Dal dire al welfare
È una parola più che mai di moda: welfare. Che si può tradurre con «benessere». E che identifica una serie di misure con cui i governi cercano di migliorare le condizioni di vita delle popolazioni: un modello di cui tuttavia oggi si parla più per la crisi in cui è entrato dovunque, che per i risultati che ha conseguito. Contrariamente a quanto molti pensano, è un'esperienza tutt'altro che recente: già a cavallo tra Cinquecento e Seicento, in Inghilterra, la regina Elisabetta I varò le cosiddette Poor Laws, leggi per i poveri, con le quali lo Stato cercava di elevare il tenore di vita degli indigenti.
Quel modello venne ripreso successivamente in diversi Stati europei, dalla Francia alla Prussia all'Impero austroungarico, con l'introduzione di forme di assistenza pubblica che miravano a venire incontro ai fenomeni di degrado sociale creati dallo spopolamento delle campagne e dal decollo dell'industria. Lo Stato sociale, come oggi lo conosciamo, mette le sue radici a fine Ottocento, quando in Prussia Bismarck realizza misure assolutamente moderne, come le assicurazioni obbligatorie contro i rischi di povertà , la malattia, gli infortuni sul lavoro e la vecchiaia: l'obiettivo è quello di garantire a ciascuno un minimo di sopravvivenza, in relazione al contributo dato col proprio lavoro, attraverso la copertura assicurativa. Vengono introdotti gli assegni familiari.
Infine, nel Novecento, tra Inghilterra e Stati Uniti matura un ulteriore salto di qualità , basato sulla convinzione che occorra un intervento più forte dello Stato: alla base, c'è un diritto sociale del cittadino di godere di buone condizioni di vita, con un'assistenza generalizzata; per finanziare tutto questo, ai contributi versati dai lavoratori si aggiunge un finanziamento pubblico che porta progressivamente a forti indebitamenti. Il servizio sanitario nazionale nasce in Inghilterra, nel 1948. Oggi i costi cominciano a rivelarsi insopportabili: si lavora meno, si vive più a lungo, il numero degli anziani a carico della collettività aumenta.
Un po dovunque viene a galla la convinzione che il welfare non funzioni, e che occorra mettervi mano prima che non ci siano più soldi in cassa per erogare le prestazioni. Ma come e con cosa sostituirlo? Anche il cosiddetto neoliberismo, e cioè lasciar fare al mercato, mettendo meno regole possibili, non funziona, perché non si fa che allargare la forbice tra chi ha e chi non ha. E perché non è più possibile pensare in termini di singoli Stati nazionali: Inghilterra, Italia, Stati Uniti non possono illudersi di risolvere i problemi ciascuno all'interno dei propri confini, per via della «globalizzazione».
I Paesi più ricchi tentano inutilmente di porre regole che hanno il grosso limite di rispecchiare la loro cultura e la loro mentalità , senza tenere conto di quelle degli altri. Le linee dettate ad esempio dal Fondo monetario internazionale e dalla Banca Mondiale a Paesi diversissimi come Indonesia, Brasile e Russia hanno dimostrato, col loro sostanziale fallimento, che non si può imporre una camicia di forza mascherata da riforme calate dall'alto, ad un mondo in accelerata trasformazione.
Lo dimostra anche il recente rapporto della stessa Banca mondiale. Per i Paesi in via di sviluppo, l'anno Duemila porterà un tasso medio di crescita di quasi il 5 per cento, che è decisamente elevato. Ma i 41 Paesi più poveri, soprattutto africani, con una popolazione complessiva di oltre un miliardo di abitanti, hanno varcato a malapena la soglia della «crescita zero» pro capite. E il segretario delle Nazioni Unite, Kofi Annan, in preparazione alla cosiddetta Assemblea del Millennio che si terrà a New York dal 6 all'8 settembre, ha anticipato i grandi temi su cui dovremo confrontarci nel secolo appena iniziato: povertà e guerre, lotta all'Aids, salvaguardia dell'ambiente.
Non ci si riuscirà certo col neoliberismo sfrenato, ma neppure il welfare è più in grado di fronteggiare fenomeni di tale portata. E allora, che fare? Proprio in risposta a questo interrogativo, che interpella con forza governanti e studiosi, sta cominciando a prendere corpo l'ipotesi della cosiddetta terza via, a partire dall'Europa, che più di ogni altro ha sperimentato e sta sperimentando in casa propria le difficoltà di far marciare di pari passo solidarietà o sviluppo. È un'ipotesi che non si riferisce solo a un metodo diverso rispetto al liberismo e alla socialdemocrazia, ma anche o soprattutto all'ingresso in campo di un terzo attore: accanto al mercato, cardine del neoliberismo e allo Stato, paladino del welfare (applicato soprattutto nei Paesi del nord Europa), entra in gioco la famiglia. Una realtà fin qui troppo trascurata, e che si sta rivelando invece centrale non solo e non tanto sotto il profilo strettamente economico, ma anche e soprattutto sul piano formativo e dei valori, da cui discendono determinati stili di vita.
C'è chi ha introdotto, a questo riguardo, l'immagine e la definizione di «famiglia democratica», nel senso di una piccola comunità che è il nucleo delle collettività nazionali, e al cui interno si cominciano a sperimentare le forme di base della convivenza civile, le regole da rispettare, la distribuzione dei ruoli, l'introduzione del concetto di responsabilità individuale di ciascuno di noi. È un terreno su cui soprattutto l'Italia è in forte ritardo: rispetto ad altri Paesi, il sostegno economico alle famiglie con figli da noi è modesto. E il nostro sistema di protezione sociale lascia che sulla famiglia si addensino oneri troppo elevati, dall'educazione dei figli alla cura degli anziani, al lungo parcheggio dei giovani disoccupati. Nel nostro Paese, i senza lavoro sono il 12% della popolazione, a fronte di una media europea di poco inferiore al 10.
In molti Stati si comincia a rivalutare il ruolo dell'istituto familiare, anche come forma di prevenzione contro fenomeni di disadattamento e di degrado sociale i cui costi ricadono poi sulla collettività : investire di più nella famiglia significa, alla lunga, spendere meglio i soldi a disposizione per le politiche sociali. Soprattutto, si rivela una scelta intelligente e lungimirante di fronte a un mondo che cambia in fretta, e nel quale è evidente che il profitto corre più in fretta della solidarietà , col risultato di aumentare a dismisura lo squilibrio tra chi ha e chi non ha. Lasciar fare al mercato significa finire in un vicolo cieco, perché prevarrebbero i più forti ma si troverebbero in un fortino assediato dalla miseria del pianeta; ma altrettanto si avrebbe continuando a spendere i fondi pubblici per il sociale nel modo attuale, perché si arriverebbe alla bancarotta e a quel punto l'onda travolgerebbe tutti.
La vera terza via l'ha indicata da tempo, assieme ad altri, la Chiesa. Nell'enciclica Laborem exercens, Giovanni Paolo II ricorda a questo proposito che «per quanto sia una verità che l'uomo è destinato ed è chiamato al lavoro, prima di tutto il lavoro è per l'uomo, e non l'uomo per fare il lavoro». E nella Centesimus annus sottolinea che «il profitto è un regolatore della vita dell'azienda, ma non è l'unico: ad esso va aggiunta la considerazione di altri fattori umani e morali che, a lungo periodo, sono almeno egualmente essenziali per la vita dell'impresa».