Chi si esalta sarà umiliato

Il senso del proprio peccato
08 Marzo 2001 | di


   
   
  LA PARABOLA / IL FARISEO E IL PUBBLICANO      

«D                 isse ancora questa parabola per alcuni che presumevano di essere giusti e disprezzavano gli altri: 'Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l' altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: 'O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo'. Il pubblicano invece,  fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: 'O Dio, abbi pietà  di me peccatore'. Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell' altro, perché chi si esalta sarà  umiliato e chi si umilia sarà  esaltato'». (Lc 18,9-14)


   
   

   

    Il peccato dentro di noi lo constatiamo ogni giorno: vorremmo fare il bene e ci troviamo a compiere il male che non vorremmo.            Come dobbiamo pregare? Non solo con una fiducia «sfacciata» e con un' insistenza che non si arrende (vedi la parabola del mese precedente) ma con la convinzione di aver bisogno di essere salvati. Noi crediamo di essere «giusti», perché facciamo qualche opera buona. In realtà , tutta la nostra vita, immersa in un mondo di ingiustizia e di disordine, ha bisogno di essere salvata, perché siamo tutti   peccatori.

 

 
   
Q                        uesta è una parabola tremenda. Capisci perché sta scritto che la Parola è una spada a doppio taglio (Eb 4,12). Gesù è stato un provocatore, e questo passo è uno dei record in materia: la più pericolosa delle parabole. Come una trappola: la leggi, ti senti coinvolto, vai avanti e alla fine applaudi convinto, sei contento che la cosa finisca così, ti pare che Gesù abbia davvero sistemato quel fariseo presuntuoso e superbo; ti senti vicino al pubblicano, lo approvi, vorresti stringergli la mano e in fin dei conti ti trovi - come dire - a stringerti la mano da solo, perché ringrazi Gesù di aver messo a posto quelli che somigliano al fariseo così antipatico e di aver manifestato la preferenza Sua per chi somiglia al pubblicano così simpatico e, in ultima analisi... così vicino a te.
          È scattata la trappola: simpatizzando col pubblicano, mi trasformo nel fariseo in persona. Capitò una volta anche a David (2Sam 11-12) quando il saggio Natan gli raccontò la storia del  pastore ricco e prepotente e del povero che aveva una pecorella sola... Lui era il re di Israele, e aveva appena fatto uccidere il povero Uria per prendergli la moglie, e Natan parlava proprio per questo. David non capì, si commosse al racconto e si indignò, acceso d' ira contro l' ingiustizia...
   E Natan dovette buttargli la verità  in faccia: «Quell' uomo sei tu!». Come viene bene, a quel punto del racconto, il «Miserere  »! Guarda caso: sono proprio le parole del pubblicano in questa parabola.
     

  Eccoci al punto.   Perciò la parabola va letta lasciando da parte la persona del pubblicano come tale: l' attenzione va tutta puntata su Gesù che parla del Padre e sul fariseo impettito davanti alla maestà  di Dio,       ridicolo, ma tremendamente capace di prendersi sul serio...
                    Dio misericordioso e pieno di tenerezza. Gesù, e prima anche i Profeti, ce lo raccontano capace di perdonare tutto, salvo l' idolatria in atto, cioè la sua sostituzione con un idolo in cui l' uomo adora se stesso, i suoi capricci, i suoi bisogni, le sue fissazioni e le sue manie. Sta, infatti, scritto: «Non avrai altro Dio contrapposto a me». È il fondamento di tutti i comandi del decalogo. Ed è quello che noi, farisei incalliti, dimentichiamo continuamente quando giudichiamo noi stessi e gli altri, leggiamo le nostre virtù decantandole con parole e azioni e leggiamo i vizi altrui divulgandoli innanzitutto nel nostro cuore, per prenderne le distanze, per sentirci diversi, per ringraziarci da soli di essere chi siamo, per chiedere, in fin dei conti, anche a Dio di ringraziarci perché ci siamo realizzati come siamo stati capaci di fare.
             Si dice sempre che occorre avere il senso del peccato. Ma spesso si dimentica un aggettivo: «nostro». Avere il senso del peccato degli altri è troppo facile. Per questo ci pare facilissimo riconoscerci peccatori in astratto, ma ci offendiamo se poi qualcuno - voce di prossimo che prende le veci di Dio - ci ricorda, con più o meno dettagli, il nome e cognome di qualche nostro peccato.

