Con l'anima divisa in due

Vicina eppure così lontana. La Svizzera è molto amata e apprezzata dai figli degli emigrati. Ancor oggi, sono tanti i giovani italiani che scelgono il Paese alpino come luogo di vita, grazie al suo policulturalismo e al modello federale.
09 Settembre 2011 | di

C’è chi ha deciso di impegnare la sua vita negli affetti familiari. Chi ha deciso di dare corpo alle proprie emozioni scegliendo la politica. Chi ha trasformato la propria identità di «secondo» in un occhio attento a captare le storie. E chi dedica il tempo a disposizione nell’educazione scolastica di bambini figli di emigrati. Da qualunque prospettiva lo si osservi, il mondo degli italiani in Svizzera è in perenne fermento, ricco di idee e iniziative. E paradossalmente è alimentato dalla vicinanza della terra madre, punto di riferimento per spunti e idee e pietra di paragone con la Confederazione elvetica.
Trentacinquenne cittadina italiana, Carmela Della Contrada vive a Wintherthur. Ha sposato un italiano continuando a coniugare la propria storia di «seconda» (così gli svizzeri chiamano i figli degli italiani nati in Svizzera) con quella di mamma migrante. Rappresenta, in parte, quell’anima sottilmente malinconica che accompagna molti figli di emigrati italiani nati all’estero e costretti a vivere emotivamente tra le due sponde della loro storia familiare. «I miei genitori sono beneventani – afferma –; i loro sacrifici di lavoro mi permettono di vivere senza dover lavorare per forza. Ma in Svizzera è praticamente impossibile rimanere con le braccia conserte. Sono innanzitutto mamma di quattro figli e questo è già un impegno a tempo pieno. Amo da sempre dedicarmi alle attività artistiche e, pur vivendo in un mondo tecnologico, mi piace ricamare e fare l’uncinetto».
C’è chi in Svizzera è invece approdato quasi per caso, ma con la consapevolezza di arrivare in un Paese filosoficamente affine ai propri ideali. È il caso di Filippo Bertacchi, Andrea Schenone e Emanuele Noseda, che oggi lavorano con ottimi risultati in vari campi professionali e guardano al modello confederato e all’organizzazione sociale svizzera come a un punto di riferimento per il futuro italiano. «Sono finito in Svizzera per caso, in seguito a una proposta di lavoro della mia azienda – spiega Filippo Bertacchi, giovane funzionario della Ubs di Zurigo – e sono stato accolto con grandissima cortesia e disponibilità. Ho sempre ammirato questo Paese che può essere preso ad esempio per la sua organizzazione federale. Ho una forte identità lombardo-veneta e sono molte più le cose che mi legano alla cultura svizzera che a quella italiana. La mia famiglia è dispersa in tutto il mondo e il legame con l’Italia ormai è dettato quasi solo dal lavoro. Ma non potrei vivere senza la lettura di autori come Gadda, Calvino, Parise e Pirandello».
Laureato in economia all’Università di Genova con una tesi in scienze delle finanze, professionista per sei anni del financial reporting per il management e il consiglio di amministrazione del secondo assicuratore britannico, Andrea Schenone ha deciso di migrare per vivere una vita più vicina alle proprie aspirazioni di crescita personale. «L’Italia – spiega – non è un Paese per giovani, a differenza di altri che mettono al primo posto le nuove generazioni, investendo su di loro. Sono vissuto nella convinzione che rimanere in Italia avrebbe significato compromettere il mio futuro; e la scelta della Svizzera è stata eccezionale. Ho trovato amministrazioni pubbliche che mi hanno trattato come un cliente nonostante fossi straniero; servizi pubblici e strutture all’avanguardia; ordine, pulizia e alcuni valori (come efficienza, serietà, discrezione) che vedevo erodersi nel mio Paese d’origine». Responsabile della Lega Nord in Svizzera, Andrea Schenone mantiene forti e orgogliosi legami con la sua terra d’origine, la Valle Scrivia in Liguria, e nel modello federale svizzero trova spunti per le proprie proposte politiche. «Il modello federale svizzero – conclude – è da imitare. Registro quanto noi italiani siamo lontani anche solo ad avvicinarci a questo modello. E spero che un giorno, anche grazie al mio lavoro, le nostre vere identità di popoli della penisola vengano valorizzate in pieno, come succede in Svizzera, dove ogni popolo mantiene una forte autonomia e identità nel federalismo, vero segreto della forza di questo Paese».      
