Cuba diventa cinese

Liberalizzazione parziale in economia, ma pugno duro contro i dissidenti. I danni dell’embargo Usa.
05 Novembre 1996 | di

A novembre, probabilmente, Fidel Castro visiterà  Roma e l'Italia. Più volte ha dichiarato ai suoi amici italiani, il giornalista Gianni Minà  e l'ex eurodeputato Eugenio Melandri, il desiderio di vedere il nostro paese, e l'occasione sembra offerta dal summit internazionale di statisti per il cinquantesimo anniversario della Fao, l'organizzazione delle Nazioni Unite per l'alimentazione e l'agricoltura, che ha sede a Roma.

Ma qual è la situazione di Cuba e della «rivoluzione dei barbudos» che ha osato sfidare la superpotenza Usa a centocinquanta chilometri dalle sue coste? Con la caduta del blocco comunista europeo, il regime è entrato in quella che lo stesso Fidel, ha definito come l'«opciòn cero».

Cuba ha ricevuto per trent'anni come aiuti dall'ex Urss otto milioni di dollari al giorno, complessivamente più dell'intero piano Marshall. Inoltre, l'Urss comprava la produzione di zucchero a un prezzo politico, dando in cambio di una tonnellata di zucchero ben sette di petrolio. Da parte loro i «volontari» cubani hanno sostenuto tutte le lotte «internazionaliste» in giro per il mondo, dall'Angola all'Etiopia, alla piccola isola di Grenada, con più di diecimila morti.

In poco più di un anno, a partire dal 1989, gli aiuti si sono annullati, e ora, sul libero mercato, Cuba scambia una tonnellata di zucchero contro meno di una e mezzo di petrolio; per cui l'intera sua produzione basterebbe soltanto a far fronte ai fabbisogni di energia, ma non agli alimentari che importa e ai prodotti industriali. Da molti paesi dell'Est non arrivano neppure i pezzi di ricambio, e così le attività  nell'isola hanno cominciato a fermarsi, una dopo l'altra.

Per un po'di anni Fidel ha risposto a questa caduta verticale, che portava i cubani alla fame, con gli slogan, tipo «marxismo-lenismo o muerte», poi il realismo si è imposto. Ed è stata la svolta in economia. Nel discorso fiume che Fidel tiene ogni anniversario della prima insurrezione, il 26 luglio dell'anno scorso ha annunciato di aver scoperto il «modello cinese»: la liberalizzazione in economia. Già  un anno prima, nel settembre 1994, erano stati autorizzati i mercati «agropecuari» o la possibilità  per i contadini di vendere i propri prodotti in città , per dollari e pesos cubani; e subito per le strade ha ricominciato a diffondersi il profumo della cucina. Poi hanno aperto i «paladar», i ristorantini a gestione familiare. E subito dopo il discorso di Fidel, il parlamento ha autorizzato gli investimenti esteri senza più limiti, salvo una tassa del trenta per cento sui profitti esportati. Ora si parla anche di aprire «zone franche» sull'esempio cinese.

Gli effetti sono stati quasi immediati, e la gente ha ripreso a respirare, anche se l'abbondanza non appare a portata di mano e la maggioranza dei cubani circola in bicicletta, i «piccioni volanti» made in China.

Il turismo dall'estero è in continua crescita, e ha superato la soglia del milione di visitatori, rimpiazzando lo zucchero come prima fonte di valuta pregiata. Ci sono anche contraccolpi negativi, come i licenziamenti nei settori dove sta entrando il capitale estero e nei ministeri, mentre la prostituzione, vecchio male dell'isola caraibica, è riapparsa anche in forme sfrontate.

