Chi può dirsi davvero italiano?
Gli italici sono chiamati a scegliere un rapporto nuovo con la lingua italiana, combinando il loro essere cittadini del mondo con la parallela novità dei linguaggi che il mondo sviluppa.
28 Luglio 2010
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Philadelphia
Nella storia decennale dell’Associazione Globus et Locus che io presiedo, il filo rosso che lega tutte le esperienze, le riflessioni e le progettualità, è il glocalismo. Questo termine identifica il cambiamento epocale generato dalla globalizzazione, e che ha prodotto un intreccio indissolubile tra la dimensione globale e quella locale. In pratica non esistono luoghi che non siano in misura crescente attraversati da flussi globali di varia natura. E, per contro, non ci sono flussi globali che non siano in misura crescente declinati secondo le diverse e molteplici particolarità dei luoghi. Questo doppio processo di localizzazione dei flussi e di globalizzazione dei luoghi, è multidimensionale: riguarda non solo l’economia, ma anche l’informazione, la cultura, le istituzioni; ed è pervasivo, entra in ogni dove, riguarda in misura crescente la totalità dell’esistenza umana. Dunque si tratta veramente di una nuova fenomenologia e di una nuova cosmologia che abbiamo di fronte a noi, da ripensare in modo nuovo e adeguato.
Tale fenomeno genera nuovi problemi nella definizione e nella percezione dell’identità, che non è più un dato definito, garantito dall’esistenza di confini, unico (per la pluriappartenenza) e tutelato (dalla cittadinanza), ma è piuttosto un processo. Un processo complesso, fatto di tante relazioni, con nuove tematiche e, perciò, con nuovi contesti e nuovi linguaggi di comunicazione.
Il rapporto fra lingua e identità
Se assumiamo come vera l’ipotesi che l’identità, nel mondo glocale, sia sempre meno un dato, e sempre più un processo costruito attraverso pratiche sociali che si realizzano in spazi più numerosi ed estesi (da quelli territoriali-locali dove convivono e si intrecciano le comunità delle diverse diaspore, a quelli virtuali-globali delle reti), dobbiamo poi, naturalmente, confrontarci con i vettori e i veicoli su cui si basa il processo di acquisizione e mantenimento di un’identità. Questi vettori e veicoli sono in buona parte dei linguaggi.
Uno degli argomenti di dibattito cruciali del nostro tempo, caratterizzato dal fenomeno della globalizzazione e della glocalizzazione, è proprio quello dei rapporti tra lingua, identità e appartenenza. In un’epoca come questa, il tema della lingua assume una rilevanza tutta particolare che si intreccia con quello dell’identità e delle sue evoluzioni. Infatti, mentre in un mondo internazionale, identità civile e politica, e identità culturale concordavano e trovavano nelle lingue cosiddette «nazionali» il loro strumento di connessione e anche di affermazione, in un mondo glocalista la coincidenza tra linguaggi e territori si appanna sempre più.
La nostra convinzione, o meglio la nostra ipotesi, è che le nuove lingue del XXI secolo non siano più le lingue di «un territorio», ma che stiano nascendo nuove lingue trasversali, ibride, che attraversano più territori, fisici e insieme virtuali, come Internet, i quali sfuggono in misura crescente alle politiche linguistiche degli Stati e delle istituzioni territoriali. In questo contesto, i dialetti non vanno visti come il superamento della lingua formale, ma come la scelta di un rapporto privilegiato con le radici della propria cultura e del territorio. In sostanza, sempre più lingue si organizzano «per funzioni»: la scienza, i mercati, la finanza, il volontariato, la politica e il diritto trans-nazionali, piuttosto che «per territori». Lingue «di reti», figlie della mobilità delle cose, delle persone e dei segni. In altre parole dell’incontro, che segna il nostro secolo, tra globalizzazione funzionale e localismo identitario.
