Da italiani a italici

Gli italici sono non tanto i cittadini italiani, ma anche e soprattutto i discendenti degli italiani, nonché ticinesi, sammarinesi e dalmati, italofoni e italofili. In totale circa 250 milioni di persone.
18 Settembre 2013 | di

Da anni, in Globus et Locus, parliamo di «italici» e «italicità» per identificare un’identità e un’appartenenza non di tipo nazionale, etnico-linguistica (le persone di origine italiana che parlano la lingua italiana) e giuridico-istituzionale (le persone che hanno la cittadinanza italiana), ma essenzialmente antropologico-culturale e funzionale. Abbiamo inoltre coniato il termine Italicity, intendendo con esso un territorio virtuale, luogo ideale per l’aggregazione della civilizzazione italica, che noi auspichiamo possa avvenire inizialmente sul web.

Ma chi sono gli italici? Non sono tanto i cittadini italiani in Italia e fuori d’Italia, ma anche e soprattutto i discendenti degli italiani (comprensivi di ticinesi, sammarinesi e dalmati), nonché gli italofoni e gli italofili. Gli italici sono cioè il risultato di tutti i fenomeni di mobilità e di incivilimento ai valori della tradizione culturale della Penisola. Una storia che non è solo quella della Repubblica italiana, ma anche quella della Svizzera italiana, di San Marino e della Dalmazia. Una storia che ha conosciuto i grandi fenomeni diasporici e migratori del XIX secolo, e più tardi le nuove mobilità transnazionali della ricerca, delle professioni, fino alle  recenti e sempre più rilevanti diaspore in ingresso.

L’italicità è, cioè, una condizione politica, economica e culturale che, avendo caratterizzato l’intero percorso storico della Penisola, si è poi ampiamente insediata nel mondo, ibridandosi nell’incontro con le varie culture dei luoghi ospitanti. È in questo senso che possiamo parlare degli italici come di una potenziale comunità globale stimabile attorno ai 250 milioni di persone nel mondo, alle quali la globalizzazione conferisce significati e potenzialità nuove.

La differenza tra italianità e italicità non è una mera questione definitoria. Mentre infatti la cittadinanza italiana è di solito legata all’idea che il risiedere in uno stesso territorio, sotto l’imperio dello stesso principe o Stato, sia nel mondo che ci circonda la sola condizione per l’esercizio di una soggettività culturale e politica, noi condividiamo il pensiero di chi, come Amartya Sen, prospetta l’eventualità che, al termine di un cammino certamente lungo, il glocalismo possa configurare nuove aggregazioni politiche.
 
Le civilizzazioni del mondo glocal
Finora tutta l’organizzazione politica è stata concepita sull’assunto della stanzialità, la cui parola più rappresentativa era proprio lo «Stato», crea­to dagli uomini per identificare un fattore di sicurezza e di stabilità. La stessa radice semantica di «Stato», participio passato del verbo stare, indica ciò che sta e che perdura. Ma le idee di Stato e di ordine internazionale stanno progressivamente tramontando. Lo Stato è stato edificato attorno al concetto di territorio. Nel mondo glocal si sviluppano sempre più numerose e importanti aggregazioni organizzate attorno a grandi funzioni (ricerca scientifica, innovazione tecnologica, organizzazione di produzione e servizi, mobilità di cose, persone, capitali, informazioni). Il mondo glocale non è dunque più la semplice somma degli Stati nazionali, ma un unicum stratificato di reti e strutture funzionali prive di centro, nel quale l’agire politico, culturale e sociale tenderà in misura sempre maggiore a essere deterritorializzato.

La novità è che la glocalizzazione domanda una nuova dimensione di convivenza politica, centrata sul sistema relazionale di reti e funzioni. Così, complice la mobilità, stanno nascendo nuovi popoli «glocali», trasversali rispetto a Stati e territori e all’intersezione tra il locale delle origini e delle radici e il globale delle funzionalità e delle grandi reti. Non sono popoli nazionali, ma nuove comunità «di sentimento» dall’identità plurale.

