Dalla Sicilia al mondo con un unico obiettivo

Raccontare con le fotografie e con le parole. Questo fa da sempre Ferdinando Scianna, fotografo siciliano noto in tutto il mondo. Primo italiano a entrare nella famosa agenzia Magnum Photos.
05 Ottobre 2015 | di

Nella Sicilia del dopoguerra, precisamente nella bella Bagheria con le sue ville barocche, in una famiglia di condizioni economiche discrete – il padre è commesso in un negozio di tessuti a Palermo e possiede un limoneto che rende abbastanza – c’è un ragazzino intraprendente, con un unico obiettivo (è proprio il caso di dirlo!): fare il fotografo. Coltiva dentro di sé questa ambizione, giudicata all’epoca quanto meno «stravagante». Ma lui con grandissima tenacia e determinazione riesce a fare del suo sogno una realtà. Il suo nome è Ferdinando Scianna, fotografo oggi famosissimo.

Dopo anni di lavoro per i giornali nazionali, va a Parigi come inviato e nel 1982 entra, primo italiano, nella Magnum Photos, presentato dal fotografo francese Henri Cartier-Bresson (uno dei fondatori della mitica agenzia fotografica, tra le più importanti al mondo).

Quando Ferdinando Scianna si racconta, per esempio nel volume Autoritratto di un fotografo (Bruno Mondadori, 2011), afferma: «La fotografia è stata e continua a essere per me una passione, la conquista di un linguaggio, l’occasione di incontri, lo strumento chiave della mia vicenda umana». La sua Sicilia è sempre là, sullo sfondo (oggetto di amore e rancori mai dissipati del tutto). Determinanti sono stati gli incontri: con lo scrittore siciliano Leonardo Sciascia, il poeta compaesano Ignazio Buttitta, il fotografo francese Henri Cartier-Bresson, gli scrittori Vincenzo Consolo e Milan Kundera, con altri maestri… «I maestri – racconta Scianna – che si trovano nella vita, i maestri che sanno poi farti vedere la vita e i libri rivelandone il senso, la bellezza, la tragicità, anche».

E ora che lo stesso Scianna è diventato un «maestro» non ha perso la voglia di raccontare e raccontarsi. Ha scritto moltissimi libri tra cui Etica e fotogiornalismo (2010), Visti & scritti (2014) e Lettori (2015). Le foto di quest’ultimo volume, pubblicato dall’editore Henry Beule, sono ora anche una sezione fotografica della mostra di pittura dedicata alla lettura a Rancate (Mendrisio), nel Canton Ticino in Svizzera (aperta dal 18 ottobre 2015).

Msa. Lei sostiene che «la fotografia stia scomparendo per un eccesso di successo»... Scianna. Sì. Io penso che sia così, nel senso che trent’anni fa, perfino nei giornali italiani, che imitavano quelli americani (parlo soprattutto delle riviste), c’erano dei fotografi, perché si riteneva che la comunicazione giornalistica implicasse anche una comunicazione visiva, fotografica che raccontasse, come si faceva con le parole, quello che succedeva. Adesso non ci sono più. Ma non ci sono meno fotografie, anzi, in internet e altrove si trovano più fotografie di quante mai ce ne siano state. Però nei giornali non ce ne sono più. Significa che questa comunicazione ha preso altre vie? E che quindi il fatto che non ci siano più foto sui giornali non cambia niente? Non penso sia così. Penso piuttosto che la quantità, a questo punto, abbia provocato una specie di «perdita di senso».

Come è avvenuto questo? Senza bisogno di andare a vedere cosa accade negli strumenti di comunicazione collettiva, pensiamo a quello che è successo all’album di famiglia, all’uso personale, individuale, famigliare, collettivo (nel senso di comunità) che prima si faceva dell’immagine. L’immagine fotografica ha «rivoluzionato» la maniera di stare insieme. In un certo senso la fotografia «ha inventato l’infanzia», perché gli ha dato un ruolo. E se Charles Dickens ha descritto i bambini come «vittime», così per primi certi fotografi americani li hanno fotografati. Prima non si pensava di fotografare i bambini, poi si è cominciato a farlo: si fotografa un bel bambino mentre dorme, quando corre sul bagnasciuga, quando fa il compleanno… Probabilmente oggi si continua a farlo, ma all’interno di una pratica compulsiva, con una quantità di strumenti che non implicano più la «scelta». Ogni qualità implica una scelta, una gerarchia: questo vale per il cibo, come per i vestiti, come per le qualità di carattere sociale. Se di un bambino si fotografano tutti gli istanti, il giorno in cui compie gli anni e soffia sulle candeline non è più importante degli altri istanti e quindi non si mette più quella foto nell’album di famiglia. Oggi succede questo: io mi faccio un selfie, lo «posto», e ne ricevo centinaia di altri di «amici», senza che si sappia più cosa significhi essere amici. Come non si sa più cosa significa essere amici, così non si sa più cosa significa un’immagine che serva a comunicare senso. Quindi la quantità è un successo della società delle immagini, ma questo successo rende irrilevante la comunicazione.

