«Chi ha paura muore ogni giorno»
È l’unico sopravvissuto di quel pool antimafia, composto tra gli altri da Falcone e Borsellino, che portò alla sbarra decine di imputati e spietati assassini. Giuseppe Ayala racconta quella Sicilia e quell’Italia, strette tra rabbia, morte e dolore.
27 Gennaio 2009
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Quel venerdì l’appuntamento era fissato per il primo pomeriggio, all’aeroporto di Ciampino. Falcone, come spesso accadeva, gli avrebbe dato un passaggio per Palermo, sul volo di Stato. In mattinata, però, telefonò per avvertirlo di un cambiamento di programma. Francesca, la moglie di Falcone, non si sarebbe liberata dal lavoro in tempo. Il decollo era spostato di ventiquattr’ore. Giuseppe Ayala decise di non partire. Arrivare a Palermo sabato sera per ripartire lunedì gli fece pensare che era meglio rimanere a Roma. A Falcone disse: «Ti ringrazio, ci vediamo la settimana prossima». Alle 17.59 di quel sabato cinquecento chili di tritolo fecero scempio di cinque vite. «Avrei dovuto esserci. Sono, invece, riuscito a salvarmi grazie a un ”nonnulla”, a un puro caso del destino a cui debbo la vita». Giuseppe Ayala ha perso, in questi anni, gli amici più cari, i colleghi più fidati. Negli anni ’80 rappresentò l’accusa nel maxiprocesso a Cosa Nostra. Oggi è giudice all’Aquila. Cose da raccontare ne ha molte: sulla mafia, sulla sua Sicilia, ma non solo.
Msa. Giudice Ayala, qualcuno ha scritto che, dopo sedici anni da quel 1992, «forse Giuseppe Ayala ha scontato abbastanza la colpa di essere rimasto vivo». Lei è un testimone d’eccezione degli anni in cui Cosa Nostra sferrò il suo attacco frontale allo Stato. Perché parlare ora di quegli eventi?
Ayala. Perché in questi anni ho perso gli amici più cari, tanti colleghi con cui avevo condiviso lotte e speranze. Perché il dolore ha bisogno di un metabolismo lungo. Perché questo lavoro, per chi fece parte di quel pool, ha segnato dentro, nel profondo. Eravamo una famiglia chiamata a difendersi non solo dalla mafia, ma anche dalla politica. Gli attacchi ci vennero sferrati dai settori più opachi della politica, quelli collusi con la mafia, e anche da quella parte della magistratura che magari ci stimava, ma non ci amava. La mancata elezione di Giovanni a capo dell’Ufficio istruzione di Palermo da parte del Csm ne fu la prova chiara. Fu la magistratura a far morire Falcone già nel 1988.
Lei ha affidato i suoi ricordi, pieni di particolari inediti e di aneddoti ricchi di straordinaria umanità, al libro Chi ha paura muore ogni giorno. Quando è nata questa idea?
Per la verità, è sempre stata dentro di me. Aspettavo il momento giusto. Dovevo, in particolare, concludere la mia carriera parlamentare così da non poter essere accusato di farmi pubblicità grazie alla mia amicizia con Giovanni e Paolo. Poi, quando ho deciso di mettermi a scrivere, ci ho messo trentacinque giorni. Ho preso la mia motocicletta, una Yamaha 1300, e mi sono rifugiato sulle Dolomiti, in Val Badia. Mi sono chiuso in una piccola casa, fuori dal mondo, davanti a me solo cielo e montagne. Ho scritto di getto. Un giorno ho fatto leggere la bozza al mio amico giornalista Pietro Calabrese. Gliel’ho data un sabato sera e lunedì mattina mi ha chiamato al telefono dicendomi: «Mi hai “rubato” la domenica pomeriggio con mia moglie, ma ne valeva la pena. Lo segnalo subito all’editore». In pochi mesi ci sono già state 11 ristampe. È stato accolto bene da Nord a Sud, compresa la mia Sicilia.
