Dante, poeta universale, e la sua influenza nei Paesi ispanofoni
Nell’opera di Dante emerge – forse per la prima volta pienamente – quella che oggi è chiamata civiltà occidentale, una civiltà basata sul valore della persona, di ogni persona, proclamato proprio dal cristianesimo; un valore dal quale discendono tutti quei diritti umani ai quali oggi si fa riferimento per valutare ogni aspetto della convivenza civile. Ciò è avvenuto attraverso un poema sorto alla fine dell’età medievale, quando già declinava l’idea unitaria imperiale e incominciavano a farsi strada gli Stati nazionali, e quando il latino iniziava a cedere il passo a nuove lingue. È in questa fase di passaggio che prende forma – letteraria, certo, ma anche sociale e politica in senso lato – quella concezione cristiana dell’universo e dell’uomo elaborata, attraverso i secoli, dai primi padri della Chiesa e dai grandi maestri scolastici; una concezione che aveva assimilato la tradizione culturale greco-romana accanto all’eredità ebraica e che si era aperta alle influenze culturali islamiche.
Ancora oggi, in un mondo che talora sembra aver perso riferimenti ideali e sicurezze razionali, la Divina Commedia sa dare risposte all’uomo sul suo eterno destino. Una prova che l’autore della Commedia può essere annoverato tra quanti hanno contribuito a costruire la civiltà europea, e poi occidentale, la fornisce il fatto che sia conosciuto con il solo nome: in tutto il mondo, quando si nomina Dante, non c’è bisogno di specificare che si parla dell’Alighieri.
Su Dante poeta europeo si è espresso senza equivoci Thomas Eliot: «È il poeta più universale che abbia scritto in una lingua moderna. Dante, pur essendo un italiano, è prima di tutto un europeo». Eliot prosegue sottolineando che Dante in materia di visione del mondo la pensava come altri esponenti della cultura europea, ma mentre di alcuni si può sottolineare il carattere nazionale («Alberto Magno era tedesco, Abelardo era francese, Ugo e Riccardo di san Vittore scozzesi»), nel caso del fiorentino invece la sua cultura «non è quella di un paese europeo, ma dell’Europa». Un concetto ribadito in un saggio del 1950, nel quale Eliot sottolinea che «Dante rispetto a tutti gli altri poeti del nostro continente è di gran lunga il più europeo». Un’affermazione, questa, che può essere letta in parallelo a quanto lo stesso Eliot ebbe a dire in una conversazione radiofonica: «Non mi dispongo a convertire alcuno, ma è constatare un dato di fatto. Parlo dell’Europa, di come è nata l’Europa. Un singolo europeo può non credere che la fede cristiana sia vera, e tuttavia tutto ciò che egli dice e crede trae da questa il suo significato. Quello che io faccio è una questione di biologia sociale o, meglio potremo dire, di fisiologia, un esame fisiologico. Se se ne va il cristianesimo, se ne va tutta la nostra cultura». Si tratta dello stesso concetto che Croce, l’idealista non credente, esprime nel celebre articolo: «Perché non possiamo non dirci cristiani». E, si potrebbe chiosare, noi europei non possiamo non dirci forgiati anche da Dante.
Va specificato che il contributo di Dante alla costruzione e alla trasmissione del pensiero europeo più che alla lingua italiana, della quale fu in pratica il fondatore, si deve probabilmente all’influenza che il poeta ebbe negli altri Paesi del continente. Tra questi vengono raramente citati la Spagna e di conseguenza i Paesi di lingua spagnola. Sembra quasi un non senso. Se è vero, infatti, che sul piano accademico gli studi danteschi internazionali rimandano soprattutto alla Francia, alla Germania e alla Gran Bretagna, è altrettanto vero che la vicinanza, anche in termini di musicalità, tra l’italiano e lo spagnolo hanno sempre fatto sì che, proprio nei Paesi di lingua spagnola, sia stata più diffusa – e più immediatamente goduta – l’opera del poeta. Del resto alla gran parte degli italiani non serve conoscere lo spagnolo per comprendere che, per esempio, «Muéstrase tan hermosa y recatada la dama mía si un saludo ofrece» è una citazione dantesca. Inoltre non va scordato che a tradurre la Divina Commedia in castigliano aveva già provveduto Enrique de Villena (1384-1434), scrittore, teologo e poeta spagnolo, che in vita fu meglio conosciuto come «Il negromante», a causa dei suoi interessi per l’occultismo e la magia.
