Comunicare all'epoca del Santo
Col mio commensale pranzavo alla mensa di un centro commerciale nella quale di solito mangiano le persone frenetiche. Una frenesia, la loro, acquisita a causa del lavoro e diventata con il tempo una peculiarità del carattere. Le osservavo con molta attenzione: mi affascinava pensare che dietro ognuno di loro ci fosse una storia e, allo stesso tempo, mi spaventava il pensiero che non avessero tempo per raccontarla e, gli altri, per ascoltarla e farla propria. È strano, direte, avere questo timore proprio oggi che i mezzi di comunicazione si sono moltiplicati: c’è il cellulare, la posta elettronica, la chat, myspace, il blog e, al contempo, sopravvivono i classici mezzi di comunicazione.
Ma a tutto questo che cosa corrisponde? Voglio dire: che cosa ci diciamo realmente, quando abbiamo il tempo di parlare, e quanto resta di quello che diciamo? Quanto è significativo quello che «chattiamo», «myspaciamo»? Che cosa resta dell’essenza delle parole che pronunciamo e di quelle che ci arrivano all’orecchio? Non rischiano di perdere forma e sostanza, sacrificate alla presunta efficacia dell’accumulo di dati? E soprattutto: che peso resta di ogni singola notizia se questa rischia in ogni momento di affogare tra tante altre? Di non avere lo spazio per entrare in noi e, in un certo senso, di «respirare» dentro di noi? Respirare per rimanere in vita almeno il tempo necessario a farci riflettere, a muoverci all’azione, alla reazione, alla relazione…
Se non riusciamo a distinguere le cose, come potremo riuscire a capire per quale di esse vale la pena mobilitarci? A proposito di mobilitazione: ho chiuso gli occhi per rilassarmi e mi è tornata in mente una storia su san Francesco e sant’Antonio, che da piccolino mia nonna mi raccontava spesso e che poi ho scoperto essere falsa, dal momento che non risulta nella biografia di nessuno dei due santi. Secondo questo racconto, sant’Antonio era a Lisbona e aveva saputo che san Francesco era gravemente malato. Subito decise di partire per Assisi perché voleva assolutamente incontrarlo e parlargli. Dopo molte disavventure, giunse ad Assisi proprio quando Francesco stava per morire. Che cosa ci trasmette questo racconto? È un ottimo esempio di come, in un tempo in cui la circolazione delle informazioni era molto più lenta, quelle davvero significative circolavano velocemente. Quindi, la rapidità di circolazione era legata all’importanza della notizia. Come se, dovendosi adattare alla mancanza di mezzi, gli uomini riuscissero meglio a selezionare le priorità. E queste informazioni erano così significative che spingevano subito all’azione. Perché erano in grado di toccare quella parte dell’animo umano che, se non avesse reagito, avrebbe sofferto di un’inquietudine troppo intensa.
È proprio questo il punto: accumulare informazioni ci rende apparentemente consapevoli delle cose ma, nella difficoltà di attribuire loro una gerarchia, rischiamo di sentirci impotenti di fronte alla loro quantità e di rimanere inattivi. Dopo tutte queste considerazioni ho riaperto gli occhi e ho visto che la gente continuava freneticamente a comunicarsi notizie di tutti i generi. Sant’Antonio sapeva che riuscire a realizzare quell’incontro con Francesco avrebbe significato tanto per lui: sia nel momento stesso dell’incontro sia per la sua futura azione nel mondo. Per questo motivo egli, ricevuta la notizia della malattia di Francesco, ha «vissuto la notizia», ha dato concretezza alle parole. In fondo, non sono forse le parole stesse a chiederci un appiglio forte alle cose di questo mondo? Esse non sono creazioni che prescindono da noi uomini. Sono uno strumento per descrivere il mondo (anche quello della fantasia) e per agirvi e creare in esso relazioni. O, almeno, tali dovrebbero essere. Avete parole-azioni da raccontarmi?
Scrivetemi a: claudio@accaparlante.it