Siamo convinti che queste forme di aggregazione si stiano sempre più organizzando per civilizzazioni. Se nel corso dei secoli gli autori si sono soffermati soprattutto sul termine civiltà, dopo la fine dell’era bipolare e del momento unipolare, sembra che siano le civilizzazioni ad acquistare una centralità teorica, specie in prospettiva di un sistema multipolare futuro (o, forse, già presente). Sotto la scorza politica ed economica, il nocciolo più profondo delle civilizzazioni rimane genuinamente culturale, ma si avvia per gradi a divenire politico. Le civilizzazioni, infatti, non sono scatole chiuse. Esse si sviluppano ibridandosi e cercando al tempo stesso punti di riferimento che identifichino i valori e le caratteristiche di ciascuna. Assai più di altri, il «meticciato» di civiltà costituisce un paradigma in grado di spiegare la convivenza – spesso anche tumultuosa e violenta – di differenti esperienze culturali, in grado però di influenzarsi a vicenda. Il processo di «meticciato» di popoli e culture è un fenomeno sempre più rilevante e, prima o poi, domanderà nuove modalità di organizzazione e nuove forme di statualità.

Quello che possiamo fare è offrire spunti per comprendere e favorire il processo di aggregazione della civilizzazione italica, processo che credo già in atto. Oggi, l’italicità si configura come una comunità transnazionale caratterizzata da valori e interessi condivisi. Se la radice storica dell’italicità sta nell’emigrazione peninsulare nel mondo, essa è ormai diventata un fatto diverso che scaturisce soprattutto dal processo di ibridazione con le culture di volta in volta incontrate, per esempio quella statunitense, spagnola, tedesca, o altre ancora. Questa dimensione comunitaria non è sempre esistita, ma si è avvalsa in misura crescente di qualcosa di radicato nell’antropologia italica, intrisa di ecumenismo, tolleranza, amore della diversità e delle autonomie anche personali. Certo, al costituirsi di una civilizzazione italica hanno partecipato anche i popoli italici della tradizione, l’esperienza della romanità, il cristianesimo, il rinascimento, le identità locali e regionali, ma è nell’era glocal in cui viviamo, l’era delle mobilità, che essa si è arricchita di nuove potenzialità. L’italicità non è una razza, una nazione, una corporazione, anzi lascia spazio al suo interno anche a chi voglia esprimere l’orgoglio della sua originaria appartenenza nazionale. In tutte le sue forme, l’italicità è oltre la cittadinanza (italiana e non), ma non in contraddizione o contro di essa. Sebbene, infatti, sia un desiderio antropologico quello di voler ritrovare la pace personale nel monismo identitario, oggi la sfida è nella capacità di far coesistere una pluralità di identità che si definisce la ricchezza psicologica ed esistenziale.

All’inizio, la portata di questo discorso era stata colta in prevalenza in ambienti accademici e legati alla rete del sapere e delle business community, ma in questi ultimi anni il concetto di italicità sta radicandosi anche in ambiti politici e istituzionali. Nel sito ufficiale dell’anno della cultura italiana negli Stati Uniti (www.italyinus2013.org), si dice appunto che «La questione è cruciale anche per la politica estera: in un mondo “glocal”, le relazioni politiche e culturali devono essere mantenute anche con “italici” che non parlano necessariamente italiano e che sono interessati a riscoprire il “parlar materno” di dantesca memoria». Ecco perché dobbiamo prendere atto del fatto che in ognuno di noi c’è spazio per pluriappartenenze: scegliere di far parte anche della community italica è un valore aggiunto.
 
I linguaggi dell’italicità
Ma veniamo ai linguaggi della civilizzazione italiana. Se il termine languages in inglese significa sia «lingue» che «linguaggi», io vorrei invece fare un distinguo. Dal punto di vista della lingua (intesa come complesso delle parole che un popolo utilizza per esprimere e comunicare pensieri e sentimenti), l’italicità, in quanto pluridentitaria e glocale, è anche plurilinguista. Molti italici non parlano più l’italiano (pensiamo agli emigrati di seconda e terza generazione), o in realtà non l’hanno mai veramente parlato (gli emigrati praticavano spesso solo il loro dialetto e oggi fanno riferimento alla lingua del Paese dove vivono). L’italiano in sostanza non si impone, ma si sceglie. La lingua italiana oggi si trova sedimentata, metabolizzata nell’arte, nella letteratura, nella cultura, nell’immaginario, nei prodotti e negli stili di vita italici.