A giudizio di molti, il motivo per cui, almeno negli ultimi secoli, l’influenza dantesca nel mondo è stata poco evidente, va ricercato nella scarsa rilevanza politica dell’Italia. La tesi è legittima, ma appare per lo meno parziale. Basti dire che nel Quattrocento il grande umanista Lorenzo Valla celebrava l’immortalità della lingua latina, contrapponendola alla caducità della struttura politica che a suo tempo ne aveva favorito l’affermazione, l’impero romano. Nel 1492 Elio Antonio de Nebrija, fondatore della grammaticografia spagnola, enunciava il principio diametralmente opposto applicandolo al castigliano: quello della lengua compañera del imperio, con una visione in qualche modo profetica, se si pensa che proprio quell’anno Colombo varcò l’Atlantico e che il colonialismo spagnolo era di là da venire. A differenza dello spagnolo, l’italiano è stato una «lingua senza impero», secondo una celebre formula di Francesco Bruni. Si potrebbe obiettare, sotto alcuni aspetti, che è una lingua ancora universale (si pensi alla musica o al fatto che è la principale lingua di servizio della Chiesa cattolica, accanto al latino e al greco liturgici e ufficiali).
Più modestamente, però, ritengo che Dante abbia il suo posto tra le radici della cultura europea non tanto per il suo genio letterario, ma per il suo sentire tutto poetico e tutto cristiano; non tanto e non solo perché fondatore della lingua italiana, ma perché voce altissima di quella poesia che trascende il contingente e forse la stessa ispirazione iniziale, per farsi patrimonio comune dell’umanità, oltre le differenze storiche e culturali, capace di parlare a ogni uomo, in quella lingua che vince Babele.
A quell’impero che ebbe lo spagnolo come lengua compañera, soprattutto in America Latina, Dante – forse il poeta cristiano per eccellenza – ha avuto la duplice sorte di una costante e sotterranea influenza nel modo in cui un numero cospicuo di scrittori e di artisti ha fatto ricorso a temi e motivi della Commedia o anche della Vita Nova, ma anche di una relativamente scarsa attenzione a livello accademico.
Anche l’iniziativa di Gherardo Marone, che nel 1951 fondò una cattedra di studi danteschi presso l’Università di Buenos Aires, fu un caso atipico e tutto sommato limitato, pur producendo una significativa attività (a chi fosse interessato a questa vicenda, oltre che alla figura di letterato e giurista antifascista di Marone, va consigliato il saggio di Marìa Esther Badin, La Sociedad Argentina de Estudios Dantescos: testimonio y compromiso). Così come si è dovuto aspettare il nuovo millennio per avere il primo congresso di studi danteschi in America Latina, tenuto a Salta, in Argentina, nell’ottobre del 2004, per iniziatica dell’Universidad Catòlica di Salta e dell’Università degli Studi di Cassino e grazie all’impegno profuso da Teresa Colque e da Nicola Bottiglieri, che ne hanno curato anche gli atti. Proprio a Bottiglieri si deve poi l’interessante saggio su Oceano de agua, de palabras, de dolor: el Ulises dantesco en Amerigo Vespucci, Rubén Darío y Primo Levi. «Vi si mostra – scrive Paolo Cherchi – come il mito dell’Ulisse dantesco riesca a vivere attraverso secoli e culture ed esperienze diverse, adattandosi all’esperienza del navigatore che avendo attraversato l’oceano sentì appropriato doversi paragonare con Ulisse». Vi si esamina l’esperienza del poeta nicaraguese, Rubén Darío, che nel suo viaggio in Italia sentì d’aver riattualizzato l’esplorazione di Ulisse del mondo sconosciuto. E vi si sottolinea, infine, come anche nell’orrore del lager risuonino con toni di dignità alle orecchie di Primo Levi le parole di Ulisse ai suoi compagni di viaggio: fatti non foste a viver come bruti/ ma per seguir virtute e canoscenza .
