Comunque vivo, fino all’ultimo

Un architetto, le sue passioni, la sua spiccata autonomia, le sue scelte di fronte al tumore e all’epilogo della vita. E la sua decisione di rimanere in piedi di fronte alla morte.
25 Ottobre 2010 | di

Roberto era un architetto di 64 anni, operato da circa due anni per un tumore alla prostata. Al momento della diagnosi la sua malattia appariva localizzata, ma in seguito erano comparsi forti dolori alla schiena causati dalla formazione di metastasi alla colonna vertebrale. Il medico di famiglia lo aveva inviato presso il servizio di medicina palliativa dell’hospice più vicino, con lo scopo di eliminare il dolore e dare supporto alla mobilità.
Roberto viveva da solo. Non si era mai sposato né aveva mai avuto una partner fissa, per sua volontà. Aveva perso i contatti con la famiglia d’origine, ma godeva della vicinanza dei collaboratori del suo studio. Una governante, che però non abitava da lui, si occupava della casa. Gli piaceva vivere da solo e aveva un grande interesse per l’arte: a volte dipingeva anche, traendone grande soddisfazione personale. Amava l’arte quasi come il suo lavoro, la vera passione della sua vita. Era affascinato da ogni nuovo progetto che gli veniva commissionato, nel quale impegnava tutto se stesso con risultati sempre eccellenti. La cosa che non sopportava era di essere inattivo e lontano dalle sue ricerche stilistiche.

Accettò fin dall’inizio la malattia e le sue conseguenze, senza manifestare particolari angosce; purtroppo non c’era una cura risolutiva, quindi concordò con i medici e gli infermieri che il trattamento riducesse i sintomi al minimo, per poter continuare a fare le cose che amava. La vita gli era sempre sembrata un grande mistero e un’opportunità per esplorare se stesso e il mondo. Credeva in Dio, ma non praticava una religione particolare e aveva il desiderio di poter avere ancora il tempo sufficiente per appagare alcuni suoi interessi, compreso il lavoro. Non trovava sensato pensare che sarebbe dovuto morire; ciò sarebbe accaduto comunque e in ogni caso, e nel frattempo voleva conservare il più alto livello di qualità di vita possibile.
 
Un paziente non collaborante

La sua filosofia di vita irritava alcuni membri dell’équipe di cure palliative, perché credevano che in realtà Roberto stesse negando la sua condizione. Nell’hospice ottenne di avere una stanza per conto proprio, in modo da poter continuare a lavorare. Carte e computer avevano invaso l’ambiente, un ulteriore motivo di stress per i medici e gli infermieri, irritati oltretutto dal fatto che il paziente non accettasse di assumere le dosi di analgesico che essi ritenevano necessarie per un adeguato controllo del dolore. Roberto rifiutava le dosi più alte perché lo stordivano e gli impedivano di seguire il lavoro. Il suo rimedio personale era bere certi distillati di frutta o di erbe aromatiche, che si faceva mandare da un collega austriaco suo amico, associandoli alla morfina. Agli alcolici, del resto, era abituato; così non accadeva mai che perdesse il controllo o si ubriacasse. Il suo bere «grappa» faceva inorridire lo staff che cercò di impadronirsi dell’alcol per somministrarglielo sotto il proprio controllo. Questo comportamento protettivo fece molto arrabbiare il paziente, che rivendicava di essere una persona in grado di intendere e di volere, col pieno diritto di fare a modo suo.

Verso la fine dell’anno, nonostante la terapia, ricomparve un violento dolore alla schiena e una sensazione di perdita di sensibilità alle gambe. L’esame clinico rivelò un iniziale crollo vertebrale lombare, con la possibilità di una compressione midollare che doveva essere trattata con radioterapia. Roberto non aveva paura della radioterapia, ma aveva già in mente di recarsi per alcune settimane, come da molti anni faceva, a Barcellona, città nella quale aveva studiato e patria dell’architetto Gaudì, la cui opera era per lui fonte di ispirazione. Allora l’équipe medico-infermieristica cominciò a spiegare quali erano i rischi che derivavano dalla scelta di non eseguire la radioterapia. Egli accettò di discutere e comprese i termini della questione, ma preferì seguire quanto aveva programmato. Fu etichettato come un paziente non collaborante e difficile. La sua scelta pareva irremovibile: non voleva ritrovarsi nella condizione di non poter più rivedere le opere di Gaudì… Infatti, se il trattamento avesse fallito, sarebbe potuto rimanere immobile o comunque impossibilitato a viaggiare.
 
