Carnevale, lacrima e sorriso

Parola e rappresentazione, poesia e risata. Che legame c’è tra la letteratura e il carnevale: quel sottile filo di ironia e spregiudicatezza che sdrammatizza la vita?
19 Gennaio 2004 | di

Il Carnevale che ogni anno ritorna precedendo le settimane di riflessione della Quaresima, è tema assai familiare agli italiani, grandi e piccini. E non solo per la gente comune, ma anche per gli artisti: dai disegnatori ai costumisti, dagli attori ai poeti, fino agli scrittori. Ispirati da un libro uscito di recente sul tema (di Giuseppe Zaccaria, Le maschere e i volti , Bompiani editore), svolgeremo una rapida rassegna su come la nostra letteratura degli ultimi 300 anni abbia trattato, in alcuni dei suoi scrittori più rappresentativi, l";argomento di questa festa (e della festa in generale).
Con un simile tema non si può che iniziare da Venezia, città  di feste, che ha nel Carnevale un elemento della sua più viva tradizione culturale. Il famoso pittore veneziano Emilio Vedova ricorda questa festa rituale «per quel ritrovare "; profondo "; per toccare e vivere zone del profondo, per lo ";specchio";, per l";urto implicito, per il suo ";coraggio";... mascherato».
Carlo Goldoni, una delle grandi glorie della letteratura veneziana, scrisse presentando una sua commedia: «Quasi tutti gli anni sull";ultimo del Carnovale ho usato di dare al pubblico una Commedia per il paese nostro, di stile e di carattere veneziano». Tra i protagonisti delle sue opere, maschere celeberrime come Brighella e Arlecchino, o personaggi resi celebri e immortali per il loro ruolo-maschera: i veci rusteghi , brontoloni e avari; il vecchio antiquario saccente e ignorante; Gasparina e il Cavaliere, tipi degli eterni innamorati: lei timida e sognatrice, lui disinibito ma senza un soldo. E molti altri.
Nell";Ottocento si passa dall";atteggiamento moralista e di sospetto o condanna (Manzoni, Sacchetti e Tarchetti), al passaggio all";oltranza provocatoria e verso una sorta di estraneità  esistenziale (Verga e lo Svevo di Senilità ). Emblema della visione moralista prevalente sono, nei Promessi Sposi , i capitoli in cui Alessandro Manzoni narra la drammatica avventura di Renzo a Milano: scappato dal paese per non cadere nelle grinfie di Don Rodrigo e dei suoi bravi, l";inesperto giovane di campagna si trova in mezzo, senza volerlo, alla rivolta contro i fornai. La sera, incautamente festeggiando la maliziosa buona sorte di un pane rubato, Renzo va in osteria dove mangia e "; soprattutto "; beve, illudendosi di essere tra amici.
«Comunque sia "; narra il Manzoni "; quando que"; primi fumi furono saliti alla testa di Renzo, vino e parole continuarono ad andare, l";uno in giù e l";altre in su, senza misura né regola; e, al punto a cui l";abbiam lasciato, stava già  come poteva. Si sentiva una gran voglia di parlare: ascoltatori, o almeno uomini presenti che potesse prendere per tali, non ne mancava; e, per qualche tempo, anche le parole erano venute via senza farsi pregare, e s";eran lasciate collocare in un certo qual ordine. Ma, a poco a poco, quella faccenda di finir le frasi cominciò a diventargli fieramente difficile». All";ironica descrizione della sbornia, seguirà  l";arresto di Renzo da parte di un poliziotto in borghese che si era mischiato ai commensali; quindi la sua avventurosa fuga e il darsi alla macchia, fino all";esilio in terra straniera (a Bergamo, allora sotto la Repubblica di Venezia).
È con Luigi Pirandello che, nella letteratura del XX secolo, il punto di vista su questo argomento muta radicalmente. Nell";Umorismo il drammaturgo e romanziere siciliano scriveva: «Si mentisce psicologicamente come si mentisce socialmente. E il mentire a noi stessi, vivendo coscientemente sotto la superficie del nostro essere psichico, è un effetto del mentire sociale».
Il rapporto fra la maschera e la finzione supera, nella sua tragica visione del mondo, la dimensione ludica della festa per investire tutta la realtà , in particolare il quotidiano. La sua arte è sempre avviluppata tra personaggi che lottano per mascherare la realtà , coprendola di forme, ed altri che la vorrebbero smascherare, cioè togliere le forme per scoprire la vita e la verità  fattuale che si cela al di sotto di esse.
