Ciò che la coscienza teme e la preghiera non osa sperare

Che cosa significa davvero credere in Dio? Il cristiano è colui che pratica la giustizia, ama la misericordia e cammina umilmente con Dio, facendosi strumento di pace e veicolo d’amore.
03 Gennaio 2014 | di

Da qualche tempo chiudo la giornata pregando così: «Perdona, Signore, ciò che la coscienza teme e aggiungi ciò che la preghiera non osa sperare». Sì, perché temo la guerra e ho paura di non essere più capace di promuovere la pace. Temo di diventare, col mio silenzio e con l’omertà, complice della «cultura dello scarto» in uno scenario mondiale di povertà e sottosviluppo, ingiustizia e criminalità, conflitti e migrazioni. Temo anche di diventare un vecchio fifone, spaventato dalle malattie, come anche dagli stranieri. E ancora, temo di non credere in Dio nel modo giusto.

Ma qual è il modo giusto? La risposta viene dalla Bibbia, in cui il Signore elenca al fedele la strada da seguire: pratica la giustizia, ama la misericordia e cammina umilmente con Dio. All’Altissimo io chiedo misericordia; lo supplico di farmi sperimentare la gioia di essere fratello di tutti. Da giovane suonavo e cantavo: «Signore fa’ di me uno strumento della tua pace. Dov’è odio, che io porti l’amore». E a questo proposito, mi viene in mente una famiglia di Padova i cui componenti, la sera, prima di coricarsi, si scambiano un bacio e si augurano la buona notte con queste parole: «Pace, mamma!», «Pace, Giovanni», «Sara, pace!». Mi ricordano un detto che suona più o meno così: «La pace nasce sulle ginocchia delle madri».
 
Memorie di un soldato
Di recente mi è capitata tra le mani una lettera che mi ha molto stupito. Era stata scritta parecchio tempo fa da un giovane militare di leva alla propria madre: «Mamma, oggi, mi hanno insegnato a sparare. L’obiettivo era un oggetto, ma dovevamo mirarlo come fosse un nemico. Tu mi hai insegnato a non avere nemici. Quindi… alla mia obiezione il caporale istruttore ha ingiunto: “Non puoi (tirarti indietro, ndr). Lo impone l’amor di patria”. Ho meditato di fuggire all’estero. Non voglio imparare a far la guerra. L’amor di patria non può comportare scuola di violenza. Che devo fare? So che qualcuno dei miei amici della Gi.fra. (Gioventù Francescana) è andato a studiare in America, in attesa che una legge, in Italia, renda facoltativo il servizio militare. Scappo anch’io?» Firmato: «Marco».

All’epoca in cui l’autore della missiva scriveva, il servizio militare era una realtà con cui un po’ tutti i giovani, prima o dopo, dovevano confrontarsi. Ma ormai in Italia non vige più l’obbligo di leva, e questa – a mio avviso – è una vera conquista civile. In compenso, però, oggi si fanno avanti il professionismo militare e la forza delle armi, quali garanzie di legittima difesa armata a servizio della pace.

Nel suo Messaggio diffuso in occasione della 47ª Giornata mondiale per la pace (1° gennaio) papa Francesco afferma che la garanzia di una convivenza pacifica tra i popoli è frutto dell’esperienza di fraternità. E quest’ultima, a sua volta, può contare su una «sorella» molto capace, per fermare le armi di guerra: la preghiera. Non a caso lo scorso 7 settembre il vescovo di Roma ha proposto al mondo intero una giornata di digiuno, di preghiere comunitarie e di riflessione sul valore della pace, per far cadere le armi di chi prometteva al popolo siriano, e indirettamente a tutto il Medio Oriente, di portare la pace con la guerra, invadendo con la forza la Siria.

Preghiera significa fiducia in Dio, un concetto che quel sabato di settembre dello scorso anno è arrivato forte e chiaro a uomini e donne monoteisti e politeisti, a ebrei e cristiani, buddisti, musulmani e perfino agli atei, riu­niti in piazza San Pietro in nome della pace.
 
Uniti per natura
«La fraternità è una dote che ogni uomo e donna reca con sé in quanto essere umano, figlio di uno stesso Padre» si legge nel Messaggio, intitolato appunto Fraternità, fondamento e via per la pace, diffuso da papa Francesco in occasione della 47ª Giornata mondiale per la pace. Per comprendere fino in fondo queste parole, però, bisogna andare al concetto di benessere applicato alla realtà quotidiana. «La cultura del benessere fa perdere il senso della responsabilità e della relazione fraterna – continua infatti il Pontefice –. Gli altri, anziché nostri simili, appaiono antagonisti o nemici, e sono spesso “cosificati”». Lo star bene, dunque, per il Pontefice, fa sì che «i poveri e i bisognosi siano considerati un “fardello”, un impedimento allo sviluppo. Tutt’al più sono oggetto di aiuto assistenzialistico o compassionevole. Non sono visti cioè come fratelli, chiamati a condividere i doni del creato, i beni del progresso e della cultura, a partecipare alla stessa mensa della vita in pienezza, ad essere protagonisti dello sviluppo integrale e inclusivo».

