Caro signor G.B.

04 Luglio 1998 | di
   
   

   

I l  signor G.B. è un lettore. Gli rispondo con un po' di ritardo perché solo oggi trovo il suo cortese biglietto nella corrispondenza via via accumulatasi.

Lei, signor G.B. (come vede rispetto il patto dell'anonimato) chiede notizie sul mio, cito testualmente, 'credere e non credere', un'espressione forse presa da un ciclo televisivo da me realizzato due anni fa.

Non è il primo a farmi questa domanda, e francamente continuo a chiedermi a quale genere di interesse può appartenere la seppur educata, persino sommessa richiesta di 'saperne di più' su una questione di tanta, vorrà  convenirne, privatezza. E nondimeno mi sembrerebbe scortese, se non anche un po' altero, trincerarmi in essa. Ecco, dunque, una risposta che spero riassuma il senso di ciò che lei amerebbe sapere. La prenderò alla larga, ma senza girarvi intorno. C'è chi già  conosce questa piccola storia e non me ne vorrà  se la richiamo su queste pagine.

 

Da ragazzi, la domenica, si andava al rito 'delle cinque' nella chiesa dei salesiani. Non era solo un'abitudine, né sempre un empito spirituale, a portarci dentro il fiato caldo un po' stordente di quella stipatissima funzione pomeridiana. Forse, più di tutto, ci attirava la 'marchina' che dava diritto ad assistere, di lì a poco, gratuitamente, al film proiettato nella sala parrocchiale. Un piccolo ricatto fin d'allora perdonato a don Rossi, ricattato da noi mille volte. Che prete! Alto come una pertica, abile nel far prendere alla veste il giro giusto quando si voltava, e fasciato in vita così da lasciare immaginare un corpo di atleta, mi chiedevo quale disastro lo avesse castigato dentro quel nerume! Credo fosse l'unico prete della città  a mettersi le mutandine da bagno e a nuotare fino alla terza secca, dove rimaneva tutto solo a guardare il lontano brulichio della spiaggia, e se arrivava qualcuno si faceva più in là  con un paio di bracciate.

Così sano, e così incorrotto, lo amavamo non perché ne sentissimo, soggiogati, la supremazia, ma per la ragione opposta: perché la sua forza inerme lo trasformava in un compagno quasi da proteggere.

Era un rapporto fondato sulla lealtà , anche la più rischiosa, e sulla più spettacolare franchezza; sicché, quando mi parlò del suo abbandono tra le braccia di Dio, anch'io mi lasciai andare a una confidenza non so se più goffa o patetica: gli confessai di essere preso, sì, da un desiderio di fede, ma di non riuscire in alcun modo a sottomettervi l'amore disperatamente profano per questa vita.

 

Avrei voluto rispondere che Dio va e viene, come il mare; e che nell'andirivieni aveva qualche parte anche quella messa domenicale del pomeriggio. Una volta, ricordo, i riverberi delle candele, l'incenso, i sussurri dei confessionali, l'ostia mai vista così candida e attraente, i volti dei comunicati, che risalivano dal cavo delle mani rimessi in pace dalla laboriosa e delicata introduzione del Cristo, mi trasmisero una specie di invaghimento. Avvertivo che qualcosa mi si metteva addosso, senza poter valutare quanto succedeva nell'anima. Allora, per difendermene, pregai a modo mio perché non mi fosse data la fede. Di fronte a quel vago innamoramento temetti che, se mai fosse venuta mi avrebbe coinvolto al di là  di ciò che ero disposto a sacrificare della mia umanità . Facevo il calcolo, insomma, delle privazioni che mi sarebbe costata. Alla strategia dell'eterno opponevo la tattica, povera e astuta, di un apprendista-credente; deciso a far tornare tutti i conto dell'esistenza, a cominciare dalle lusinghe, diciamo, terrene.

Un mattino di domenica, l'agosto stava morendo, la città  fu rabbuiata da un temporale di quelli che annunciano la fine dell'estate; i turisti abbandonavano la spiaggia per far compere in città , l'arenile si era fatto grigio e duro come un piazzale, lungo la via apparivano le suore che sfidando il grecale, leggermente chine, procedevano con due dita premute sul frontalino del cappellone di tela bianca, le cui ali, agitandosi, sembravano alzarsi in volo. Fu in quel panorama già  autunnale che mio padre decise di condurmi nella chiesa di Maria Ausiliatrice, la nostra parrocchia, anzi la mia: quella dei salesiani, della 'marchina' e della tentazione.

Ignoro, caro G.B., che cosa lo avesse spinto a prendermi per mano e a portami fin lì. Doveva avere un motivo eccezionale perché 'non era di chiesa', come si dice dalle mie parti; sebbene ci avesse cresciuto non solo nel rispetto, ma anche nell'osservanza del precetto religioso.