Chi erano, davvero, Falcone e Borsellino?
Giovanni era molto riservato, schivo, ma aveva uno humor straordinario e un cuore grande. Paolo era più estroverso, anche nei rapporti con i colleghi. Tra di noi si era creato un rapporto speciale. Amavano prendermi in giro per la mia proverbiale calma e perché me la prendevo comoda. Per questo, mi affidarono un compito esclusivo all’interno del pool: quello di pensare. Un incarico nato quasi per scherzo ma che, in alcuni casi giudiziari, procurò delle preziose intuizioni. Giovanni e Paolo erano dei fuoriclasse. Proprio come Pelé e Maradona. Di magistrati bravi ce ne sono e ce ne saranno molti, ma di Pelé e di Maradona non sempre una generazione riesce ad averne. Sapevano che la loro vita era ad alto rischio, ma come scrisse Paolo: «È bello morire per ciò in cui si crede; chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola».
Giovanni Falcone, però, non ebbe vita facile. Per lui valse, più che mai, la frase Nemo propheta in patria.
Gli attacchi che subì, soprattutto dall’interno, furono pesantissimi. A capirlo, per dirla tutta, furono molto di più gli americani con cui condusse numerose indagini. Un amore ricambiato: a Giovanni è stata dedicata una statua, posta nell’atrio della scuola dell’Fbi in Virginia, perché tutti i futuri agenti vi passassero davanti almeno due volte al giorno. In più, il Congresso americano votò all’unanimità una risoluzione che rivendicava l’uccisione di Falcone come un delitto commesso anche ai danni degli Stati Uniti.
Nel nostro Paese, come lei denuncia, c’è qualcuno che si occupa della sottrazione dei documenti più personali delle vittime: il pc di Falcone, la borsa di Aldo Moro, solo per citare due esempi. Come può accadere?
In varie occasioni, si sono create specialissime «agenzie funebri» che, anziché badare al morto, si incaricavano di trafugare tutte le carte più direttamente riferibili alla persona scomparsa. Agiscono, di norma, a cadavere ancora caldo, con perfetta tempestività. Si tratta di documenti scomodi. Basti pensare al computer di Giovanni. Mai trovato. Alla borsa che Aldo Moro aveva con sé al momento del sequestro. Sparita pure quella. O, ancora, all’agenda rossa di Paolo, scomparsa e mai più rinvenuta. Durante il primo accesso a Villa Pajno, residenza del prefetto Dalla Chiesa, ucciso poche ore prima, non fu possibile aprire la cassaforte perché non si trovavano le chiavi. Si cercò dappertutto, invano. Due giorni dopo si scoprì che erano custodite nel cassetto dove venivano poste abitualmente, ma che quella notte, guarda caso, era risultato vuoto. Magari un giorno, se scoperti, ci diranno che tutto questo è avvenuto «nel superiore interesse dello Stato», mentre le povere vittime muoiono convinte di averne seguito un altro. Falcone diceva che «la mafia si combatte a Palermo, ma si perde a Roma».
Con Falcone e Borsellino, e con tante altre vittime della mafia, sono morti anche gli agenti di scorta. Che rapporto si crea tra voi e loro?
Il rapporto che si stabilisce è quello di una reale convivenza di fatto. Trascorrevo più ore con loro che con la mia famiglia. È un rapporto che nessuno ha voluto, non nasce da una scelta, ma da un’imposizione. Il legame che ne deriva è comunque fortissimo perché fa appello a un obiettivo comune: rimanere vivi. Si creano una grande complicità e un’intesa che fanno nascere affetto e solidarietà reciproche. Ho voluto bene a tutti quelli che hanno lavorato con me: ai più vecchi come fratelli, ai più giovani come figli. Sono stato ricambiato. Averli vicino mi ha arricchito molto. Sono la parte genuina del Paese che, specie quando si ha a che fare con tanto male, non si percepisce più. Non arrivo a dire che mi mancano perché la libertà che ho riconquistato non ha prezzo, ma continuo a sentirli accanto e non li dimentico. Loro lo sanno.
