Consumatori alla riscossa: scatole addio

Stiamo parlando delle «scatole» di imballaggio che contengono e proteggono molti dei prodotti di uso quotidiano. E che, se sono particolarmente attraenti, ci convincono a comperare di più. Analisi di un fenomeno dalle forti ripercussioni sull’ambiente.
23 Maggio 2007 | di

Che cosa hanno in comune la frutta sciroppata, le sardine, l’olio d’oliva, la passata di pomodoro e il sapone con cui ci siamo lavati questa mattina?
Tutti sono arrivati a noi in contenitori (barattoli, vetro, plastica o cartone) che poi finiranno nella spazzatura. Sono loro, i rifiuti domestici, a costituire la gran parte dei rifiuti urbani che riempiono le nostre città. Tecnicamente si chiamano imballaggi: non servono per essere consumati, ma solo per il trasporto delle merci ed eventualmente, se il confezionamento è particolarmente riuscito, per convincerci a consumare di più. Eppure li paghiamo cari: prima al produttore e poi, per liberarcene, alle aziende di smaltimento dei rifiuti. Ma li paghiamo, come vedremo, anche in termini d’inquinamento.
Basterebbe ridurne la produzione, o riutilizzarli, per conseguire un grande risparmio a livello economico e ambientale. Ma perché questo si realizzi si devono incrociare contemporaneamente almeno tre condizioni: una legislazione all’altezza delle sfide ambientali che ci attendono, una volontà dei consumatori, una propensione dell’industria a ridurre gli imballaggi e a riutilizzarli.


Una crescita esponenziale

Il dibattito e il confronto su questi temi vanno avanti da anni (la prima direttiva-obiettivo dell’Unione europea è del 1994) e ci si aspetterebbe che il problema fosse in via di soluzione; invece no: i rifiuti urbani aumentano piuttosto che diminuire.
In Italia ognuno di noi produce circa 539 chili di rifiuti urbani all’anno (senza contare, quindi, la quantità di rifiuti speciali, o di rifiuti dell’edilizia per esempio), 15 in più rispetto al 2003. E, sempre rispetto al 2003, il nostro Paese nel 2005 ha aumentato di 1,6 milioni di tonnellate la sua spazzatura annua, raggiungendo un totale di 31,7 milioni di tonnellate.
Si potrebbe pensare: abbiamo prodotto e consumato di più, quindi è abbastanza logico che la montagna di rifiuti sia cresciuta. Ma non è del tutto vero: la quantità di spazzatura cresce più velocemente dei consumi, e anche della ricchezza nazionale. Infatti, mentre il prodotto interno lordo (la ricchezza nazionale) tra il 2003 e il 2005 è cresciuto di circa l’1 per cento e la spesa delle famiglie di circa lo 0,6 per cento, i rifiuti urbani sono aumentati molto, molto più velocemente, del 5,5 per cento.
È un paradosso: siamo più bravi a creare spazzatura che ricchezza.
Non c’è una correlazione automatica tra consumi (e quindi reddito) e rifiuti: spesso è questione di comportamenti individuali e di scelte pubbliche. Se è vero infatti che tra coloro che producono meno spazzatura ci sono le province «povere» di Isernia, Potenza e Benevento (meno di 400 chili all’anno) è vero anche che accanto si trovano province «ricche» come quelle di Treviso e di Asti.
Alcune grandi aree urbane dimostrano inoltre che si può andare in controtendenza: tra il 2002 e il 2005 i rifiuti urbani sono diminuiti a Messina (-17,4 per cento), Brescia (-9,4 per cento), Milano (-7 per cento) e Genova (-6 per cento).
Ridurre quindi si può, basta volerlo.


Prima regola: ridurre

Vetro, carta e cartone, alluminio, acciaio, legno, plastica: questi i materiali di cui sono fatti gli imballaggi e che dobbiamo imparare a usare meglio.
Tre le regole fondamentali: ridurre, riusare e, infine, riciclare. Sono le tre «R» di una vita più sostenibile. Vediamole nel dettaglio.
Si tratta innanzitutto di ridurre il ricorso agli imballaggi, il che riguarda in primo luogo le aziende ma anche noi consumatori, con i nostri gusti e le nostre richieste. La direttiva del 1994 dell’Unione europea (per la verità allora si chiamava ancora Comunità europea), oltre a introdurre obiettivi precisi per il recupero e il riciclaggio, invitava tutti gli Stati membri a giocare d’anticipo, e ad agire anche a monte della produzione degli imballaggi, e non solo a valle, con il recupero e il riciclo. Da allora praticamente tutti gli Stati dell’Ue hanno lanciato campagne di informazione, realizzato accordi con le aziende, coinvolto le amministrazioni locali in piani di prevenzione.
Alla fine degli anni Novanta, per esempio, la Barilla, leader nel settore della pasta, ha alleggerito di 6,7 grammi il cartone blu delle sue confezioni: il risparmio è stato di circa 144 tonnellate all’anno. Altre 156 tonnellate sono state risparmiate in materia prima ottimizzando l’imballaggio secondario su pallet (i bancali).
Stesso discorso per i sughi in vasetto di vetro, che sono stati ridisegnati con una riduzione di 20 grammi su ogni pezzo (circa l’8 per cento sul peso del vasetto). E questo si è trasformato in un risparmio di 1000 tonnellate di vetro l’anno.
Se si tiene conto che molti altri colossi alimentari hanno fatto altrettanto, e che le scelte delle multinazionali (sia nel bene che nel male) trascinano dietro di sé anche i piccoli produttori, si capisce che questi minuscoli accorgimenti non sono irrilevanti. Risparmi di questo tipo negli imballaggi hanno riguardato negli ultimi anni molte merci: dall’alimentare all’abbigliamento, dall’elettronica all’industria motociclistica.
Cambiamenti significativi ma comunque minuscoli rispetto alla produzione totale.


