Carla Liliana Martini sopravvissuta al lager
La Repubblica italiana, con una legge del 20 luglio 2000, ha riconosciuto il giorno 27 gennaio, data dell'abbattimento dei cancelli di Auschwitz, Giornata della memoria, per ricordare la Shoah (lo sterminio del popolo ebraico), la persecuzione italiana di cittadini ebrei, ma anche gli italiani che hanno subito la deportazione, la prigionia e, nella maggior parte dei casi, anche la morte. Il 27 gennaio serve a ricordare anche tutti coloro che, a rischio della propria vita, hanno salvato altre vite.
In questa data, in tutta Italia, vengono organizzati incontri e momenti commemorativi. Alcuni di coloro che furono protagonisti dell'orrore dei campi di sterminio nazista raccontano quanto hanno vissuto, anche se ricordare costa comunque tanta sofferenza.
Carla Liliana Martini apparteneva - come Maria Borgato della quale abbiamo parlato nel numero scorso - alla «catena di salvezza» di padre Placido Cortese. Liliana ha deciso di parlare, di raccontare per «cancellare l'odio con l'amore». «Oggi, a distanza di tempo, mi rendo conto - scrive la signora Martini nel suo libro Catena di salvezza , Edizioni Messaggero Padova - che quanto è accaduto in modo così osceno, inumano, spesso indicibile, ha un senso: quello della memoria per il futuro, del ricordare per i posteri, fiduciosi che la memoria possa fungere da limite, affinché quanto avvenuto con vergogna dell'umanità tutta non abbia a ripetersi».
Carla Liliana Martini nacque il 7 agosto 1926 a Boara Polesine (Rovigo), undicesima di dodici fratelli di una grande e cattolicissima famiglia. Diciassettenne, dopo l'otto settembre del '43, si impegnò, con le sorelle maggiori Teresa, Lidia, Renata e con Maria e Delfina Borgato, nel salvataggio di soldati italiani allo sbando e prigionieri in pericolo, dando vita a una rete di solidarietà (la catena della salvezza, appunto) che organizzava viaggi in treno per portare i prigionieri oltre il confine e che aveva il suo riferimento in Armando Romani, ex ufficiale pilota, e in padre Placido Cortese. Il frate francescano della basilica del Santo, che era anche direttore di questo mensile, morì martire in carcere, sotto tortura, senza aver fatto i nomi di chi apparteneva alla rete che aveva salvato più di trecento persone.
Teresa e Liliana furono arrestate il 14 marzo del 1944, condotte in carcere a Venezia, quindi nei lager di Mauthausen (dove Liliana compì 18 anni), Linz e Grein a. d. Donau. Conobbero il carcere, gli interrogatori sotto tortura, il lavoro coatto, la fame. Liliana, chiusa in cella, da sola, senza poter fare niente, pregava per passare il tempo e quando finiva le preghiere che conosceva ne inventava altre, chiacchierava con Gesù e cantava tutte le canzoni che sapeva per farsi compagnia.
Rientrò a Padova nel giugno del 1945. Malata, ma viva.
«La nostra famiglia - racconta oggi Liliana - fu meravigliosa anche al nostro ritorno, in quanto non ci chiese mai niente di quello che avevamo vissuto in prigionia. Io e Teresa non ne facemmo mai parola in casa. E quando provai a raccontare all'università quello che avevo passato, mi presero per matta, mi dissero che inventavo tutto. Allora mi chiusi completamente. Solo nel 1994, una mia compagna di classe venne a chiedermi di parlare dei campi di concentramento al Liceo Tito Livio di Padova e allora mi meravigliai che ci fosse interesse per questi terribili anni di storia. Cominciai a capire che per noi parlare era un bisogno, e soprattutto un dovere».
Ogni volta che Liliana parla dei lager fatica, perché è come riaprire una ferita, ma lo fa con grandissima determinazione. La signora è elegante nei modi, dolce, ma racconta cose terribili. Essendo stata per molti anni insegnante di lettere nelle scuole medie, predilige il contatto con i ragazzi, che incontra nelle scuole: «Ai giovani, all'inizio, quello che dico sembra impossibile, poi capiscono che è storia vera da cui hanno da imparare. Dico ai ragazzi che siamo tutti uguali: che non è importante l'abito firmato, ma la dignità della persona. Raccomando il rispetto delle persone e delle cose, in particolare dell'acqua (in prigione con un litro al giorno dovevamo fare tutto).
Racconto questa mia storia perché l'orrore non si ripeta, anche se mi sono resa conto, ultrasettantenne, che purtroppo, in Bosnia, in Uganda e in tante parti del mondo si continuano a perpetrare atrocità sempre per il potere o per i soldi».
La forza dalla preghiera
La vita di Liliana è stata davvero intensissima: nacque in Polesine, poi si trasferì nella grande casa di via Galilei, a Padova, dove tutta la famiglia viveva riunita e pregava insieme («se qualcuno suonava, aspettava») prima che la guerra portasse lontano otto dei dodici figli. Miracolosamente, ritornarono tutti, tranne uno: Alessandro, morto su un aereo da guerra in Tunisia. La seconda guerra mondiale, infatti, vide i figli maschi in armi o prigionieri (quattro), Teresa e Liliana arrestate, e più tardi anche Lidia. Renata, sfuggita fortunosamente all'arresto, scriveva lettere ai genitori da parte delle sorelle, per non far sapere che loro erano state arrestate. Quando Liliana tornò dai campi di concentramento, per oltre un anno dovette essere ricoverata, poi riprese gli studi e sposò Carlo De Muri, conosciuto mentre era prigioniera dei tedeschi.
«Non odio i tedeschi - dice Liliana -. Posso provare sentimenti di rabbia, ma non odio. Rifarei quello che ho fatto, perché era un dovere farlo. Ma l'età non è più la stessa! Era un dovere morale salvare queste persone: una vita era in pericolo e allora la solidarietà per noi era naturale. Pensavamo ai nostri fratelli in prigionia e avremmo voluto che anche loro ricevessero aiuto da qualcuno».
Liliana non mise a repentaglio la sua vita per ottenere qualcosa in cambio: la Croce al Merito di guerra in seguito ad attività partigiana, ottenuta nel 1975, quasi la nasconde con pudore.
Liliana fu sempre audace e combattiva. Nel 1990 andò in India a trovare madre Teresa di Calcutta. «Mi sono fermata a fare volontariato da madre Teresa di Calcutta. Lei mi ha guardata e ha capito tutto, senza che nessuno le avesse detto niente. Un giorno madre Teresa era in fondo alla chiesa e le novizie erano tutte stese per terra. Quando fu il momento di ricevere Gesù una suorina mi spinse da madre Teresa. Lei mi venne vicina e mi accarezzò. Aveva due occhi come il cielo, in un viso grinzoso. Penso che abbia capito tutta la mia storia».