Aveva indossato, per l'occasione, un vestito scuro, con la cravatta nera. Tutto, quel giorno, mi sembrava circondato da una insondabile novità . Confusi tra i fedeli, lo guardavo da sotto in su mentre, nel luogo inusitato, la sua presenza aveva una specie di estraneità  imbarazzata. Lo osservai per tutto il tempo del rito; mi sarebbe piaciuto conoscerne i pensieri, quasi dovessi riceverne io stesso chissà  quali effetti. Notai che non si univa ai gesti degli altri, i quali obbedivano alla liturgia sedendosi, o inginocchiandosi, per poi risalire e di nuovo accomodarsi e genuflettersi. In quello stridio di legni, spesso annunciato o seguito dalle note dell organo che sfiatavano da vecchie canne, egli rimaneva immobile; tranne quando cercava la mia mano per stringerla nella sua, secondo una nostra abitudine. Ma più di tutto mi colpiva il silenzio nel quale restava tutte le volte che la chiesa si riempiva di orazioni.

Finché, d'un tratto, gli vidi uscire dalle labbra, non così sommessa da non poterla udire, la preghiera che tutti dicevano a voce alta: 'Pater noster, qui es in coelis...'. Il fatto straordinario che conoscesse quelle parole mi rivelò una persona a cui improvvisamente si era aggiunto qualcosa; e forse mi stupivo di notarlo, perché l'immagine paterna mi era sempre parsa così esemplare da non avere bisogno di alcun di più. Non gli chiesi mai ragione di quel giorno, il cui ricordo via via si perdeva. E tuttavia ho continuato a domandarmi perché al pregare secondo i canoni, cioè pronunciando le parole, anch'io le trattenessi nel silenzio; proprio come mio padre, mi limitavo a pensarle.

 

Un giorno si ammalò. Per oltre un mese guardai le sue mani, che erano l'espressione massima della forma viva del padre e la sua essenza più arcana. In quelle mani ero stato con le mie di bambino, per ore, lungo le strade bianche di allora, strette e infinite. E ora tenevamo le dita intrecciate allo stesso modo di quando con esse mi 'parlava': non avevo dimenticato il linguaggio della sua mano, con il quale, mentre camminavamo, accompagnava le parole. Era un alfabeto di piccole pulsioni, di strette improvvise, di brevi e temuti allentamenti, cui seguiva un confortante rinserrare le dita. Da come mi premevano, sottolineando e scandendo, apprendevo un codice del quale io solo avevo la chiave. E fin qui, caro lettore, fu una consolazione.

Mi arresi alla sua morte quando il cavo della mano, appena ingiallito, s'irrigidì. Nulla più di quell'improvvisa inutilità  delle mani avrebbe potuto darmi l'idea della fine. Sebbene attesa, mi sorprese per l'incomprensibile puntualità  e la sconosciuta certezza di ciò che è definitivo; e fu tutta lì, nelle mani, tanto reale e incontrastabile che non guardai altro. Le rivedevo compiere i gesti che erano serviti alla mia vita, ne risentivo la forza e la grazia, la potestà  e l'amore. A quel punto, come sospinto da un ricordo, cominciai a pronunciare le parole del 'Pater'. Qualcosa mi induceva a dire, anziché a pensare; pur sapendo che è sufficiente, se si vuole stare con Dio, il semplice starvi. Anche in silenzio. Ma era intervenuta l'inesplicabile obbedienza; e ormai dicevo la preghiera, chissà  se sospinto dal dolore o proprio per pregare.

Mentre il padre usciva da questa vita, lo ritrovavo in quel 'sia fatta la tua volontà ' da cui iniziava il corso inconsumabile dell'altra. E ripetevo le sole parole di fede, ch'io sappia, pronunciate da lui a viva voce, in un mattino di fine agosto. Il 'Pater', mi dicevo, è l'orazione che più sgorga dal petto perché compie il cammino più misterioso e umano: quello che riporta ai piedi della croce, insorgendo alla luce liberante della carità  e della promessa.

 

Penso, signor G.B., di non far torto a nessuno dicendo che rivado a quei pensieri al declinare di ogni estate, quando lui mi portò dentro la chiesa dove lo vidi dire la preghiera. E fuori c'era una giornata ventosa, gonfia di tedio e di nubi, con il cielo pieno di baie e dirupi. La gente scendeva dalla città  per vedere il mare in burrasca, con passo paziente e quasi devoto. Di tanto in tanto qualcuno abbandonava la spiaggia e risaliva a capo chino, pensando a chissà  cosa tra un passo e l'altro. Finché tutto l'arenile non si riempì di ritorni.

Ecco, questa è la risposta invero un po' errabonda alla sua curiosità , signor G.B., a riguardo di una mia 'qualche forma di fede'. Non saprei dirne la qualità , cortese lettore; so per certo che quel sentimento ha al suo centro il Padre, quello di tutti; e il mio, la fonte viva di ciò che sono e non sono.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017