A Barcellona da Gaudì

Durante una discussione con il medico più giovane del gruppo, dichiarò che sicuramente amava la vita, ma che ognuno aveva un suo destino, che la malattia è un evento ineluttabile e che in fondo c’è qualcosa di misterioso in tutto ciò. Aveva avuto molto dalla vita e ottenuto tante soddisfazioni: la medicina non poteva interferire con ciò che lo rendeva felice. In definitiva, non aveva mai accettato il ruolo di «paziente»; capiva di essere in difficoltà, ma voleva supporto solo per superare gli effetti della malattia che gli impedivano di raggiungere i propri obiettivi. Non poneva mai alcuna domanda sulla morte, persino quando l’argomento emergeva nella discussione con l’équipe. Dichiarò solo di non temerla: essa viene quando viene ed è la fine di tutto.
Roberto andò a Barcellona e continuò a lavorare fino al giorno prima di morire. La mattina del giorno della sua dipartita si comportò come uno qualsiasi degli altri giorni trascorsi nell’hospice, se non per il fatto che chiese di poter incontrare un caro amico e collega, a cui aveva regalato un suo acquerello che desiderava rivedere. Durante la visita divenne sonnolento, e un’ora dopo morì.
 
 
L’intervista a cura di Alberto Friso
Per un nuovo patto medico-paziente
 
Il malato rivendica giustamente il diritto alla decisione per tutto ciò che riguarda la sua vita: al medico il compito di supportarlo e sostenerlo.
 
Msa. Dottor Dei Tos, quali insegnamenti possiamo ricavare dalla vicenda di Roberto?
Dei Tos. Questa è l’esperienza di un uomo colto, con una solida struttura psicologica e un forte senso di indipendenza, che vive da solo, ma non isolato. La scoperta della malattia non sembra turbarlo troppo: è preoccupato solo di evitare che le conseguenze interferiscano con le sue abitudini. È felice? Non so, ma certo è consapevole del proprio valore e delle cose che ha realizzato. Di fronte alla sfida della sofferenza vuole rimanere in piedi fino all’ultimo, senza abdicare. Vuole che la morte, quando verrà, lo colga vivo. 

Roberto vive la malattia in maniera «crea­tiva». Il suo può essere un esempio?
Roberto non vuole entrare nella tradizionale categoria del «paziente». Testimonia la possibilità di una relazione medico-paziente fuori dalla tradizione del cosiddetto «paternalismo medico», in cui il malato delega al dottore ogni scelta – anche quella sul suo bene – senza che gli sia riconosciuto alcun diritto di opinione. Roberto vuole essere il decisore per tutto ciò che riguarda la sua vita, anche a costo di entrare in conflitto. Ed è proprio ciò che accade quando l’équipe medica si trova costretta a mediare tra una certa strategia assistenziale e ciò che in realtà il paziente desidera fare. Non so se Roberto possa essere un buon esempio da imitare: è certo comunque che la relazione medico-paziente si sta evolvendo verso un rapporto alla pari, in cui il malato rivendica giustamente il diritto alla decisione. Il rischio conseguente è che il medico assuma atteggiamenti difensivi, abbandonando il paziente alle proprie decisioni. Non va dimenticato che la malattia mette la persona in un’inevitabile fragilità di fronte alla quale il medico non può rinunciare alla sua funzione di accompagnamento. Il progressivo abbandono del «paternalismo medico» non deve far cadere nell’inganno di un’autonomia assoluta che di rado il malato può sostenere, se non a prezzo di un nuovo isolamento. Invece è proprio in questi momenti che va rafforzata la dimensione della solidarietà e della presa in carico che dia concretezza all’etica del prendersi cura.

«Non trovava sensato pensare che sarebbe dovuto morire». Ma è davvero sensato non pensarci?
Il tema del morire è una delle questioni complesse che la cultura del nostro tempo ha reso ancora più difficili da affrontare. Per certi versi è un tabù: la morte è sempre più nascosta e relegata negli istituti di ricovero. Abbiamo perso confidenza con la morte: oggi spesso chi si trova nella condizione di fine vita è costretto all’isolamento. Tuttavia, cresce l’esigenza di restituire dignità a questo momento. Le cure palliative e gli hospice contribuiscono a umanizzare il morire e a riproporre la ricerca di un senso per questo evento così faticoso da accettare. Il non pensare alla morte contribuisce a emarginare il morire. Viceversa, la ricerca di un senso per la morte ci porta a cercare innanzitutto un senso per la vita, stimolandoci a un’esistenza consapevole e orientata ai valori. In fondo il pensiero sulla morte ha in sé una dimensione pedagogica, per conservare nella vita ciò che è davvero essenziale. Così accade di scoprire, proprio quando la vita pare sfuggirti, che l’amore per le persone è un’àncora di salvezza.

Nella storia emerge una forma di individualismo, come quando l’amico viene contattato solo per l’acquarello. Cosa ne pensa?
L’autonomia di Roberto contiene in sé il rischio dell’individualismo, che è uno dei mali del nostro tempo. Concentrarsi troppo su di sé rischia di farci dimenticare che siamo innanzitutto persone chiamate alla vita solidale, dalla quale riceviamo senso e orientamento. Il principio di autonomia diffuso soprattutto in Occidente ha portato alla giusta valorizzazione dell’individuo, ma rischia anche di disgregare il senso della comunità e l’appartenenza a un universo solidale che ci rende tutti corresponsabili della vita degli altri. Il desiderio di autonomia deve integrarsi con la consapevolezza della nostra vulnerabilità. L’unica salvezza che abbiamo è di accettare di ricevere e di saperci prendere cura gli uni degli altri.
 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017