Che cosa vuol dire raccontare con le immagini? Se si legge un romanzo si comprende che esso è fatto di sequenze, di scene che si susseguono. Questa narrazione può anche essere di carattere orizzontale e in tal caso noi non sappiamo che senso ha un fatto rispetto a un altro (ci sono delle sperimentazioni letterarie che vanno in questa direzione), però sicuramente un certo tipo di rapporto nel racconto ci deve essere. Cioè una storia si può raccontare in mille maniere, dall’inizio alla fine oppure diversamente: ebbene, questo vale anche per le fotografie. Se ne arriva un’indiscriminata quantità è come scegliere dentro a una cesta senza sapere cosa si sceglie. E questo vale anche per i musei: una volta un direttore di una galleria mi disse che aveva 450 mila fotografie e io gli chiesi come le avesse selezionate. Così quando mi dicono che a un evento c’erano tantissimi giovani, mi chiedo: se fossero stati tutti degli imbecilli? Meglio due vecchi intelligenti che cinquemila giovani imbecilli! Il problema è sempre quello della selezione, della qualità, del sapere perché si sta facendo qualcosa.

L’immagine è diventata anche una «sostituzione del mondo». Marshall McLuhan nel 1949 aveva raccontato una cosa che, secondo me, è il cartiglio dell’epoca che stiamo vivendo. Una signora vede un bambino, fa i complimenti alla madre e questa risponde: «E non l’hai visto in fotografia!». Il centro della questione non è più il bambino, ma come viene in fotografia. A me della fotografia non importa nulla. Io considero la fotografia, come la letteratura, come anche la cucina, strumenti di comunicazione, strumenti per raccontare il mondo. La fotografia in sé non è niente, è uno strumento linguistico per narrare il mondo. Dobbiamo recuperare il significato delle parole, il senso della comunicazione. La realtà è ciò che ancora mi interessa: è quella che oggi rischia di entrare in crisi.

Lei ha affermato: ognuno di noi è «le persone che incontra». Il padre del mio amico poeta siciliano Angelo Scandurra diceva che il destino di ogni uomo è nelle mani di un altro uomo. Questa è la storia della mia vita. Ho pubblicato un libro con 350 ritratti (Visti & scritti, edito da Contrasto) che io considero un tentativo di costruire uno specchio poliedrico di cui ciascuno dei ritratti è un frammento. Quando si rompe uno specchio, tutti i frammenti formano lo specchio intero. Ora, fuor di metafora, tutte quelle persone sono io. Senza che ci siano gli altri, nessuno di noi è se stesso. È un po’ come il tempo: un altro mio amico, il poeta siciliano Ignazio Buttitta diceva: «Se non ci fosse la morte, io non avrei novant’anni». Le fotografie oggi si fanno per stamparle grandi, appenderle al muro e farsi dire che si è bravi. Io dico che a forza di appenderle al muro a un certo punto a qualcuno verrà la tentazione di fucilare la fotografia!  

La scheda   Ferdinando Scianna nasce in Sicilia, a Bagheria, a pochi chilometri da Palermo il 4 luglio 1943, in piena seconda guerra mondiale. «In quel mondo duro, difficile per molti» ha un’infanzia felice. Comincia a fotografare a 17 anni, in Sicilia. Parte per Milano e viene assunto a «L’Europeo», poi va a Parigi come inviato e, nel 1982, entra nell’agenzia fotografica Magnum Photos, primo fotografo italiano (e per anni unico).

Numerosissimi i libri pubblicati. Tra gli altri ricordiamo: Feste religiose in Sicilia, con Leonardo Sciascia (1965); Baaria, Bagheria, con Giuseppe Tornatore (2009); Etica e fotogiornalismo (2010); Autoritratto di un fotografo (2011); Ti mangio con gli occhi (2013); Lo specchio vuoto. Fotografia, identità, memoria (2013); Visti & scritti (2014); Lettori (2015). Ha curato diverse mostre, tra cui Abitanti. Nelle fotografie dell’Agenzia Magnum per il festival Dialoghi sull’uomo di Pistoia (2015).    

LA MOSTRA

Alla Pinacoteca cantonale Giovanni Züst di Rancate (Mendrisio), nel Canton Ticino (Svizzera), a pochi chilometri dal confine italiano, dal 18 ottobre 2015 fino al 24 gennaio 2016, si può visitare la mostra Leggere, leggere, leggere. Libri, giornali, lettere nella pittura dell’Ottocento, curata da Matteo Bianchi. Ai pittori ticinesi e italiani dell’Ottocento (Preda, Berta, Franzoni, Cremona, Mosé Bianchi, Zandomeneghi), si affianca una sezione di fotografie dedicate alla lettura di Ferdinando Scianna, pubblicate nel libro Lettori (Henry Beule, 2015).www.ti.ch/zuest  

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017
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