Seconda regola: riusare

Anche per quanto riguarda la seconda «R» – il riuso degli imballaggi – non si è fatto molto. I pallet di legno, le scatole di cartone, le bottiglie di vetro raramente vengono recuperati e riutilizzati. Per latte, acqua minerale, vino, birra e bevande varie il «vuoto a perdere» l’ha avuta vinta da molti anni sul «vuoto a rendere». Il vetro si acquista con il contenuto e poi lo si butta. Se va bene finisce nella raccolta differenziata e ha una buona possibilità di essere riciclato, altrimenti la sua destinazione è la discarica o l’inceneritore. Uno spreco enorme.
Eppure, come dimostra un recente studio dell’Università di Trento, i vantaggi ambientali del vuoto a rendere sono indiscutibili: minor consumo di materie prime e di energia, e minor inquinamento (compresi i trasporti per recuperare il vetro e l’energia per lavare il contenitore) per tutto il ciclo di vita del contenitore.
In altri Paesi le cose sono andate diversamente. Questione di scelte.
Il vetro resta comunque il materiale riciclabile per eccellenza, anche perché mantiene intatte le sue qualità originarie: una bottiglia di circa 350 grammi si può produrre o con 350 grammi di rottame di vetro riciclato oppure con 420 grammi di materie prime tradizionali (sabbia, soda e carbonato di calcio). Si calcola che in Italia circa il 58 per cento del vetro venga recuperato o riciclato. Questo consente di evitare gas inquinanti equivalenti alle emissioni annuali di 2 milioni e 400 mila auto (Euro 4) ognuna delle quali percorra 15 mila chilometri l’anno.


Terza regola: riciclare

E siamo alla terza «R», il riciclo. Proprio dieci anni fa nasceva il Conai, il Consorzio nazionale per il recupero degli imballaggi: allora circa due terzi degli imballaggi finivano direttamente in discarica; oggi si calcola che i due terzi degli imballaggi vengano invece recuperati (la metà destinata al riciclo); fanno qualcosa come 8 milioni di tonnellate di imballaggi recuperate nel 2005. Il che significa anche 5 milioni di tonnellate in meno di anidride carbonica immesse in atmosfera.
Negli ultimi otto anni in Italia sono state recuperate oltre 2 milioni di tonnellate di acciaio: l’equivalente in peso di 200 Tour Eiffel. Niente male no? Con 19 mila barattoli in acciaio per conserve si può realizzare la carrozzeria di un’auto, con l’acciaio riciclato di 2,6 milioni di scatolette da 50 grammi si può realizzare un chilometro di binario ferroviario…
Ma tutto questo non basta: la montagna di rifiuti inutili cresce, e aumenta di pari passo l’inquinamento provocato dalla loro produzione, dalla raccolta e dallo smaltimento (o dal riciclo).
I governi stanno studiando nuove normative. Il governo belga, per esempio, ha annunciato una nuova tassa sugli imballaggi che potrebbe entrare in vigore nel prossimo luglio: il prelievo fiscale sarà calcolato sulla quantità di anidride carbonica immessa in atmosfera durante la produzione degli imballaggi stessi.
La Francia metterà fuorilegge i sacchetti di plastica non riciclabile (quelli, per intenderci, che usiamo per fare la spesa al supermercato) dal 2010. L’Italia farà altrettanto (la misura è stata introdotta nella Finanziaria 2007): per produrre 300 mila tonnellate di sacchetti consumiamo 200 mila tonnellate di petrolio. Il provvedimento consentirà di ridurre di 400 mila tonnellate le emissioni di biossido di carbonio.