     

   Tutti peccatori, siamo.             Ma è difficile riconoscerci tali, nei fatti, con circostanza, data, luogo, e magari aggravanti. Una delle aggravanti - sia chiaro - spesso si chiama «a fin di bene»: siamo capacissimi, noi, soprattutto noi di Chiesa, di peccare di superbia e magari di pretendere che gli altri la chiamino umiltà , perché - diciamo - l' umiltà  è verità .
     E non è solo un discorso personale. Va fatto anche sul piano comunitario. Vogliamo due esempi, per mordere un po' l' attualità , come richiesto a questo contributo? Li vogliamo provocatori, per corrispondere al tono di Gesù in questa parabola?
     Eccoli: sull' «Osservatore Romano», nel giorno dell' ottantesimo compleanno del Papa, ripercorrendo i grandi giorni del 2000, tra tanti eventi, con foto, commenti, titoli e punti esclamativi, non si è trovata una riga per ricordare giorno, gesti e parole del grande «mea culpa  ». Possibile che se ne siano tutti così presto dimenticati? O il ricordo del «Miserere   » così bene pronunciato dal Papa dà  fastidio? Qui la parabola del fariseo e del pubblicano morde duro&
Ancora: il recente documento «  Dominus Jesus» è un magnifico testo, lucido,       calibrato, ammirevole, virgole e    punti al posto giusto,       toni appropriati per un discorso a vescovi, teologi, preti, esperti       di ecumenismo. Autorevole, e con l' avallo ripetuto ed esplicito del       Santo Padre: è quanto di più serio e convincente ci sia, in materia.       Eppure una certa lettura che ne ha fatto tanta parte dell' opinione       pubblica - «Solo la Chiesa salva, solo chi è cattolico va in       paradiso, solo chi viene a Roma si salva, solo Roma salva, solo il Papa       salva, solo il vescovo salva, solo il mio parroco mi salva, solo io       mi salvo... » - è davvero rischiosa, e facile da verificarsi in       chi legge senza essere «santo», nel senso dei Santi veri, come Paolo,       cosciente per sé del suo peccato senza scuse e senza maschere, come       Francesco di Assisi, come Filippo Neri, come Teresa di Lisieux, come       Giovanni XXIII.
           

     

Il rischio di non aver       capito nulla.     Siamo Chiesa santa, certo, per quanto dipende dall' alto, ma anche peccatrice, per quanto dipende da noi. Chiesa salvata e insieme traditrice, come Pietro, Chiesa che canta il  Te Deum e che insieme celebra il suo «mea culpa        » sul serio, che ringrazia il Padre dei doni della Parola, della Redenzione, della Croce e della Resurrezione e insieme ha chiara la coscienza dei suoi peccati e mette il bigliettino che pesa come i secoli di tradimento e sangue nella fessura del Muro del Pianto...
               Eccolo, allora, più che mai di fronte a questa parabola, il rischio di non aver capito nulla perché pensiamo di aver capito tutto. Ciascuno di noi farà  bene, così come è, a leggere questa parabola in due modi e con due precauzioni. Se la legge da solo si senta insieme, alla pari, pubblicano e fariseo. Se la legge con altri, soprattutto con quelli che ci sono più vicini, a casa, in chiesa, sul lavoro, se la faccia leggere da loro, e ascolti con pazienza e umiltà  vera le applicazioni che essi ne farebbero alla nostra vita& Una lettura e un ascolto reciproco. Poi ne riparleremo meglio...

                                                                                                                                                          

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017