Tornando all’influenza dantesca sulla cultura latinoamericana, si può dire in estrema sintesi che il poeta fiorentino viene studiato poco e compreso molto e che, come tutti i grandi spiriti umani, influenza e arricchisce la vita prima dell’accademia. Paolo Cherchi, docente a Ferrara e a Chicago, presentando appunto gli atti di quel convegno a Salta, sottolineò che Dante appartiene all’immaginario latinoamericano e al canone dei classici, come dimostra appunto il fatto che molte allusioni implicite all’opera di Dante vengano capite senza mediazione di glosse o di altri commenti. Ciò detto, egli aggiunge che la stessa critica dantesca latinoamericana non è priva di interesse, proprio nel segno della sua ascendenza culturale. Rispetto alla critica nordamericana, certo di ben maggiore produzione, impegnata soprattutto con i problemi dell’allegoria dantesca e con il legame della Commedia con la teologia del tempo, quella sudamericana «è più attenta agli aspetti più propriamente narrativi – scrive Cherchi –, ai temi del realismo e del grottesco dantesco, ai valori simbolici e mitici, probabilmente perché l’ottica con la quale viene letto Dante è impiantata su una cultura in cui s’impastano la mitologia indigena, complessi coloniali, visioni escatologiche arcaiche, e una tradizione narrativa con la quale i grandi narratori latinoamericani hanno costruito straordinarie epopee del quotidiano».
Dante e i 150 anni dell’Unità d’Italia
Un fiume che continua a generare cultura
Il segretario generale della Dante Alighieri, Alessandro Masi, nei suoi incontri tenuti in America latina, ha collegato le celebrazioni della Dante con i festeggiamenti per i 150 anni di Unità nazionale che l’Italia ricorda nel 2011. Un anniversario che non riguarda e non coinvolge soltanto i cittadini della Repubblica italiana, ma che deve molto delle sue radici a ciò che avvenne in America Latina nel corso dell’Ottocento. «La stessa cultura argentina di metà Ottocento era orientata a esplorare i grandi temi della letteratura europea – ha segnalato Masi –, richiamando in questo contesto l’importanza dell’opera e degli argomenti esposti nella Divina Commedia di Dante. Sono infatti molti gli scrittori argentini che devono all’opera dantesca una parte consistente della propria formazione. Oggi, mentre in Italia si discute sui festeggiamenti – ha aggiunto –, sarebbe importante ricordare che l’Italia è nata, prima che sui campi di battaglia o nelle carte geografiche, nelle parole dei suoi grandi scrittori, che nei secoli diedero alle classi dominanti dei vari Stati preunitari una lingua e una cultura comune. Quello che accadde nell’Ottocento in Argentina, in Uruguay, in Brasile stava già accadendo, ed era già accaduto in Italia: gli Stati erano differenti, i padroni avevano nomi e volti diversi, ma la lingua era già una e aveva già un padre universalmente riconosciuto, un padre esiliato e maltrattato che, con la sua opera, aveva dato a tutti gli italiani una grammatica comune di valori e di significati». Alessandro Masi ha paragonato il rapporto profondo tra Italia e Argentina – rapporto maturato in altri Paesi ispanofoni – a «un fiume sepolto, resistente agli anni e alla storia, che ha trovato il suo letto ideale nella testimonianza degli italiani, che da generazioni, con affetto e impegno, presentano e sostengono la cultura italiana e le sue bellezze». E ha concluso: «Con le tante iniziative che insieme promuoviamo ogni anno da decenni, tutti noi facciamo in modo che quel fiume resti vivo, che accresca la sua portata e che raggiunga sempre maggiori persone, nella convinzione che non si tratti solo di una lingua, o di parole, ma di un mondo di valori e idee, di una ricchezza di cui nessun luogo del mondo può fare a meno».
Luciano Segafreddo