All'apertura in economia non corrisponde però una apertura in politica. Anzi, c'è quasi un irrigidimento, proprio sul tipo del «modello cinese». Ancora il 24 febbraio è stato proibito un incontro del «concilio cubano» che riunisce i difensori dei diritti civili, e due dei loro rappresentanti, Leonel Morejon Almagro e Lazaro Gonzalez Valdes condannati a diversi anni di prigione (e subito adottati, come «prigionieri di coscienza», da Amnesty International). Contro i dissidenti intervengono anche i «karatekas», una specie di polizia parallela addestrata a picchiare e a sfasciare appartamenti (il regime la definisce invece «popolo organizzato»).

Sull'orizzonte di Cuba plana un'altra nube, che proviene dalle vicine coste statunitensi: la legge Helms-Burton, che Clinton ha «sospeso» per sei mesi, ma che ora dovrebbe diventare esecutiva. Dal 1960 vige, contro l'«isola dei barbudos», l'embargo statunitense che ha assunto forme sempre più drastiche, contribuendo alle difficoltà  economiche (un'altra causa è l'inefficienza del regime).

Il governo del gigante nordamericano sembra affetto da una vera e propria paranoia contro il regime marxista della piccola isola, e nel corso di trentasei anni ha emesso ben duemila leggi e direttive, che prima hanno impedito qualsiasi commercio diretto e ora intendono colpire anche le società  estere che commerciano con Cuba. Una tale pretesa ha sollevato le proteste di Canada, Messico e Unione Europea, che hanno a loro volta minacciato ritorsioni contro i prodotti Usa se verrà  applicata. Sette ditte italiane sono sotto il mirino della Helms-Burton: la Benetton (che ha aperto un negozio all'Avana), l'Italcable (che dovrebbe rinnovare la rete cubana di telecomunicazioni), l'Eni e quattro imprese di turismo italiane.

Fidel Castro ha compiuto ad agosto settant'anni di vita ed è entrato nel trentottesimo anno di potere assoluto. Il suo carisma si è appannato in patria, ma è ancora ben vivo all'estero, specie in America latina. Ha l'appellativo di «comandante-en-jefe» e accentra su di sé tutti i poteri: capo dello stato, capo del governo, capo del partito unico (comunista). Finché vivrà , è difficile che Cuba cambi regime.

La chiesa a Cuba

La caduta del muro di Berlino e la crisi del comunismo reale hanno provocato un duplice effetto sui cubani: da un lato, un sentimento di disfatta e, dall'altro, un crescente bisogno di trascendenza per riempire il vuoto ideologico. La chiesa cattolica cubana ha avuto una notevole crescita negli ultimi tempi, ma non può svolgere un'adeguata opera pastorale a causa della carenza di strutture e di religiosi.

Di molte chiese sono rimaste le sole mura, senza tetto. Le persone vi si riuniscono ugualmente, anche se fuori piove o c'è il sole a picco. Circa cinquanta seminaristi vivono in un palazzo di trecento anni nella parte vecchia di L'Avana. Ciascuno di loro costa all'istituto duemila dollari all'anno e il direttore, padre René Luis Reves, non nasconde le sue difficoltà . Nel vicino istituto «Maria Reina» gli studenti cattolici che vogliono consacrarsi, ricevono una formazione teologica di base solo da cinque insegnanti e parecchi volontari. Il palazzo di tre piani, proprietà  di un ordine religioso, ha un solo bagno, costantemente fuori servizio. Mancano anche scorte e materiali.

Ma aiutare la chiesa di un paese comunista è assai difficile. La costruzione di nuove chiese è stata bloccata dal 1959, data della rivoluzione cubana, e ottenere permessi di restauro è difficoltoso. Molte proprietà  della chiesa sono state espropriate dal regime. La chiesa non può usare macchine per la stampa e fotocopie. Tutto ciò che viene scritto per la divulgazione deve essere passato dalla censura. Il governo, inoltre, ha ristretto severamente l'ordinazione di nuovi preti e concede con il contagocce permessi di soggiorno ai missionari. Il risultato è che per una popolazione di undici milioni di abitanti (47 per cento cattolici) ci sono appena 210 preti e 350 religiosi.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017