C’era una volta un asilo notturno

Il primo in Italia a funzionare, di notte, senza operatori. A dare la residenza ai suoi ospiti. A elaborare una carta dei diritti. Storia di una «istituzione» veneziana nata per i senza fissa dimora.
23 Novembre 2010 | di

La prima notizia è… che non fa mai notizia: passando le cronache cittadine, è difficile trovare articoli di «nera» che raccontino di una rissa tra sbronzi clochard, o di un atto di vandalismo nei confronti della struttura, quelli che spesso coinvolgono luoghi simili in altre città e che allarmano i vicini di casa.
Notizia casomai l’ha fatta, e continua a farla – a livello nazionale – la Casa dell’Ospitalità del Comune di Venezia per altri motivi: anzitutto perché è il primo luogo d’accoglienza di questo tipo a funzionare con l’autogestione e senza un imponente squadra di operatori estrerni pagati; e poi perché il Comune di Venezia è il primo a riconoscere la residenza a quanti vivono nella casa.

La storia potrebbe cominciare, in effetti, così: c’era una volta un dormitorio pubblico… Perché tale era in origine l’identità di questo luogo; uno dei tanti rifugi notturni aperti nelle città italiane dove qualche «senza fissa dimora» dalle 20 alle 22 trova un tetto e una brandina disadorna per una manciata d’ore. Poi al mattino tutti fuori, si chiude. E ricomincia la vita randagia fino alla sera seguente, come in un gioco dell’oca dove ripassi sempre per il via, senza che nulla cambi al lancio successivo dei dadi.
Poi a prendere la direzione dell’asilo di Mestre è arrivato Nerio Comisso, un biavarol, come ama definirsi, un «alimentarista» in dialetto veneziano, col senso dell’azienda, l’ultimo dei «basagliani», un po’ libertario, con un’idea fissa in testa: trasformare quel transito avvilente in un ricovero accogliente, un luogo in cui «restare» fisicamente per tutto il giorno e dal quale magari «ripartire» socialmente per riconquistare la propria dignità e quell’autostima perduta sui marciapiedi. Ci voleva qualcuno che provasse a rompere quella dinamica perversa del bivacco-strada-bivacco. Bisognava che l’istituzione si mettesse in ascolto degli ospiti, per una volta, delle loro debolezze e delle loro derive esistenziali. Ci ha pensato lui, il «sindaco dei senza fisso Comune» come lo ha rinominato brillantemente uno scrittore veneziano.
 
Una vicenda da raccontare

Un’assemblea del 1987 segnò il primo di innumerevoli momenti di dibattito in cui i senza fissa dimora si misero in discussione con gli operatori. La prima decisione fu quella di estendere l’orario di accoglienza anche alle ore pomeridiane, per poter avere un po’ più di tempo dedicato al riposo, evitando così la tentazione di infilarsi nella prima osteria, una volta usciti. E la casa all’1/D di via Santa Maria dei Battuti aprì dalle 12.30 alle 17.00.
Era già una grande conquista, ma ancor più lo sarebbe stato l’ottenimento, nei mesi estivi – quando le mense popolari chiudevano – di poter avere una specie di cucinotto dove consumare dei pranzi freddi, anche solo un panino. Richiesta accordata, con l’avvertenza di mantenere pulito il locale. Dal pranzo secco al poter accendere un fornello a gas per scaldare una vivanda non ci volle molto. Insomma, da struttura anonima e spersonalizzante di pura assistenza, la casa di Mestre stava assumendo sempre più l’aspetto di una comunità, dove ci si riconosce, si vive insieme e ci sono delle regole decise e accettate da tutti. Una vera comunità d’accoglienza.