La funzione della lingua si modifica e tende a spostarsi su due livelli: a livello glocal implicando l’esigenza di lingue globali, a livello local tramite la scoperta di nuovi linguaggi che chiameremo «vernacolari» perché simili ma non uguali ai dialetti, i quali pure vengono riscoperti. Inoltre, funzioni, reti e appartenenze si intrecciano con modalità sempre più complesse: si pensi al Web e a quanto sta avvenendo in materia di linguaggi e di lingue funzionali proprie dei circuiti comunicativi animati dalle grandi reti funzionali: dagli sms alla musica, al cibo, al turismo, allo sport, alle diverse tecnologie.
All’interno dello stesso mondo italiano, i linguaggi di comunicazione non sono solo l’italiano. Come risulta evidente nel caso del web o del vocabolario scientifico, non solo la lingua non è necessariamente l’italiano, ma neanche la moneta o altri metalinguaggi (l’arte per esempio) sono esclusivamente o prevalentemente italiani. Una molteplicità di livelli espressivi, da quello nazionale a quelli regionali o locali italiani, da quelli nazionali o sub-nazionali locali a quelli di imitazione globalistica, vengono volutamente adottati insieme.
Valori condivisi e appartenenze diverse
In questo contesto si inserisce la riflessione sui «popoli glocali», non più intesi come popoli nazionali, ma come il risultato di appartenenze plurime. Questa premessa si ricollega al pensiero dei grandi teorici della post-modernità glocal: Bauman, Beck, Castells, e approda alle elaborazioni sull’identità del Premio Nobel, Amartya Sen, che nel suo libro Identità e violenza propone di riconoscere che le identità nel mondo globalizzato sono plurime, e che oggi chiunque può essere arricchito da una serie di pluriappartenenze, a condizione che le accetti come proprie.
È da questo tipo di orizzonte sociale, politico e storico che l’Associazione Globus et Locus analizza il fenomeno dei «nuovi popoli glocali», e fra di essi l’affermazione, a livello globale, degli italici. Globus et Locus ha proposto una diversa lettura delle nuove identità collettive, fra cui quella italica. Quella connessa all’italicità è in sostanza la proposta di una nuova idea di demos.
Con il termine «italici» e «italicità» noi indichiamo un’identità e un’appartenenza non di tipo nazionale, etnico-linguistica (le persone di origine italiana che parlano la lingua italiana) e giuridico-istituzionale (le persone che hanno la cittadinanza italiana), ma essenzialmente culturale.
Gli italici non sono soltanto i cittadini italiani in Italia e fuori d’Italia, ma anche i discendenti degli italiani, gli italofoni e gli italofili: una comunità globale stimata attorno ai 250 milioni di persone nel mondo, alle quali la globalizzazione conferisce significati e potenzialità nuove. Popoli in qualche misura post-nazionali, segnati da identità, appartenenze e cittadinanze declinate al plurale, le cui reti transnazionali interconnettono i continenti e i Paesi, attraverso i territori e i loro confini sempre più permeabili.
Se l’italicità è riconoscibile in un comune modo di sentire, una condivisione di atteggiamenti e comportamenti, un modo di fare business, e in definitiva una modalità del tutto particolare e riconoscibile di essere comunità nei diversi ambienti in cui si è integrata, allora se ne può dedurre che l’italicità è collegata, nella sua essenza, al mondo glocal piuttosto che a quello inter-nazionale. Perciò l’identità e l’appartenenza non possono essere espresse semplicemente attraverso la lingua come tradizionalmente noi la definiamo, ma anche da un insieme di altri fattori complessi che potremmo denominare genericamente «le emozioni» e i «valori».
