Cittadino del mondo
Sta lavorando a un copione intitolato «La fuga». Una storia tra l’immaginario e l’autobiografico. Ma fuga di chi e da che cosa? L’interrogativo sarà svelato tra qualche riga. Di sicuro sappiamo che egli si sente «cittadino del mondo», anche se vive e lavora da oltre un trentennio in Canada, a Vancouver. È orgoglioso della propria origine toscana. Ne mantiene l’essenza. È bello ascoltare l’inconfondibile cadenza del suo forbito italiano quando parla della propria vita. «Sono nato nella dependance della villa “I Tatti”, situata proprio tra Fiesole e Firenze, ne demarca i confini il torrente Mensola dove ho passato i primi anni della mia infanzia alla ricerca di lucertole e ranocchi....». Lo sguardo, allora, gli corre lontano, a rivedere quei luoghi, a rivivere quei ricordi. «Andavamo a giocare lì e un giorno, una bambina più piccola di me è caduta in acqua e stava per affogare. Mi sono tuffato e l’ho salvata, per questo sono stato insignito di una croce al merito».
Roberto Albertazzi lo riferisce con naturalezza, senza vantarsi, e prosegue con altrettanta semplicità: «Nel tempo libero dalla scuola ero sempre lì, in mezzo a maiali, buoi e cavalli. Che meraviglia, come lo rifarei volentieri!”. Come mai è nato ai Tatti? «Il nonno era maestro muratore, incaricato del mantenimento delle case coloniche situate nel podere. La villa era stata ceduta dai proprietari inglesi al famoso storico e critico d’arte Bernard Berenson e oggi è sede di un’università americana». È noto che Berenson abitò ai Tatti dal 1900 fino alla morte, avvenuta nel 1959, avendo destinato la villa in eredità alla Harvard University, nella quale s’era laureato nel 1887. (*)
Il racconto del vivace ottantacinquenne regista, una vita di esperienze dentro e fuori il mondo del cinema e del teatro, non nasconde una punta di nostalgia. La vita semplice, a contatto con la natura, resta un sogno per chi ha conosciuto i ritmi frenetici di città cosmopolite come New York (dove Albertazzi ha vissuto per qualche tempo) e risiede in una metropoli multiculturale come Vancouver. Senza contare il periodo trascorso nella capitale d’Italia. Dopo il servizio come «milite di scorta ai treni negli ultimi due anni di guerra, una volta che Firenze fu liberata, in bicicletta andai a Roma, dove vivevano gli zii Aldo e Nella, sorella di mia madre. Ritornai quindi a Firenze, completati gli studi tecnici, fui di nuovo a Roma dove incominciò il mio lavoro di montatore cinematografico». Tra le varie cooperazioni egli cita, in particolare, lo sceneggiato televisivo Jekyll, regista e interprete il grande attore Giorgio Albertazzi, l’amato e ammirato fratello maggiore, insieme con gli altrettanto bravi Massimo Girotti, Claudio Gora e Bianca Toccafondi. Jekyll ottenne il Premio Italia 1969, e il primo premio anche per il montaggio. Da ricordare inoltre La folie Almayer, del 1973, diretta da Vittorio Cottafavi, la produzione francese Le Salamandre, Gradiva, e una serie di film «spaghetti western». Un curriculum davvero rispettabile.
A metà anni Settanta, la fuga. La fuga da Roma, dall’Italia, dall’ambiente dello spettacolo, da un amore deluso, e la sofferta ricerca nel continente americano di un differente lavoro, di altre realizzazioni, di una casa, di una famiglia. Dopo New York ed Edmonton, il nostro protagonista scelse Vancouver per operare nel settore edilizio, prima importando piastrelle artistiche, poi disegnando e facendo produrre camini per molte ville residenziali. «Adoro Vancouver – dice – è una città meravigliosa, abitata da persone molto simpatiche e gentili. Mi trovo molto bene, è proprio casa mia». Sua moglie, la pittrice Rita Monaco (**), e la giovane figlia Francesca, sceneggiatrice affermata, saranno senz’altro d’accordo. Sono una famiglia di artisti, in un mondo dove c’è spazio e respiro per l’affermazione e l’espansione delle arti. E come non poteva rimanergli nel sangue il teatro? Vedemmo nascere, un trentennio fa e proprio nel contesto multiculturale canadese, l’Albertazzi regista. Un impegno assolutamente volontario il suo. Non propriamente all’interno della comunità italiana, ma con voce e stile italiani culturalmente aperti alla società più vasta.
«Insieme con Franco Cotechini e Michele Coviello – ricorda – fondammo la compagnia teatrale I Commedianti». Erano i primi anni Ottanta e furono messe in scena opere di De Filippo e Pirandello, con il coinvolgimento di giovani e meno giovani attratti dalla magia dell’arte teatrale e dalla sua suggestione comunicatrice. Alcuni nomi? Oltre a Cotechini e Coviello, vanno ricordati tra gli altri Roano Azzi, Cristina Ciccone, Rita Penco, Tony Serge, Saro Sortino e i giovanissimi Ida Maria e Davide Pan, appena sbarcati dall’Italia. Trent’anni sono trascorsi da allora. Albertazzi – pendolare «solo per ragioni di lavoro» tra il Canada e l’Italia, dove non tornerebbe a vivere – si sta dedicando, intensificandola, alla sua vocazione preferita. A Tampere, in Finlandia, ha curato l’anno scorso la regia dell’opera Don Carlos di Verdi, e quindi de Il Sogno di Shakespeare. Il suo entusiasmo, la sua voglia di progettare e di fare, sono contagiosi. In questo periodo si sta dedicando alla preparazione di Love e Crash, da testi di Shakespeare.
In attesa di qualche illuminato mecenate, c’è anche in cantiere il progetto Caboto. Si tratta di un’idea silenziosamente covata fin dalle grandi celebrazioni del 1997 in occasione del cinquecentenario dello sbarco di Giovanni Caboto sulla costa orientale del Canada, un progetto sostenuto con convinzione e speranza anche da Alberta Lai, responsabile dell’Istituto Italiano di Cultura. Se è vero che Cristoforo Colombo ha scoperto l’America (sbarcando allora nell’isola Ispaniola, oggi Santo Domingo), è altrettanto vero che il primo navigatore italiano a toccare il Canada è stato Giovanni Caboto. Perché allora non rievocare ancor oggi qui, dalla suggestione del palcoscenico, un’altra storia bellissima: la storia di Giovanni Caboto. È stato fatto anni or sono a Roma, alla John Cabot University, dalla collaborazione della scrittrice Marcella Uffreduzzi con il famoso drammaturgo Raffaello Lavagna. La storia e la leggenda di Giovanni Caboto «che scopre per conto del re d’Inghilterra l’isola di Terranova, e vi pianta, accanto alla bandiera inglese, la bandiera col Leone di San Marco perché – dice il cronista Sanudo – era veneziano» (da La Repubblica del Leone di Alvise Zorzi). Roberto Albertazzi immagina già la scena, ne vede il disegno di linee e colori, il gioco di luci e di ombre, sente le voci dei protagonisti, è soprattutto deciso a coinvolgere i molti giovani disposti a partecipare coralmente, per apprendere e far conoscere una storia che è stata alla base del loro presente.
(*) Villa I Tatti, The Harvard University Center for Italian Renaissance Studies ( http://www.itatti.it/default.html).
(**) http://www.ritamonacostudio.com/ (e per Francesca Albertazzi cercare con Google).