Arrivano le merci «a ricarica»

Nuove regole e nuovi comportamenti quindi. Si gioca qui la vera partita per il futuro: abbiamo bisogno di «una vita a bassa emissione»; significa che dobbiamo rivedere i nostri comportamenti di consumo e cominciare a pensare che ognuno deve produrre meno rifiuti (e così inquinare meno). Molti movimenti ambientalisti nel mondo stanno andando in questa direzione: in diversi Paesi i consumatori chiedono alle catene commerciali della grande distribuzione di ridurre il peso degli imballaggi inutili, di privilegiare i prodotti a basso impatto ambientale, di mettere a disposizione merci «a ricarica»: detersivi, alimentari, prodotti per la casa.
In Trentino una lunga campagna di sensibilizzazione ha convinto alcuni supermercati a reintrodurre il latte in bottiglia con «vuoto a rendere». Meglio della plastica, e più sostenibile anche del Tetra Pack che pure, negli ultimi decenni, è diventato un compagno abituale dei nostri consumi, dai succhi di frutta alla panna da cucina, ma che è tutt’altro che semplice da riciclare. «Poliaccoppiati» si chiamano questi tipi di imballaggio: sono fatti di carta (75 per cento del peso), ma anche di un film di plastica e, nel caso degli alimenti a lunga conservazione, di un film di alluminio. Separare e differenziare queste materie prime è spesso un problema. Così, secondo la stessa azienda che è leader assoluta sul mercato mondiale, solo la metà dei 100 milioni di tonnellale di confezioni in Tetra Pack utilizzate ogni anno in Italia vengono avviate al recupero. E, secondo i calcoli del mensile «Altreconomia», solo una percentuale ancora più piccola, il 10 per cento, finisce in cartiera. Il resto viene avviato agli inceneritori. Materie prime, lavoro e ricchezza che finiscono in fumo.
Uno spreco del quale le future generazioni ci chiederanno conto. Anche se, nominalmente, si tratta solo di spazzatura.



Notes. Qualche numero


In Italia la raccolta differenziata copre il 24,3 per cento della produzione totale dei rifiuti urbani (i dati si riferiscono al 2005 e sono gli ultimi disponibili). Un valore che risulta, tuttavia, ancora sensibilmente inferiore rispetto all’obiettivo del 35 per cento fissato dalla legge. Tale obiettivo avrebbe già dovuto essere raggiunto nel 2003, poi la scadenza è stata prorogata al dicembre 2006.
Con la Legge finanziaria 2007, il governo ha fissato poi una nuova meta per la raccolta differenziata: almeno il 40 per cento entro il 31 dicembre 2007. Per raggiungerla ci vorrà un miracolo!
La situazione italiana è spaccata in due: mentre il Nord ha un tasso di raccolta pari al 38,1 (risultato raggiunto nel 2004), il Centro e il Sud, con percentuali rispettivamente pari al 19,4 per cento e all’8 per cento, risultano ancora decisamente lontani.



Appunti. Energia dai rifiuti


Ma che fine fanno i rifiuti non differenziati? Per la maggior parte continuano a finire in discarica. Questo sistema di smaltimento, pur mostrando una lieve riduzione (-3 per cento) si conferma come la forma di gestione più utilizzata, con oltre 17 milioni di tonnellate di rifiuti l’anno. Diminuisce leggermente il numero delle discariche (61 in meno rispetto al 2004), soprattutto al Sud del Paese dove maggiore era la loro concentrazione e la loro inadeguatezza rispetto agli standard fissati dalla direttiva europea in materia.
Il 10,2 per cento dei rifiuti finisce invece in… fumo (qualcosa come 3,8 milioni di tonnellate di rifiuti, con un incremento del 9 per cento rispetto al 2004). Dei 50 impianti operativi, 30 dei quali localizzati al Nord, ben 47 sono dotati di recupero energetico (termovalorizzatori): questi impianti bruciano rifiuti e producono energia elettrica. Sembrerebbe un’idea intelligente, ma le polemiche a questo proposito sono enormi: nonostante i miglioramenti tecnologici si tratta infatti di impianti a rischio di inquinamento e, soprattutto, di impianti che per essere convenienti devono ricevere importanti sovvenzioni pubbliche: l’energia elettrica che producono viene acquistata a un prezzo tre volte superiore a quello di mercato. Perché in Italia, e solo in Italia, quella prodotta dai rifiuti è considerata energia riciclabile, e per questo è incentivata.



Notes. Curiosità


Il popolare quotidiano inglese «The Independent» ha lanciato di recente una campagna «anti-packaging» (volta cioè a ridurre gli imballaggi) che pare abbia suscitato l’entusiasmo delle massaie.
Per una settimana intera le casalinge d’Oltremanica raccoglieranno, infatti, tutti gli imballaggi dei prodotti domestici e li scaricheranno poi davanti a quegli stessi supermercati nei quali li hanno acquistati.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017