Colpa e redenzione: l’orizzonte possibile

I permessi premio concessi di recente a detenuti che si sono macchiati di efferati crimini, riaprono una questione delicata: è giusto dare a tutti una seconda possibilità?
22 Maggio 2007 | di

LETTERA DEL MESE


«Caro direttore, a Pasqua ho visto in televisione le immagini del permesso premio che i giudici hanno concesso a Pietro Maso, il giovane che, insieme a due coetanei, uccise i genitori per impossessarsi del loro denaro. Pur essendo convinto che a nessuno si debba negare la possibilità di rifarsi una vita, ho provato stupore e sconcerto nell’apprendere che ha abbracciato le due sorelle, quelle stesse che, all’epoca, non era riuscito a uccidere. Sono davvero confuso. C’è il rischio che, tra permessi e indulti, ci ritroveremo gli assassini per strada. Mi chiedo, prendendo spunto dal caso di Pietro Maso, ma anche dalla libertà che ora viene chiesta dagli ex brigatisti, se davvero il perdono sia la strada più giusta per dare una mano a chi ha sbagliato o se, invece, per offrire, soprattutto ai giovani, modelli di vita autorevoli, non si debba tornare piuttosto a un rigore e a una severità esemplari anche nell’assegnazione delle pene e dei programmi di recupero».

Lettera firmata


Accogliere un uomo anche se un mostro? Aprire le braccia o piuttosto negare la stretta a quelle stesse mani, quelle di Pietro Maso, che ora tengono un rosario, ma che, allora, brandirono una spranga per uccidere un padre e una madre? Sono interrogativi ai quali non è facile rispondere perché mettono in campo questioni tra le più difficili che spaziano tra le tante maglie di una giustizia non sempre giusta e giungono sino a quel confine sottile tracciato dalla coscienza, inviolabile, di ciascuno. A cominciare da quella delle vittime che, col tempo, anche noi abbiamo finito per dimenticare. Penso a chi è rimasto, alle tante persone che si sono viste strappare, con brutale violenza, gli affetti di una vita, e che ora sono costrette a scontare pene quotidiane forse più gravi di quelle subìte dai carnefici, dietro le sbarre. Penso ai tanti famigliari delle vittime del vecchio o nuovo terrorismo, sia esso di destra o di sinistra non fa differenza quando a pagare sono stati uomini impegnati nel compimento del proprio dovere: dai giudici ai giornalisti, dai giuslavoristi ai dirigenti d’azienda.
Nemmeno chi sta dall’altra parte, a cominciare dai giudici, ha un parere unanime, per cui, caro lettore, non deve pensare di essere l’unico a essere confuso. Anche il magistrato di sorveglianza che ha concesso il permesso di libertà a Pietro Maso dà conto, nel suo provvedimento, di una visione opposta rispetto alla propria, espressa dai diversi periti che si sono occupati del caso. Alcuni di loro ritengono, infatti, ancora alto il livello di pericolosità sociale di Maso.
Si può discutere, e si discuterà a lungo, sul reale pentimento di questo ragazzo, ormai non più tale, il cui gesto ha cancellato, in una fredda serata di aprile di sedici anni fa, insieme ai genitori, anche un pezzo determinante della propria vita.
E per noi, il discorso è concluso? Quali sentimenti ci dovrebbero ispirare storie come questa? La zia di Pietro Maso ha dichiarato: «L’ho perdonato subito. Se tornasse non gli chiederei niente, lo abbraccerei e basta». Nel suo lungo carteggio con un sacerdote, Maso dal carcere scrive: «Sedici anni di carcere mi hanno cambiato. Mi ero perso, ho cercato di ritrovarmi, grazie anche alla fede». Pure di alcuni terroristi, cui lei fa riferimento nella lettera, ci sono sacerdoti e suore pronti a garantire «il sincero dolore interiore». Dunque anche i mostri piangono, anche il loro dolore esiste e ha un senso. Può bastare?
I famigliari di Giuseppe Taliercio, il dirigente del Petrolchimico di Marghera (Venezia) ucciso dai terroristi, hanno perdonato. La moglie di Aldo Moro ha perdonato. Così come la madre del giovane giudice Rosario Livatino trucidato dalla mafia. Altri non ce l’hanno fatta, e per ora non riescono nemmeno a concepire la realtà del perdono. Mentre non possiamo minimamente permetterci di giudicare questi ultimi, possiamo però volgere lo sguardo a chi, con convinzione e fermezza, è approdato all’orizzonte del perdono e ce lo segnala come possibile.


