Che belli gli occhi dei vecchi ancora così pieni di speranza
Nel mio libro Vecchi leoni , un giovanotto offende uno dei protagonisti dandogli del rimbambito e invitandolo con male parole a darsi un'occhiata allo specchio per vedere come è ridotto. Il vecchio, tornato a casa, segue il suggerimento e anche lui, come fa lo specchio del bagno, riflette. Vede un volto segnato da rughe, capelli bianchi, palpebre appesantite, la pelle qua e là cascante. «E allora? - si dice -. È il viso di un vecchio, sì, ma di un vecchio ancora capace di sorridere e di risentirsi. E poi, perché tanti si fermano alle rughe, ai capelli bianchi, alla fragilità del corpo e non guardano gli occhi dei vecchi? Se la vita non li ha spenti, li vedrebbero ancora brillare di sogni, d'ira, d'amore e, perché no?, di speranza» .
Il rapporto con il proprio viso e con quello degli altri è uno di quei temi che hanno da sempre affascinato l'artista, lo scienziato e l'uomo comune. Passiamo una vita a spiare, con piacere, ma per lo più con apprensione, la nostra faccia, a evitare di perdere la faccia, a salvarla, a nasconderla, a truccarla, a guardarci in faccia con il nostro prossimo. «La nostra faccia è la cosa con cui abbiamo a che fare di più, ma di cui parliamo di meno. A volte parlarne ci spaventa», scrive Tullio Pericoli nel suo ultimo e prezioso libro L'anima del volto (Bompiani, 2005). Pericoli è pittore e disegnatore con una strepitosa capacità di ritrattista. Ho imparato di più dalle sue riflessioni sulla propria lunghissima esperienza di ritrattista che su molti libri di psicologia.
La complessa relazione con il nostro volto
Fin da quando, da poco venuti al mondo ed esperti soltanto del volto materno e delle persone che più ci sono vicine, ci imbattiamo in uno specchio e osserviamo sorpresi quel faccino che non sappiamo essere il nostro, il rapporto con il volto, dapprima improntato alla curiosità e al gioco, si evolve fino a trasformarsi in una complessa relazione. Nel migliore dei casi, se lo sguardo e il sorriso materno precedenti alla scoperta dello specchio ci hanno rinviato immagini d'amore e di accoglimento, il primo incontro con il nostro volto avverrà sotto i migliori auspici. In seguito, però, non sarà soltanto l'oggetto specchio a riflettere il nostro viso ma anche lo sguardo, non sempre benevolo, dei nostri simili e la vita comincerà a modellare il nostro volto, che finirà con il portare i segni delle gioie e dei dolori dell'incontro con il mondo. Fin dalla preadolescenza atteggeremo il viso per adattarci al meglio a quelle che riteniamo essere le esigenze del nostro ambiente, tenteremo di indossare delle maschere sociali. Sapendo che, come scrive Pericoli, «la faccia è un'autobiografia sintetica con la quale ci presentiamo sapendo di esporci a un'indagine che passa attraverso di essa, temiamo che gli altri scoprano chi siamo e cosa proviamo, amore, paura, insincerità e ci illudiamo che la maschera ci renda impenetrabili. Più avanti ricorreremo forse a trucchi cosmetici e chirurgici, ma ben sapendo che quello non è il nostro vero volto il nostro rapporto con lo specchio diventerà sempre più difficile e diffidente». Se vorremo invece evitare di barare, dovremo condividere le parole di Conrad: «Ogni faccia è la base dell'espressione, come se, essendo tutto il resto eredità , mistero o caso, solo essa fosse stata plasmata consapevolmente dall'animo interiore» e non ci sono trucchi che tengano. Non siamo del tutto trasparenti né del tutto opachi. L'identità presuppone uno spazio opaco, solo nostro, impermeabile ai pregiudizi degli altri. Uno spazio da difendere contro chi ci vuole o ci crede trasparenti. Per Winnicott ogni individuo è isolato, costantemente non comunicante, costantemente ignoto, di fatto non scoperto. Al centro di ogni persona c'è un elemento incomunicato, inviolabile, che è sacro e va preservato.
Forse per questo, quando moriamo e non abbiamo più le forze per difendere il nostro «segreto», l'anima si stacca da quel corpo e da quel viso in cerca di luoghi più sicuri.