Con le valigie in mano
Al di là del dolore e del senso di privazione per la dipartita di un uomo di spettacolo che per decenni è stato ospite fisso nelle case degli italiani, vorrei collegare la scomparsa di Mike Bongiorno ad alcune frasi che mi è capitato di sentire nei giorni dell’estremo saluto all’amato presentatore. «Ha fatto una vita bella e piena di soddisfazioni, ma anche una bella morte» è l’espressione che ho intercettato in più di un discorso, allusiva al fatto che Mike è stato stroncato – mentre in un albergo di Montecarlo faceva le valigie – da un infarto improvviso che in tutta fretta se l’è portato via. Ai nostri giorni, congedarsi dalla vita con quella suprema incoscienza che sembra farci uscire di scena a testa alta, intatti, senza il logorio di lunghe e a volte penose malattie, è considerato somma benedizione, una sorte che viene riservata ai più fortunati. Mentre un tempo il timore era che la medicina facesse troppo poco per favorire la salute e il prolungamento della vita del malato, oggi l’incubo si è capovolto: si teme l’eccesso opposto, e cioè di essere costretti a vivere in condizioni ritenute umilianti, per cui il ricorso a «testamenti biologici» o quant’altro sarebbe una forma di precauzione contro una medicina invadente, una possibilità di dire la propria quando non sia possibile farlo in altro modo.
Ma torniamo al filo principale del nostro discorso, vale a dire alla considerazione positiva che i più manifestano nei confronti di una dipartita da questo mondo il più possibile rapida e indolore. Che ne è, allora, di quella dottrina cristiana che vede nella «morte improvvisa» un pericolo, tanto da inserire nelle litanie dei Santi niente meno che «dalla morte improvvisa, liberaci, Signore»? Quando preghiamo l’Ave Maria, che peso diamo alle parole con le quali invochiamo l’intercessione della Vergine «nell’ora della nostra morte»? Accanto a questi riferimenti della pietà e della tradizione, il Catechismo della Chiesa Cattolica, al n. 1014, riprende alcune frasi dall’Imitazione di Cristo che forse potrebbero imbarazzare qualcuno: «In ogni azione, in ogni pensiero, dovresti comportarti come se tu dovessi morire oggi stesso… Se oggi non sei preparato a morire, come lo sarai domani?». E che dire poi del «sorella nostra morte corporale» che pure appartiene a quel Cantico delle Creature composto da san Francesco e da tutti osannato come inno alla vita?
Fa bene il Catechismo a riproporre i punti forti della tradizione, anche se forse oggi lo stesso messaggio va collocato e fatto risuonare in un contesto per molti aspetti mutato: quello, ad esempio, di un mondo che di morte non vuol sentir parlare, tanto che qualcuno ha teorizzato una sorta di «pornografia della morte». Mentre nell’antichità, con tutta naturalezza, gli uomini erano chiamati anche «i mortali», perché a differenza degli animali a loro era riconosciuta la possibilità di prefigurarsi la propria scomparsa, oggi molti sono assaliti dal fuoco inebriante dell’immortalità, e mettono la sordina a tutto ciò che dice fragilità, limite, sofferenza e infine congedo dalla vita. Comprensibile, in detto contesto, che siano in tanti a rivolgere a se stessi l’augurio di andarsene senza troppe complicazioni, soprattutto senza arrecare disturbo a sé e agli altri. D’altra parte, è compito fondamentale della Chiesa orientare gli uomini e le donne del nostro tempo a riconciliarsi con la morte, per poter vivere meglio. Nessun dolorismo, però, nessuna esaltazione o giustificazione della sofferenza che quasi inevitabilmente accompagna l’ultimo tratto della vita. Attraverso adeguate cure palliative (cioè contro il dolore) questa va combattuta con decisione, proprio perché la dignità della persona non venga compromessa. Senza comunque voler affrettare la morte, anche quando può esserci il desiderio che venga presto. Affidandosi in tutto e per tutto al Dio del prima e del dopo.