro. Gli insegnanti ti possono formare fino a un certo punto, poi sei tu che devi eseguire, vivere, interpretare qualsiasi personaggio tu stia portando in palcoscenico. Per esempio, il mio modo di rappresentare Giselle è legato a me, alla mia persona e deve essere così. Il partner può avere una diversa interpretazione, però poi le due modalità devono incontrarsi perché è questo che fa lo spettacolo. Io sono stata fortunata a conoscere tanti artisti, tanti personaggi del mondo della cultura, ognuno con la sua specificità.
Quali valori per lei sono importanti?
Il rispetto, che in parte oggi si è perso, per me è un valore fondamentale. Penso che derivi dall’educazione ricevuta dai miei maestri. Il rispetto cominciava dalla scuola, dove le bambine piccole si inchinavano per salutare l’insegnante, e poi si rifletteva nel modo di comportarsi. Durante la guerra ho trascorso un periodo della mia infanzia in campagna: credo di aver respirato lì certi valori che mi arrivavano dalla famiglia, dai parenti. Sono qualità che restano. Certamente poi contano la tua sensibilità, il tuo talento nel lavoro. Per me è importante anche la gratitudine per quello che ho avuto dagli altri. Devo dire che ho ricevuto molto. Come ho potuto fare tutto quello che ho fatto non lo so. Forse mi ha aiutata il mio carattere. Da ragazza non sopportavo le ingiustizie. Nel 1956 nella Cenerentola mi avevano scelta come sostituta di una ballerina francese, Violette Verdi, però nel momento in cui si seppe che lei non poteva fare lo spettacolo dell’ultimo dell’anno, non volevano mandarmi in scena dicendo che ero una ragazza troppo giovane per sostenere tre atti e non avevo esperienza. Mi sentii vittima di un’ingiustizia, mi ribellai e pretesi che mi mettessero alla prova. Avevo carattere già da ragazza.
Lei ha danzato in tutti i più importanti teatri del mondo insieme con partner artistici eccezionali, come Rudolf Nureyev ed Erik Bruhn, e ha ottenuto i massimi riconoscimenti. Come ha fatto?
Come ho fatto non lo so. Devo ringraziare i miei genitori perché non si sono mai intromessi nel mio lavoro. Anche da piccola, non mi piaceva raccontare loro cosa avevano detto la maestra o le mie amiche. Sono sempre stata molto riservata in questo, ma in effetti «superare» il palcoscenico non è una cosa facile. Non so che cosa scatti. Per esempio, a Napoli, dopo tanto tempo che non andavo in scena, avevo paura di affrontare il pubblico; poi, però, ho sentito in modo chiaro per l’ennesima volta che quello della danza è il mio mondo.
Quando inizia lo spettacolo, ritrovo tutta la mia forza, una determinazione che non ho solitamente come persona, che non ho, magari, nell’affrontare certe piccole faccende quotidiane. Una forza che ritrovo solo quando sono sul palcoscenico.
La scheda
Nata a Milano il 20 agosto del 1936, Carla Fracci è una delle più grandi danzatrici di tutti i tempi. Ha interpretato più di duecento personaggi e ha ricevuto diverse onorificenze. Figlia di mamma Santina, operaia, e papà Luigi, tramviere, ha iniziato quasi per caso alla scuola di ballo della Scala (dove la chiamavano affettuosamente la Tramvierina o anche Fraccina perché minuta di costituzione), per diventare poi prima ballerina e star internazionale: si è esibita nei teatri più famosi del mondo, ma ha portato la danza anche nelle piazze dei piccoli paesi. Ha ballato con Erik Bruhn, Rudolf Nureyev, Mikhail Baryšnikov, Margot Fonteyn, Alicia Markova. Ha conosciuto madre Teresa di Calcutta, Luchino Visconti, Maria Callas, Francesco Messina… È appena stata pubblicata da Mondadori la sua biografia, dal titolo Passo dopo passo. La mia storia.