Dal pasto quotidiano l’assunzione di responsabilità si allargò ad altri ambiti comunitari: pulire i locali, tenere curato il giardino, stabilire dei turni e permettere un po’ di socializzazione a chi la cercasse. In più, se qualcuno si impegnava ad assumersi qualche responsabilità per gestire alcuni di questi servizi utili a tutti, riceveva un compenso per la mansione svolta.
Il primo risultato incredibile di questa fase fu l’eliminazione dei turni di notte assicurati da guardiani a pagamento. Una decisione presa in un indimenticabile ultimo dell’anno. I sette guardiani furono sostituiti e mai più reintegrati. Un asilo notturno che fa a meno di vigili e operatori specializzati? E al loro posto basta il controllo di uno degli ospiti? È già un caso da giornale. È la conquista dell’autogestione: parolina magica che significa responsabilità per chi l’aveva gettata alle ortiche, troppe volte scottato dalla vita. E insieme un modo di gestire una struttura pubblica risparmiando risorse economiche.

L’altro passo decisivo verso l’autonomia amministrativa, anch’essa unica nel nostro Paese per un asilo notturno, avvenne nel 1998, quando la Casa dell’Ospitalità ottenne lo status di Istituzione amministrata dal Consiglio comunale. Il traguardo finale sarebbe stato raggiunto, però, solo nove anni dopo, nel 2007, quando l’asilo diventò una Fondazione (che è attualmente presieduta da Giovanni Benzoni).
«Ricordo bene quel sabato primo luglio 1987, quando feci il mio ingresso in Casa – rammenta Comisso –. Evidentemente l’idea dell’autogestione è stata lungimirante. Bisognava solo superare la paura della novità. E la paura, quella che ti fa rinunciare ai progetti, la superi solo con l’amore. Ricordo anche molto bene i tempi “eroici”, quando eravamo costretti, per dare un riparo dal freddo ai senza casa, a buttare dei materassi per terra; poi sono arrivati i lettini più dignitosi della Protezione Civile, che mettevamo negli uffici amministrativi o in altre stanze della casa trasformandole in camerate di fortuna».

Allora non c’era ancora la disponibilità odierna dei 160 posti letto, suddivisi in otto strutture abitative tra Venezia e Mestre aperte negli anni (alcune delle quali a costo zero), senza la presenza di operatori. La Fondazione può gestire tutti gli spazi per 24 ore al giorno con l’intervento di sole otto persone stipendiate, a 30 ore alla settimana. «La qualità della vita, dal 2008, anno dei cambiamenti, è migliorata. Sono stati avviati dei corsi di formazione per gli operatori volontari, per gli ospiti e per i dipendenti: abbiamo messo insieme chi ha frequentato l’università di Padova con chi ha frequentato l’università “della strada, dell’emarginazione e della solitudine” – continua il direttore –. Queste sono iniziative che non fanno notizia, ma costano fatica».
Il percorso a cui viene avviato un ospite che arriva alla Casa è ben definito: c’è una «prima accoglienza», di durata variabile, che dovrebbe mettere in moto la «motivazione», la voglia di cambiare: «È l’impatto con il cambiamento di vita – spiega Comisso – e si affronta in piccoli gruppi di lavoro.

C’è un gruppo e l’autogestione per tutti: è la regola. Esiste, poi, un gruppo specifico, quello dei cosiddetti “astinenti”, coloro, cioè, che lottano contro le dipendenze (dal gioco compulsivo all’alcol) che li hanno portati all’emarginazione. Il motto è uno solo: col gruppo si può fare. Non si deve mai dimenticare che lo scopo finale del nostro lavoro è quello di dare un futuro a queste persone e un’autonomia economica». Per questo è attiva anche una cooperativa di lavoro che occupa una decina di ospiti, e un gazebo a Mestre, gestito da loro, per il noleggio delle biciclette.

Che provenienza hanno gli ospiti? Quasi il 20 per cento è costituito da pazienti psichiatrici in carico al Centro di salute mentale, altrettanti sono i pazienti non in carico, poi c’è un 25 per cento di alcolisti, un 9 per cento di dipendenti dal gioco non in carico e un 8 di tossicodipendenti seguiti dal Sert. Rispetto alla provenienza geografica: il 20 per cento è veneziano, il 50 viene dal resto d’Italia e il 30 per cento è immigrato. Su 160 ospiti, 16 sono donne. Il sistema funziona, anche grazie al passaparola, e il Comune di Venezia è di gran lunga la città più «accogliente» del Veneto.
Ora la struttura sta vivendo un passaggio difficile: il direttore e il presidente della Fondazione divergono sui piani futuri della Casa. Ma la struttura ha ormai fondamenta forti per reggere anche i terremoti amministrativi.
 