LETTERE AL DIRETTORE


Cortocircuito scuola-famiglia e schifezze in rete


«Ormai chi è genitore di un ragazzo/a adolescente, o preadolescente, vive con la continua paura che un giorno o l’altro il proprio figlio resti vittima di qualche violenza, o, ancora peggio, che egli stesso faccia lo sbruffone in classe e sia invischiato in fenomeni di bullismo. Aggressioni a docenti bersagliati per un qualsiasi motivo, anche futile, scherzi pesanti nei confronti di compagni più deboli che non raramente si trasformano in dramma, riprese di esibizioni e di prodezze sessuali realizzate col videofonino e scaricate nella cloaca di internet: questo ormai il menù quotidiano. Cosa sta succedendo?».

Lettera firmata


Parto da lontano, per tracciare un minimo di sfondo a questo mio tentativo di risposta. Tentativo, ripeto. Ormai da tempo si sta parlando di un cortocircuito problematico tra scuola e famiglia. Quest’ultima fatica a fidarsi della scuola come istituzione formativa, soprattutto nei passaggi delicati dell’adolescenza e della prima giovinezza. Da una parte si vorrebbe appaltare a essa il dovere di allevare i figli, di tirarli su in maniera sana e in particolare di farli rigare diritti. Dall’altra non si rinuncia ad accontentarli e a giustificarli in tutto, perché convinti che siano pargoli mitissimi e di provata correttezza morale. Purtroppo però la realtà non è così idilliaca, e ce lo dice senza mezzi termini il fenomeno montante dei reality school, schegge di riprese girate con il videofonino che prendono il largo nel limaccioso mare di internet. Prima o poi, però, vengono ripescati e mettono alla gogna più gli aspiranti registi che le sfortunate vittime. Ormai il bullismo, quello di punta, è diventato videobullismo, perché la bravata tra pochi, con pubblico ridotto, è considerata atto vandalico in tono minore. Quando la scena non la vedono in tanti – così ragionano certi «bravi ragazzi» – vuol dire che la merce è di poco pregio. La vera onorabilità, invece, si raggiunge quando il mini-video viene replicato e amplificato dai media, vera e propria cassa di risonanza di imprese ingloriose e codarde. Ma torniamo al punto di partenza. Ristabilire un circolo virtuoso tra famiglia e scuola resta il vero problema di fondo che contiene tutti gli altri. Recensire e punire adeguatamente atti offensivi e vandalici stupidamente pubblicizzati, è un primo inevitabile gradino di una scala che deve salire molto più in alto, fino a restituire autorevolezza alla famiglia e alla scuola, insieme. Solo una credibile e tenace alleanza tra queste due istituzioni potrà portare i frutti desiderati.



Capire la Parola senza accanirsi sui particolari


«Gentile direttore, leggendo la Bibbia ho trovato due passi delle Scritture che mi hanno lasciata molto perplessa: uno è Galati 3,13 che, parlando di Cristo, dice che è stato appeso a un legno; le note in calce rimandano a Deuteronomio 21,23. Nella nota a pie’ di pagina di questo versetto ho letto che il legno in questione è un palo o un albero, ma non è menzionata la croce. Come mai nel versetto di Galati, riferendosi alla morte di Cristo, si parla di legno (palo o albero) invece che di croce? Come si spiega questo?».

Lettera firmata


Da quanto posso capire, lei è una lettrice attenta della Parola di Dio e questo le rende merito. Talvolta però può accadere – soprattutto a chi è guidato dalla volontà di fare subito chiarezza – che il desiderio di conoscenza allontani anziché avvicinare al significato più profondo che il testo biblico ci vuole comunicare; un po’ come nelle scienze mediche specialistiche che si occupano del nostro organismo, quando ci si concentra eccessivamente sulla parte dimenticando l’insieme e la prospettiva, vale a dire la salute del paziente.
Vede, nel caso che lei sottopone alla mia attenzione, la croce è il punto di arrivo, la prospettiva, il legno è la parte. Ma nella sua lettura scrupolosa del passo di Galati 3,13, analizzando il solo significato letterale dei termini ha trascurato il contesto in cui nasce e si sviluppa l’argomentazione. Ecco il cuore del ragionamento: «Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della Legge, diventando lui stesso maledizione per noi, perché in Gesù la benedizione di Abramo passasse alle genti e noi ricevessimo la promessa dello Spirito Santo». Per Paolo, Cristo è colui che è appeso a un legno senza colpa e al posto nostro. Galati cita un passo di Deuteronomio molto breve, laddove si dice che il cadavere di un reo giustiziato non deve rimanere esposto troppo a lungo, «perché un appeso è una maledizione di Dio». Si può affermare con certezza che la croce in Galati è elemento centrale che guida il testo. Ma il materiale di cui è composta è il legno, e in questo caso la parola legno è da considerarsi una sineddoche, una figura retorica che indica una parte per richiamare il tutto, cioè l’albero. A questo punto, capire se si tratti di un palo o di due sovrapposti perpendicolarmente – quello orizzontale secondo molte ricostruzioni lo portava sulle spalle il condannato a formare una croce – diviene marginale, poiché non influisce sul senso profondo del brano. Concludo con un consiglio: una delle regole per leggere correttamente la Scrittura è seguire con attenzione la logica di fondo del discorso, nella quale – rimanendo comunque secondari – si innestano altri riferimenti o rimandi. Il particolare non deve precluderci la visione d’insieme, quella che nutre lo spirito.



