Confini «globali»
Uno dei temi che appassiona l’intelligentia africana è il dibattito sui confini del continente. Ma le radici dell’instabilità geopolitica dell’Africa nascono davvero da quell’assurdo storico che sono le frontiere volute dal colonialismo? Ne sono fermamente convinti alcuni storici, economisti, scrittori e sociologi africani. Ma c’è chi, soprattutto nell’ambito della società civile, non vede in questa revisione una priorità nella via della pace. Proviamo allora a tornare indietro con la moviola della storia alla Conferenza di Berlino (1885), un vertice al quale parteciparono tutte le grandi potenze del tempo e che segnò il culmine dello «scramble for Africa», la gigantesca competizione delle nazioni europee per la conquista di nuovi territori. Un fenomeno protrattosi sotto nuove forme fino ai nostri giorni, proteso allo sfruttamento delle immense risorse minerarie del continente da parte di potentati stranieri. A questo proposito il nigeriano Wole Soyinka, Nobel per la letteratura, ritiene che l’assise berlinese abbia operato come «un sarto impazzito che taglia senza più fare attenzione al tessuto, al colore o al disegno del patchwork che sta confezionando».
Non v’è dubbio che il risultato finale porti a un’estrema frammentazione del continente. Altrove, particolarmente in Europa, gli Stati adottarono come frontiere i corsi d’acqua oppure le montagne, cercando in questo modo di preservare intatte intere zone geografiche. In Africa, invece, è successo l’esatto contrario: è davvero interminabile la lista dei confini che tagliano geometricamente regioni originariamente omogenee. Basti pensare alla divisione del bacino dei fiumi Senegal, Niger, Volta, in Africa Occidentale, e del bacino intorno al lago Ciad; la frammentazione dei Paesi del bacino del fiume Congo, una delle aree idrogeografiche più importanti del mondo, e altri scempi che hanno ferito profondamente lo spazio africano. A questo proposito è illuminante l’osservazione del compianto Joseph Ki-Zerbo, burkinabé, uno dei maggiori storici del continente, per il quale le frontiere dell’Africa «vanno ridisegnate, con una decisione coraggiosa che i padri fondatori dell’Organizzazione dell’unità africana (Oua) non hanno avuto la lungimiranza di prendere a suo tempo». I governi africani sono, peraltro, ancora allergici alla messa in discussione delle frontiere ereditate dalle ex potenze coloniali. Sia nel caso del Kosovo che del Somaliland, la maggioranza delle cancellerie africane ha duramente criticato il loro riconoscimento in quanto violerebbe il principio giuridico internazionale che sancisce il rispetto dell’integrità territoriale dei singoli Stati. In effetti non è così facile ridisegnare le frontiere, considerando che questi mutamenti condizionerebbero l’istanza di regionalizzazione della politica e dell’economia.
In un mondo villaggio globale, in cui si afferma l’esigenza di aggregazioni soprannazionali (Unione europea, Unione africana…), bisognerebbe avere il coraggio di andare al di là dei nazionalismi. Ma non tutti in Africa la pensano così. Nell’ambito della società civile congolese sono in molti a pensare che i tentativi di realizzare nuovi «puzzle» nell’ex Zaire derivino dall’affermazione d’interessi economici ed egemonici ruandesi, a scapito della matrice nazionale di un Paese che chiede solo di vivere in pace. Una cosa è certa. L’adesione dei popoli a qualsiasi progetto unitario è possibile solo nel pieno rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo, di una gestione sana dell’economia e di un innalzamento del livello di vita delle popolazioni. Tutto ciò deve accompagnarsi a una redistribuzione delle risorse equa tra le varie componenti etniche, oltre a progressi reali sulla via della liberalizzazione politica che superi la logica dell’elettorato etnico. Per la verità, molto più facile a dirsi che a farsi…