Ne è esempio grandioso e drammatico l";Enrico IV dove al protagonista "; creduto incosciente "; viene fatta vivere, con grottesca ipocrisia, una continua carnevalata in costume. Lì egli veste ancora, come nella festa in cui cadde da cavallo, i panni del sovrano medioevale Enrico IV, e gli altri attorno a lui sono mascherati come personaggi della sua corte. Ma il poveretto, un certo giorno, si sveglia; dapprima stupito, poi infuriato, decide di vivere consapevolmente questa sceneggiata per un certo tempo fino a quando, non divertendosi proprio più, esplode in un";iraconda ribellione: «E avevano l";aria di prestarsi per compassione, per non fare infuriare un poverino già  fuori dal mondo, fuori dal tempo, fuori dalla vita!`€¦ Eccomi qua: potete credere sul serio che Enrico IV sia ancora vivo? Eppure, ecco, parlo e comando a voi vivi. Vi voglio così! Vi sembra una burla anche questa, che seguitino a farla i morti, la vita?».
Altri scrittori del Novecento italiano hanno trattato del Carnevale come festa grottesca o addirittura macabra. Clemente Rebora, poco prima della Grande guerra "; dove avrebbe subito un grave trauma acustico che, unendosi a un esaurimento nervoso in corso, lo avrebbe turbato per anni, compose una poesia intitolata Fantasia di Carnevale, dove previde la carneficina terribile e bestiale a cui l";umanità  sarebbe andata incontro: «La sciagura ritmava in lontananza;/or s";avvicina. Il patrio terreno/in bilico, già  crolla:/è un invito di danza./Signori, alla coda!.../Or sù, giovanotti,/La morte è in amore:/ha baci d";un vigore/da incidervi l";ossa./Chi ne voglia un";Idea,/si raccomandi a Dio/che la rivela». I versi conclusivi della poesia cantano: «A cena, intanto. Olà ,/del festino: carne al sangue,/rosso vino forte,/evviva l";appetito della morte!». Tra tanta retorica guerrafondaia, un poeta (tra i pochi) aveva capito la sciagura e la mostruosità  che l";evento bellico avrebbe portato con sé, sotto apparenza d";orgoglio e di «festa ».
Continuando il viaggio nel Novecento, incontriamo altri due autori di rilievo, sempre con una visione amara sul tema: Carlo Emilio Gadda, per cui il Carnevale reale dell";umanità  coincide con la «cognizione del dolore», ed è trasposizione metaforica del disordine, allegro, caotico e primitivo, del mondo; e Cesare Pavese, dove alla festa tradizionale si sovrappongono macabre allegorie, e al riso si sostituisce un";amara ironia nutrita di pessimismo verso la vita.
Terminiamo la nostra carrellata con un cenno al concetto di Carnevale, di festa e di allegria nel Nome della rosa di Umberto Eco, romanzo conosciutissimo in tutto il mondo, dove alla rivisitazione di un medioevo di maniera, si unisce l";attrazione suggestiva del proibito. Nel clima rigido del tristissimo monastero medievale, descritto con fantasia e ironia da Eco, l";umanità  dell";allegria è riportata alla luce da una saggia osservazione controcorrente di frate Guglielmo da Baskerville: «Le scimmie non ridono, il riso è proprio dell";uomo, è segno della sua razionalità Â». E in seguito: «La commedia nasce nelle komai ovvero nei villaggi dei contadini, come celebrazione giocosa dopo un pasto o una festa. Non racconta degli uomini famosi e potenti, ma di esseri vili e ridicoli, non malvagi, e non termina con la morte dei protagonisti. Raggiunge l";effetto di ridicolo mostrando, degli uomini comuni, i difetti e i vizi. Qui Aristotele vede la disposizione al riso come una forza buona, che può avere anche un valore conoscitivo». Torna in mente il vecchio detto: «La bugia non è che una verità  in maschera». Ecco dunque che festa, commedia e maschere possono servire a comprendere meglio, attraverso il riso e il racconto allegro, i personaggi di tutti i giorni, finendo magari anche per farci godere un po"; meglio i momenti belli della vita.

Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017