Ciò premesso, dovremmo dunque rassegnarci alla lotta di classe, come destino di generazione in generazione, e guardare alla fraternità dei popoli come a un’utopia? Siamo proprio sicuri che – come suggerisce il proverbio «Fratelli coltelli» –, la storia dell’uomo sia per natura storia di conflitti? È giusto convincersi che non si può fermare la mano di Caino e rassegnarsi alla morte perpetua di Abele, nonché al sacrificio dei buoni? Sappiamo che Caino avrebbe preferito non avere un fratello, specie uno troppo buono e amato da Dio come Abele.

La storia viva degli uomini inizia, così, con una tragedia domestica che, qualche anno fa, ho rivisitato nella pièce teatrale Maria Benedetta Oliva, angelo di Caino (regia di Filippo Crispo e musiche di Giulio Andreetta). Un fratello ammazza suo fratello. E Dio lo castiga facendolo camminare per il mondo, inquieto ed emarginato. Ma non in eterno. Il Signore misericordioso aggiunge, infatti, alla punizione ciò che la preghiera non osa sperare: assegna a Caino un angelo di nome Maria Benedetta Oliva, perché lo accompagni in un percorso di redenzione.

Passo dopo passo l’assassino di Abele – simbolo della violenza fraterna – impara ad accettare gli altri, partecipando alle cene a base di pane e acqua fresca, allestite da Maria. Proprio come Dio, anche la donna crede fermamente nella redenzione di Caino e, così, lo incoraggia affinché impari a controllare l’istinto di dominio e di sopraffazione. Una sfida che, al termine dello spettacolo, si riallaccerà anacronisticamente all’episodio della nascita di Cristo, trovando in esso lieto fine e piena realizzazione.
 
Nomadelfia, scuola di vita
Tornando a papa Francesco e al suo Messaggio legato alla 47ª Giornata mondiale per la pace, credo che – nel comporre quelle riflessioni – il pontefice abbia tenuto presente il «fenomeno Nomadelfia» (già trattato in questa rivista, nel numero di luglio-agosto 2013).

Colgo l’occasione per un’altra digressione, che mi fa tornare sull’argomento riportando qualche stralcio di un articolo che il giornalista Dino Buzzati scrisse nel 1965 per il «Corriere della Sera», dopo una illuminante visita alla comunità cattolica fondata da don Zeno Saltini nei pressi di Grosseto. Buzzati – che era non credente – si domandava: «Possibile che degli uomini di carne ed ossa come noi abbiano potuto realizzare il Vangelo in piena letizia? (...) Siamo a dodici chilometri da Grosseto… dodici, o 12 miliardi di chilometri? Vien fatto di chiedersi. Tanto ci si sente lontani dal solito mondo. Perché qui a Nomadelfia avvengono cose incredibili. Il sogno dei santi è qui diventato realtà quotidiana. Chi arriva per la prima volta ha il dubbio che sia tutta una montatura, retorica, belle parole, illusione. Poi guarda, ascolta, domanda e resta “imbesuito”. È un fenomeno tale che non si spiega come l’intero mondo non ne parli (...). Una comunità dove quello che è mio è tuo, dove nessuno, tranne gli amministratori, maneggia denaro, dove la proprietà non esiste: si penserebbe a una specie di convento, o di squallido e triste collegio. Ciò che invece colpisce di più a Nomadelfia è l’allegria generale, le facce aperte e distese. (...) Senza dire una sola parola (Nomadelfia) ci fa il più doloroso rimprovero, ci fa capire come sia sbagliato il nostro modo di vivere, gli affanni, i desideri, le vanità, eccetera. Essere ricchi, essere famosi, essere invidiati. Bella roba! Per quanto si faccia non basta mai. Mai sazi, mai tranquilli! E pensare che sarebbe così semplice. La bontà. Volersi bene. Loro ci sono riusciti e noi no».

Buzzati chiude il suo pezzo con un aneddoto sulla fraternità. È riferito a un collega un po’ cinico, e tutto porta a credere che questo protagonista sia, in realtà, la proiezione dell’autore stesso. «Una volta arriva un giornalista straniero, che aveva l’aria di non credere a niente. Si rivolge a un ragazzetto e gli fa vedere un altro bambino. “Quello là – gli chiede con una faccia da presa in giro –, quello là è un tuo fratello?”. “Perché? – gli risponde il bambino – Non è anche fratello tuo?».

Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017