Ciò che aggrega e accomuna il mondo italico sono: valori intrinseci o acquisiti, interessi presenti, richiami che l’Italia di oggi e altri territori italici come il Ticino, divenuti grandi realtà economiche ma in misura crescente anche culturali, hanno ripreso a sentire come propri e a voler rafforzare. Si tratta di fattori aggreganti di tipo vario e complesso, tutti prevalentemente funzionali, senza ambiti rigidi e permanenti: né di tipo fisico (luogo, etnia), né di tipo formale (adesione, continuità, vincoli), né di tipo morale (impegno, lealtà) e che sul piano temporale non aspirano a requisiti di permanenza.
L’idea di popolo che il concetto di italicità evoca, non è infatti quella di italianità; è un’idea diversa che svincola l’appartenenza a un territorio politicamente definito e che, in quanto tale, presuppone l’assunzione di riferimenti identitari nuovi, diversi da quelli proposti dal paradigma statuale-nazionale.
Da sempre il discorso identitario è cambiato al variare delle diverse esperienze dei popoli, generando conseguenti mutamenti anche sui loro linguaggi. Ci sono stati, e ci sono, popoli nei quali la mobilità si è manifestata all’interno di contesti geografici in cui eventi di carattere politico-militare garantivano un’unità cosmopolita, per esempio gli anglosassoni o gli ispanici. Ve ne sono altri per i quali la mobilità è un elemento intrinseco alla loro cultura e alla loro storia, come nel caso degli ebrei. Infine, ve ne sono altri, come gli italiani, che nel corso della loro lunga vicenda storica hanno attraversato fasi diverse, sviluppatesi lungo la storia romana, quella cristiana, quella rinascimentale moderna e post-moderna, e da ultimo quella dell’unificazione.
Dal punto di vista linguistico definiamo dunque italici anche coloro che non parlano più l’italiano, come molti emigrati di seconda e terza generazione, o che in realtà non l’hanno mai veramente parlato perché praticavano molto spesso solo il loro dialetto. Gli italici parlano spesso un italiano ibridato, scarsamente conforme ai canoni tradizionali, e praticano il plurilinguismo.
* Presidente dell’Associazione Globus et Locus. Dalla relazione «Languages, Cultures, Identities of Italy in the World», tenuta all’AISLLI and Center for Italian Studies University of Pennsylvania, USA.
Nella storia decennale dell’Associazione Globus et Locus che io presiedo, il filo rosso che lega tutte le esperienze, le riflessioni e le progettualità, è il glocalismo. Questo termine identifica il cambiamento epocale generato dalla globalizzazione, e che ha prodotto un intreccio indissolubile tra la dimensione globale e quella locale. In pratica non esistono luoghi che non siano in misura crescente attraversati da flussi globali di varia natura. E, per contro, non ci sono flussi globali che non siano in misura crescente declinati secondo le diverse e molteplici particolarità dei luoghi. Questo doppio processo di localizzazione dei flussi e di globalizzazione dei luoghi, è multidimensionale: riguarda non solo l’economia, ma anche l’informazione, la cultura, le istituzioni; ed è pervasivo, entra in ogni dove, riguarda in misura crescente la totalità dell’esistenza umana. Dunque si tratta veramente di una nuova fenomenologia e di una nuova cosmologia che abbiamo di fronte a noi, da ripensare in modo nuovo e adeguato.
Tale fenomeno genera nuovi problemi nella definizione e nella percezione dell’identità, che non è più un dato definito, garantito dall’esistenza di confini, unico (per la pluriappartenenza) e tutelato (dalla cittadinanza), ma è piuttosto un processo. Un processo complesso, fatto di tante relazioni, con nuove tematiche e, perciò, con nuovi contesti e nuovi linguaggi di comunicazione.
Il rapporto fra lingua e identità
Se assumiamo come vera l’ipotesi che l’identità, nel mondo glocale, sia sempre meno un dato, e sempre più un processo costruito attraverso pratiche sociali che si realizzano in spazi più numerosi ed estesi (da quelli territoriali-locali dove convivono e si intrecciano le comunità delle diverse diaspore, a quelli virtuali-globali delle reti), dobbiamo poi, naturalmente, confrontarci con i vettori e i veicoli su cui si basa il processo di acquisizione e mantenimento di un’identità. Questi vettori e veicoli sono in buona parte dei linguaggi.