Emanuele Noseda è arrivato a Basilea grazie alla sua professionalità nel campo farmaceutico. Impegnato nella ricerca clinica presso una ditta nel Canton Ticino durante gli studi universitari, Emanuele ha scelto di trasferirsi a Basilea cinque anni fa. «Ho ricevuto un’offerta da un’industria farmaceutica elvetica – racconta – e con mia moglie abbiamo deciso di compiere questo passo. Qui ho trovato un lavoro che valorizza i miei studi e le mie competenze. A Basilea non ho avuto nessuna difficoltà di integrazione. Apprezzo fortemente questo Paese, capace di unirsi in un sistema che preserva le differenze grazie al modello federale».
Secondo Gianpiero Zanier la vera forza trainante del Paese alpino è il policulturalismo. Figlio di emigrati friulani, Zanier vive la vita di «secondo» senza troppe differenze rispetto a quella degli svizzeri autoctoni. «I nostri genitori – afferma – ci hanno spianato la via con il loro sudore e la loro forza d’animo. Mi sento svizzero in tanti aspetti, ma ho ancora un forte legame con la mia patria d’origine: per questo ho scelto di non naturalizzarmi».
Giovanna Di Lello, figlia di abruzzesi di Colledimezzo, nata a Hamilton (Canada) ma trasferitasi in tenera età a Vevey nella Svizzera francese, ha scelto di trasformare le sue emozioni di «seconda» in energia creativa, puntando sulla telecamera come strumento di racconto e sulla ricerca delle radici come tema dominante delle sue produzioni. Creatrice di un festival dedicato allo sceneggiatore e autore John Fante, Giovanna vive una parte della sua vita a Vevey e un’altra in Abruzzo, ma spesso fa del viaggio l’unico luogo in cui si sente perfettamente a proprio agio. «È in Svizzera che mio fratello e io siamo cresciuti. Il mio primo impatto con questo Paese, che ricordo con chiarezza, fu la scuola, con le sue rigide regole. Il nostro riferimento era la missione cattolica, dove ho frequentato anche il catechismo, e la polisportiva, che organizzava feste e ci dava l’opportunità di relazionarci con altri italiani. A scuola avevo amici di tutte le nazionalità. Ricordo con molto affetto gli spagnoli, che erano tanti nella mia classe. Con gli svizzeri autoctoni c’era più conflittualità».
Documentarista di talento, Di Lello ha deciso di dedicare al mondo migrante il suo occhio di regista e videomaker, trasferendo nelle immagini quella sottile malinconia comune a tanti figli di emigrati, costretti a vivere nella terra dei genitori rientrati in patria.
«Tempo fa – conclude – lessi un articolo in cui si parlava dell’inclinazione alla depressione dei ragazzi italo-svizzeri di prima generazione. Condizione che nasce sicuramente dall’incontro-scontro tra due culture totalmente diverse: quella svizzera (rigorosa, protestante, nordica) e quella italiana (mediterranea, cattolica e caotica). Sono quasi agli  antipodi. A incidere c’è anche il fattore sociale. Gli italo-svizzeri di prima generazione sono quasi tutti figli di operai, quindi di una classe sociale diversa dalla media svizzera. Durante l’infanzia e l’adolescenza ho vissuto momenti conflittuali, quasi schizofrenici. Da un lato volevo essere totalmente assimilata alla cultura dominante, per vivere una normalità quotidiana; dall’altro trovavo impossibile riconoscermi totalmente in essa. Per anni mi sono sentita un’anima divisa in due. Oggi mi sono riconciliata. Anche se, quando penso di dover raccontare una storia in video o per iscritto, assumo subito lo sguardo della figlia di emigrati. Mi sento prevalentemente italiana, ma con un’anima in parte svizzera, che negli anni ho custodito gelosamente. Sono indelebili in me il senso civico e il rigore, che mi sono stati trasmessi dalla scuola elvetica».

Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017