Chili di candele per mantenere la promessa fatta


«Mi chiamo Alfonso, marito della vostra abbonata Irene, venuta a mancare circa un anno fa. Io e, ancor più, mia moglie siamo sempre stati devoti di sant’Antonio, affidandoci molte volte a lui in momenti di difficoltà e avendo sempre riscontro della sua infinita misericordia. C’è un episodio particolare della nostra vita che vorrei raccontarle. La moglie del nostro secondogenito aveva problemi a concepire un figlio e i medici non riuscivano a trovare la causa. Irene, con la sua silenziosa e profonda fede, si rivolse al Santo. Promise che se fosse nato il bambino, all’età di un anno lo avrebbe portato in Basilica e avrebbe offerto tanti chili di ceri quanto fosse stato il suo peso. Sant’Antonio ascoltò la preghiera di mia moglie. Nacque il bambino, venne chiamato Alfonso Antonio e ogni cosa promessa fu mantenuta… Da quando lei non c’è più, vivo la mia solitudine, che posso colmare solo portando avanti le sue volontà».

Alfonso Guida – Salerno


La spontaneità, il profondo atteggiamento di fede in Dio e di devozione al Santo che traspaiono dalla sua lettera mi hanno molto colpito. Il dolore ancora acuto per il distacco dall’amata moglie Irene e la solitudine che pesa hanno un po’ fiaccato la sua tempra robusta, ma è ancora capace di guardare avanti. Quando, alcune settimane fa, l’ho sentita al telefono mi ha comunicato il suo grande desiderio, salute permettendo, di passare un’altra volta in Basilica a salutare il Santo. Magari anche per ricordare tutte le volte che c’è stato con sua moglie, in quei viaggi che porta impressi nella memoria e soprattutto nel cuore. Mi creda, ho provato a immaginare quella volta che ha varcato la soglia del nostro santuario portando, con orgoglio e riconoscenza, diversi chili di candele. Il Santo aveva ascoltato la preghiera di Irene e la promessa doveva essere onorata. Ora il «Messaggero di sant’Antonio» le verrà inviato, secondo le disposizioni che ci ha dato, con il nome della moglie e con il suo. Un modo per essere ancora vicini attraverso una rivista che insieme avete letto e apprezzato per molti anni. Auguri di ogni bene, caro signor Alfonso.



Un grazie commosso e graditissimo


«Gentile Signora Paola Comauri, sono Bonifacio Giovanni, ultimo fratello di don Francesco Bonifacio. Ho letto con grande commozione e piacere sul “Messaggero di sant’Antonio” di febbraio 2007 il suo articolo sulla vita e storia di mio fratello don Francesco. È perfetto.
«Per questo suo articolo sul “Messaggero” del Santo, ho avuto tantissime telefonate di stima per lei, per la sua descrizione, semplice e completa. Signora Paola Comauri, mi hanno subito incaricato di contattarla e dirle “brava e grazie”. Non ho potuto scriverle prima, non stavo bene e così oggi, 22 aprile, le scrivo (ho 84 anni).
«A nome della mia famiglia, di noi istriani esuli e degli abbonati del “Messaggero di sant’Antonio”, dica alla sua redazione e ai frati della Basilica del Santo di pregare affinché don Francesco Bonifacio, il “martire delle foibe” come scrisse l’“Avvenire” di martedì 7 febbraio 2006, sia beatificato».

Giovanni Bonifacio - Trieste


La giornalista che lei elogia con un «brava e grazie», aggiungendo la lode della «perfezione», mi ha mostrato la lettera – qui riportata solo in parte – visibilmente commossa. «Non sono abituata a tanti complimenti – ha commentato – ma confesso che mi fanno piacere». Aggiungendo, non solo per gioco di squadra: «I complimenti sono per me, ma anche per la rivista che ha avuto il coraggio di parlare della morte di un grande sacerdote». Restiamo dunque uniti nella preghiera.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017