Uno degli argomenti di dibattito cruciali del nostro tempo, caratterizzato dal fenomeno della globalizzazione e della glocalizzazione, è proprio quello dei rapporti tra lingua, identità e appartenenza. In un’epoca come questa, il tema della lingua assume una rilevanza tutta particolare che si intreccia con quello dell’identità e delle sue evoluzioni. Infatti, mentre in un mondo internazionale, identità civile e politica, e identità culturale concordavano e trovavano nelle lingue cosiddette «nazionali» il loro strumento di connessione e anche di affermazione, in un mondo glocalista la coincidenza tra linguaggi e territori si appanna sempre più.
La nostra convinzione, o meglio la nostra ipotesi, è che le nuove lingue del XXI secolo non siano più le lingue di «un territorio», ma che stiano nascendo nuove lingue trasversali, ibride, che attraversano più territori, fisici e insieme virtuali, come Internet, i quali sfuggono in misura crescente alle politiche linguistiche degli Stati e delle istituzioni territoriali. In questo contesto, i dialetti non vanno visti come il superamento della lingua formale, ma come la scelta di un rapporto privilegiato con le radici della propria cultura e del territorio. In sostanza, sempre più lingue si organizzano «per funzioni»: la scienza, i mercati, la finanza, il volontariato, la politica e il diritto trans-nazionali, piuttosto che «per territori». Lingue «di reti», figlie della mobilità delle cose, delle persone e dei segni. In altre parole dell’incontro, che segna il nostro secolo, tra globalizzazione funzionale e localismo identitario.
La funzione della lingua si modifica e tende a spostarsi su due livelli: a livello glocal implicando l’esigenza di lingue globali, a livello local tramite la scoperta di nuovi linguaggi che chiameremo «vernacolari» perché simili ma non uguali ai dialetti, i quali pure vengono riscoperti. Inoltre, funzioni, reti e appartenenze si intrecciano con modalità sempre più complesse: si pensi al Web e a quanto sta avvenendo in materia di linguaggi e di lingue funzionali proprie dei circuiti comunicativi animati dalle grandi reti funzionali: dagli sms alla musica, al cibo, al turismo, allo sport, alle diverse tecnologie.
All’interno dello stesso mondo italiano, i linguaggi di comunicazione non sono solo l’italiano. Come risulta evidente nel caso del web o del vocabolario scientifico, non solo la lingua non è necessariamente l’italiano, ma neanche la moneta o altri metalinguaggi (l’arte per esempio) sono esclusivamente o prevalentemente italiani. Una molteplicità di livelli espressivi, da quello nazionale a quelli regionali o locali italiani, da quelli nazionali o sub-nazionali locali a quelli di imitazione globalistica, vengono volutamente adottati insieme.
Valori condivisi e appartenenze diverse
In questo contesto si inserisce la riflessione sui «popoli glocali», non più intesi come popoli nazionali, ma come il risultato di appartenenze plurime. Questa premessa si ricollega al pensiero dei grandi teorici della post-modernità glocal: Bauman, Beck, Castells, e approda alle elaborazioni sull’identità del Premio Nobel, Amartya Sen, che nel suo libro Identità e violenza propone di riconoscere che le identità nel mondo globalizzato sono plurime, e che oggi chiunque può essere arricchito da una serie di pluriappartenenze, a condizione che le accetti come proprie.
È da questo tipo di orizzonte sociale, politico e storico che l’Associazione Globus et Locus analizza il fenomeno dei «nuovi popoli glocali», e fra di essi l’affermazione, a livello globale, degli italici. Globus et Locus ha proposto una diversa lettura delle nuove identità collettive, fra cui quella italica. Quella connessa all’italicità è in sostanza la proposta di una nuova idea di demos.