Ecco perché il tema di fondo non è quello della lingua, bensì dei linguaggi. Per esprimersi, infatti, l’italicità non conta tanto sulla lingua bensì su un uso variamente consapevole di molti linguaggi (intendendo con «linguaggio» la facoltà di esprimersi con gesti, segni, simboli, stilemi) e una molteplicità di livelli espressivi (i linguaggi delle professioni, della scienza, della politica, ecc.). È la varietà dei suoi linguaggi verbali e non verbali (dalla letteratura, alla pittura, al cibo, al cinema, alla musica) e dei suoi stilemi, che garantisce alla cultura italica la sua capacità di proporsi al mondo come una comunità globale. Pensiamo all’arte e alla letteratura. C’è ormai un linguaggio italico che è altro dalla lingua italiana. La capacità espressiva italica si trova in Don De Lillo e in John Fante, per fare esempi di scrittori americani di origine italiana.

Se facessimo un’esegesi stilistica del linguaggio espressivo di De Lillo troveremmo la presenza di riferimenti chiaramente riconducibili alla cultura italica. Ma se a De Lillo chiedessimo se si sente italiano risponderebbe di no, come ha già fatto. Dovrebbe però dare una risposta diversa se gli domandassimo se si sente italico. La stessa risposta l’avrebbe data Francesco Borromini, celebre architetto italo-svizzero del Seicento. Quello che voglio dire è che l’insieme dei linguaggi e degli stilemi italici è certamente un elemento nuovo e unificante. Nel caso del business, tale processo è ancora più evidente, essendo il business un linguaggio aggregatore e creatore di interesse.
 
L’unità degli italici
Credo che l’unità degli italici sia destinata a essere fondata non su base territoriale, né etnica o linguistica, ma sulla condivisione di valori, relazioni e linguaggi. Linguaggi che consentono a coloro che appartengono alla community di sentirsi uniti per finalità storicamente nuove. Un’unità in grado di rispondere alle sfide dell’era glocal e contare di più nel mondo.

Ciò che vogliamo asserire è, infatti, che in un futuro mondo glocal l’unità degli italici sarà collegata al concetto di «civilizzazione» e non all’idea di Stato secondo il principio westfaliano (un territorio, uno Stato, una lingua). Quello che possiamo fare fin d’ora è iniziare a lavorare per far sorgere questa unità, cominciando con l’interrogarci su questioni di fondo, quali la nuova idea di patria che si può proporre nello scenario di transizione tra il mondo internazionale e quello glocale in cui siamo immersi. Lo aveva intuito già Alessandro Manzoni nell’ode Marzo 1821, dove parla degli abitanti dello Stivale come di gente «Una d’arme, di lingua, d’altare, / di memorie, di sangue e di cor»: il bisogno di patria può essere inteso non come la conclusione di un processo di unità, ma come la causa che lo innesca. Se così è, allora anche gli italici dovrebbero iniziare a prendere coscienza di quel patrimonio di memorie, valori, lingue e modi di sentire che condividono; un patrimonio che è differente – per quanto fortemente connesso – da quello degli italiani.

In sostanza, la patria degli italici può essere Italicity e ogni «focolare virtuale» acceso attorno a essa, senza bisogno della lingua italiana. L’italicità si esprimerà, infatti, in un primo tempo attraverso una serie di valori e linguaggi non ancora del tutto omogenei, ma in via di graduale crescente assimilazione. Favorire lo sviluppo di questo processo sarà il primo compito verso una nuova unità.

Globus et Locus si è impegnata a catalizzare l’aggregazione della civiltà italica, attraverso la creazione di canali privilegiati di comunicazione, primo fra tutti il sito www.globusetlocus.org, per contribuire ad aumentare negli italici la consapevolezza della propria identità e di cominciare a pensare e comportarsi come una civiltà del terzo millennio.

(Questa relazione è stata tenuta al convegno promosso lo scorso aprile a Philadelphia dall’Università di Pennsylvania).

Piero Bassetti é Presidente dell'associazione Globus et Locus.

Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017