Cimiteri. Ricordati di me
«Sepoltura e tomba – scrive fratel Enzo Bianchi, fondatore della Comunità di Bose – sono un rito “religioso”, vale a dire che “rilega”, che unisce l’individuo alla comunità umana, segni necessari per la vita più che per la morte».
Ma non sempre la terra fu lieve. A Merna-Miren, paesino al confine tra Italia e Slovenia, subito dopo la fine del secondo conflitto mondiale, tirarono su una sorta di muro con tanto di filo spinato che, per anni, divise a metà pure le lapidi.
Sull’isola di Santo Stefano, nel Mar Tirreno, i detenuti erano condannati all’ergastolo pure in morte, seppelliti in un cimitero inaccessibile ai parenti, dimenticato da tutto e da tutti, dove mai nessuno ha pulito le loro tombe o deposto un fiore.
Oggi, in questi luoghi ormai simbolo, si cerca di ricucire le memorie divise, restituendo ai morti la pietà negata e ai vivi la dignità di luoghi mai più separati da muri.
Merna, il cimitero diviso Il piccolo gruppo di ufficiali angloamericani arriva una mattina di settembre. In mano secchi di calce bianca e pennelli. Ha l’incarico di tracciare il confine tra Italia e Jugoslavia, stabilito pochi mesi prima dal Trattato di Parigi (1947).
La lunga linea passa come una mannaia in mezzo a montagne, stalle, orti, case, decisa sulle mappe senza aver mai visto i luoghi. Divide a metà paesi, storie, vite. Taglia in diagonale pure un piccolo rettangolo di terra tra le quote 49 e 54: è il cimitero di Merna, oggi Miren, in Slovenia. Un paesino sul Carso, alle porte di Gorizia, lungo il Vallone, il cui nome significa «tranquillo, quieto, raccolto» (mir in sloveno vuole dire pace).
Ma per anni, qui, non ebbero pace i vivi, costretti a ricevere la chiamata al servizio militare sia da Belgrado che da Roma, e, nemmeno, i morti, sepolti di là pur avendo i parenti di qua. Sulla linea tirata alla meno peggio, i soldati piantano i cippi confinari e un interminabile cordone di filo spinato.
Così, nel luogo in cui la comunità dei morti incontra quella dei vivi, la calce passa sopra a storie, memorie, pietà. Come se i morti fossero uccisi ancora, mentre ai vivi è persino negato il gesto di pietà di piangere sulla tomba del proprio caro.
Cirila Pregelj sa bene tutto questo. A Miren è nata, cresciuta, si è sposata e ha avuto dei figli. Oggi ha 78 anni. Ne aveva 6 quando il borgo fu tagliato fuori dalle sue lapidi. «Ero una bambina – racconta con la voce che fa tornare il passato come una pagina ancora viva –, ma ricordo tutto. Mia madre mi portava al camposanto per pregare sulla tomba del nonno. Si chiamava Carlo. Quando piantarono il filo spinato non fu più possibile. La sua fu una delle tombe divise a metà: di qua la testa senza corpo, di là il corpo senza testa. Come a mio nonno, capitò a molti altri qui a Miren. Siamo tornati davanti alle lapidi dei nostri defunti, non più separate sulla terra e dai loro cari, solo dopo tante sofferenze».
Passeranno ventotto anni prima che venga fissata la linea di demarcazione tra Italia e Jugoslavia e il cimitero finisca sotto quest’ultima con il Trattato di Osimo del 1975. Un anno prima, nel 1974, era stato tolto il filo spinato.
Oggi, dall’altra parte del confine, si è cercato di ricucire le memorie divise restituendo la pietà negata. Una striscia di mattonelle attraversa in diagonale le tombe proprio lungo il vecchio confine. Sopra vi sono impresse due date: 1947 e 1974 e tre parole: Spomni se name, «Ricordati di me».
Nel cimitero di Miren è stato realizzato un museo. «È un piccolo spazio, ma unico nel suo genere – spiega il sindaco Mauricij Humar –. Lo volle il mio predecessore nel 2012. Noi continuiamo l’impegno di “fare memoria” per restituire alle nuove generazioni spunti per un dialogo e una convivenza possibili oltre i muri fisici e non solo. Il museo, non a caso, si chiama Spomni se name. Come spiega un cartello bilingue all’ingresso, è dedicato “a coloro i quali soffrirono a causa del confine, a tutti quelli a cui questo fu da impedimento a visitare le tombe, a quelli per cui il confine rappresentò la strada verso lo sconosciuto, e a tutte le persone che nell’oltrepassare o proteggere il confine persero la speranza, la libertà o addirittura la vita”. Fare memoria è un dovere di tutti».
Santo Stefano, fine pena mai «Uccisero» i morti anche in questo isolotto, 28 ettari di terra, appena un miglio da Ventotene (LT) eppure fuori dal mondo. L’approdo, come ci racconta Nicola Valentino («io stesso all’ergastolo per ventotto anni»), non è facile.
Il vero significato di questo luogo non è quello di un sito di archeologia penitenziaria. Ciò che fu davvero Santo Stefano lo si trova all’esterno del carcere. Appena sopra la scogliera c’è il piccolo cimitero degli ergastolani. Morti che non poterono essere abbracciati né da vivi e neppure da defunti. Vietato seppellirli pure nel cimitero pubblico di Ventotene, dove almeno qualche parente avrebbe potuto, di tanto in tanto, portare un fiore.
Si intravvedono delle croci. Tutte senza nome. Qui, grazie a Salvatore, volontario di un’associazione di Ventotene e ad alcuni esponenti dell’associazione «Liberarsi», quel fazzoletto di terra a picco sul mare, privato dalle sterpaglie che si erano mangiate anche le tombe, è ripulito e restituito a un minimo decoro.
E nasce l’iniziativa «Porta un fiore per l’abolizione dell’ergastolo». È lo stesso Valentino a raccontarci la sua prima volta in questo luogo: «Era il 2011. Al cimitero arrivammo seguendo un viottolo che porta al cospetto di un arco. Varcata questa soglia vedemmo poggiato, su un blocco di pietra, un piccolo portafiori vuoto, che anticipava alcune file di tombe, ricoperte da erbacce, con croci in legno senza nome, quelle originarie erano bianche. In fondo al piccolo cimitero, scorgemmo quel che restava di una vecchia cappella. Il cimitero era in completo abbandono. Per anni, per fortuna, se n’è preso cura Salvatore che ha scelto di vivere un po’ come un eremita a custodia di quel carcere ormai in disuso. Fu lui a contornare le singole tombe, e a mettervi delle croci di legno.
Prima di arrivare a Santo Stefano, approdammo a Ventotene, dove ci recammo da una fioraia per comprare delle piantine di gerani da interrare vicino alle tombe. La fioraia ci raccontò che, fino a qualche anno prima, durante la festa della santa patrona dell’isola, alcuni ventotenesi, insieme al prete della parrocchia locale, si erano recati a portare fiori e preghiere al cimitero degli ergastolani».
L’articolo completo è pubblicato sul numero di novembre 2019 del Messaggero di sant’Antonio. Leggilo nella versione digitale della rivista, che puoi provare gratuitamente.