Con il termine «italici» e «italicità» noi indichiamo un’identità e un’appartenenza non di tipo nazionale, etnico-linguistica (le persone di origine italiana che parlano la lingua italiana) e giuridico-istituzionale (le persone che hanno la cittadinanza italiana), ma essenzialmente culturale.
Gli italici non sono soltanto i cittadini italiani in Italia e fuori d’Italia, ma anche i discendenti degli italiani, gli italofoni e gli italofili: una comunità globale stimata attorno ai 250 milioni di persone nel mondo, alle quali la globalizzazione conferisce significati e potenzialità nuove. Popoli in qualche misura post-nazionali, segnati da identità, appartenenze e cittadinanze declinate al plurale, le cui reti transnazionali interconnettono i continenti e i Paesi, attraverso i territori e i loro confini sempre più permeabili.
Se l’italicità è riconoscibile in un comune modo di sentire, una condivisione di atteggiamenti e comportamenti, un modo di fare business, e in definitiva una modalità del tutto particolare e riconoscibile di essere comunità nei diversi ambienti in cui si è integrata, allora se ne può dedurre che l’italicità è collegata, nella sua essenza, al mondo glocal piuttosto che a quello inter-nazionale. Perciò l’identità e l’appartenenza non possono essere espresse semplicemente attraverso la lingua come tradizionalmente noi la definiamo, ma anche da un insieme di altri fattori complessi che potremmo denominare genericamente «le emozioni» e i «valori».
Ciò che aggrega e accomuna il mondo italico sono: valori intrinseci o acquisiti, interessi presenti, richiami che l’Italia di oggi e altri territori italici come il Ticino, divenuti grandi realtà economiche ma in misura crescente anche culturali, hanno ripreso a sentire come propri e a voler rafforzare. Si tratta di fattori aggreganti di tipo vario e complesso, tutti prevalentemente funzionali, senza ambiti rigidi e permanenti: né di tipo fisico (luogo, etnia), né di tipo formale (adesione, continuità, vincoli), né di tipo morale (impegno, lealtà) e che sul piano temporale non aspirano a requisiti di permanenza.
L’idea di popolo che il concetto di italicità evoca, non è infatti quella di italianità; è un’idea diversa che svincola l’appartenenza a un territorio politicamente definito e che, in quanto tale, presuppone l’assunzione di riferimenti identitari nuovi, diversi da quelli proposti dal paradigma statuale-nazionale.
Da sempre il discorso identitario è cambiato al variare delle diverse esperienze dei popoli, generando conseguenti mutamenti anche sui loro linguaggi. Ci sono stati, e ci sono, popoli nei quali la mobilità si è manifestata all’interno di contesti geografici in cui eventi di carattere politico-militare garantivano un’unità cosmopolita, per esempio gli anglosassoni o gli ispanici. Ve ne sono altri per i quali la mobilità è un elemento intrinseco alla loro cultura e alla loro storia, come nel caso degli ebrei. Infine, ve ne sono altri, come gli italiani, che nel corso della loro lunga vicenda storica hanno attraversato fasi diverse, sviluppatesi lungo la storia romana, quella cristiana, quella rinascimentale moderna e post-moderna, e da ultimo quella dell’unificazione.
Dal punto di vista linguistico definiamo dunque italici anche coloro che non parlano più l’italiano, come molti emigrati di seconda e terza generazione, o che in realtà non l’hanno mai veramente parlato perché praticavano molto spesso solo il loro dialetto. Gli italici parlano spesso un italiano ibridato, scarsamente conforme ai canoni tradizionali, e praticano il plurilinguismo.
* Presidente dell’Associazione Globus et Locus. Dalla relazione «Languages, Cultures, Identities of Italy in the World», tenuta all’AISLLI and Center for Italian Studies University of Pennsylvania, USA.
Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017