A capo di quel pool c’era Antonino Caponnetto. Come lo ricorda?
Arrivò a novembre. Era magrissimo, diafano, stanco e un po’ spaesato. Lo sguardo, però, mi piacque subito. Comunicava tre cose: intelligenza, serenità e bontà d’animo. Usava poche parole, scarne, sempre pacate. Essenziale, ma mai sbrigativo. Viveva nella caserma della Guardia di Finanza. La sua stanza era piccola e disadorna, da asceta. E Nino, in fondo, lo era. Sul suo comodino c’erano Le Confessioni di sant’Agostino e un volume di Alla ricerca del tempo perduto di Proust, le sue letture preferite. Mi piace ricordare un aneddoto. I nostri incontri quotidiani duravano due, tre ore. Ci salvava l’orario della mensa della Gdf dove Nino mangiava. Visto che chiudeva alle 21, sapevamo che la riunione non sarebbe, comunque, andata oltre e così avremmo potuto mangiare qualcosa in compagnia. Una sera Paolo lanciò un’idea: «Perché non chiediamo alla Gdf di anticipare di mezz’ora la cena così finiamo prima?». «Meglio lasciare le cose come stanno – rispose Falcone – se no Nino è capace che si presenta col panino».
Qual è l’attuale stato di salute della mafia?
Pensare di stare al suo capezzale sarebbe da imbecilli. Qualche acciacco, comunque, ce l’ha. Ai nostri tempi, come ha raccontato Andrea Camilleri, quelle cinque lettere venivano pronunciate solo dopo che gli usci di casa erano stati chiusi perché gli estranei non sentissero. Oggi la mafia sta andando verso un «imborghesimento». Ha detto Tommaso Buscetta: «Non aspettiamoci che i figli dei mafiosi imbraccino il mitra o la pistola. Oggi, questi ragazzi, vanno a scuola e all’università». C’è poi un altro aspetto che non va però sottovalutato: se garantissimo un’occupazione legale ai giovani, probabilmente la mafia farebbe più fatica a reclutare manovalanza.
Chi è Giuseppe Ayala oggi?
Sono un semplice giudice. Ho tre figli, nessuno dei quali ha seguito la mia strada. Paolo, il più grande, ha un’azienda agricola in Sicilia. Quando sono rientrato in magistratura, dopo gli anni in parlamento, mi è capitato di dover redigere una sentenza di condanna per il furto di nove galline ovaiole e un gallo. Ne è passato di tempo dal pool. Nel generale imbarazzo sono scoppiato a ridere. Ma, ne sono sicuro, non ero solo. Ho sentito Giovanni e Paolo farlo con me. A crepapelle. Ho pure la presunzione di sapere esattamente quello che mi avrebbero detto: «Finalmente fai quello per cui sei tagliato».
La scheda
Chi è
È nato a Caltanissetta il 18 maggio 1945. Dopo la laurea in giurisprudenza, conseguita all’Università di Palermo, ha esercitato la professione di pubblico ministero diventando, tra l’altro, Consigliere di Cassazione. Ayala ha avuto un ruolo di spicco nel pool anti-mafia. Dal 1992, dopo l’omicidio di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, si è impegnato in politica diventando deputato nelle file del Partito Repubblicano Italiano. In seguito a Tangentopoli (inchieste sulla corruzione dei partiti alle quali egli ha partecipato attivamente) e alla crisi del Pri, Ayala è passato ad Alleanza Democratica, confermando il seggio alla Camera dei Deputati nel 1994. Dopo la scomparsa di AD, si è schierato tra i Democratici di Sinistra, partito con il quale è stato eletto senatore nel 1996 e nel 2001. È stato sottosegretario al ministero di Grazia e Giustizia durante il governo Prodi I, incarico riconfermato anche nei successivi governi D’Alema I e II. Conclusa l’esperienza politica, è rientrato in magistratura. Attualmente è consigliere presso la Corte di Appello dell’Aquila..
Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017