 
L’intervista
E il cinema diventò terapeutico
 
La salita al Golgota del Nazareno come la via crucis personale dei senzatetto. Un’idea che è diventata un film. Così la Casa dell’Ospitalità di Sant’Alvise di Venezia è divenuta soggetto cinematografico e i suoi ospiti gli attori principali. A intrecciare le vite complicate di chi non ha una casa al calvario di Gesù ci ha pensato l’artista veneziana Serena Nono. Il film Via della Croce, girato in esterno a Venezia, è stato interpretato dai «barboni» della Casa e da amici, tra cui l’ex sindaco del capoluogo lagunare, Massimo Cacciari (ma c’è anche Anna Bonaiuto, attrice di successo). Un’opera che, presentata alla Mostra del cinema di Venezia nel 2009, ha riscosso premi e il favore del pubblico. Ne parliamo con la regista.

Msa. Perché un film sulla Casa dell’Ospitalità?
Serena Nono. Frequentavo da alcuni anni la Casa dove avevo tenuto dei laboratori di pittura e scultura. Dopo aver conosciuto più a fondo gli ospiti ho sentito il desiderio di raccontare le loro storie. Da qui è nato il primo documentario, Ospiti. L’interesse riscosso dal video ci ha spinto a ipotizzare un progetto più ambizioso: un vero e proprio film.

Come mai la scelta della Passione e della via crucis?
È nata discutendo con gli ospiti, soprattutto con Bruno, uno di loro. Volevano qualcosa di più duro, graffiante, che incarnasse di più le loro difficoltà esistenziali. Allora ho pensato di utilizzare la Passione, perché i temi della via crucis e delle sue stazioni corrispondono alle esperienze di queste persone: la caduta, il giudizio altrui, lo scherno, ma anche la carità, la solitudine, l’abbandono, la morte e, infine, la risurrezione.

La risurrezione?
Nel senso che la possibilità di vivere in una comunità dove si ritrova quasi una dimensione familiare e il riprendere in mano le responsabilità del quotidiano attraverso l’esperienza dell’autogestione, per alcuni di loro è stata una vera esperienza di risurrezione, di rinascita.

Che cosa l’ha colpita di questa esperienza di comunità?
La reale solidarietà e l’accoglienza degli ospiti e una capacità di non giudizio che hanno gli ospiti tra di loro e i responsabili. Atteggiamenti che è difficile trovare fuori.

Perciò ha trovato giusto associare questa esperienza alla Passione di Cristo. Una attualizzazione del Vangelo. È così?
Sì, se mi chiedo: «Dove trovo il volto di Cristo oggi?», penso a loro. I poveri sono loro. Uno degli ospiti, un ragazzo della Costa d’Avorio, che dimorava lì, un giorno mi disse: «La povertà è un dono». Frase forte detta da un senzatetto. L’idea di povertà cristiana di non possedere, di sentirsi ospiti sulla terra, fa sì che queste persone abbiano capacità maggiore di accoglienza e fratellanza.

Quale messaggio lancia il film?
Quello che proprio da queste persone che sono fragili, invisibili, e che ci fanno paura, soprattutto se straniere, possiamo trarre insegnamenti importanti. In loro si leggono segni della Verità.

Gesù è interpretato da più attori. Perché?
Proprio perché volevo evidenziare che tutti sono dei poveri Cristi. E poi eleggere uno solo di loro sarebbe stato un controsenso.

È cambiato qualcosa dopo il film?
Lavorare al film ha portato anzitutto a far maturare il legame tra coloro che ne sono stati coinvolti e a riflettere sulla condizione del senza fissa dimora. Il successo del film e i conseguenti, frequenti viaggi per andare a presentarlo in giro per l’Italia stanno provocando qualcosa di inaspettatamente bello: gli invisibili si stanno prendendo una rivincita. Le storie che prima li condannavano hanno cominciato a essere interessanti, degne di attenzione. Anche il cinema può essere terapeutico.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017