01 Luglio 2015

Demoralizzati

Il nostro è il tempo sfinito del rimpianto. Ci sentiamo impotenti, inermi, senza fiato per il futuro. Eppure, benché nessuno di noi possa dirsi santo, siamo tutti chiamati a diventarlo.

Non penso, o almeno non mi risulta, che l’umanità nel corso dei secoli si sia imbestialita. Come se la nostra cattiveria potesse crescere semplicemente col passare del tempo. Neanche fosse innocente insalatina, innaffiata con traumi infantili, sacrosante rivendicazioni, inevitabili incidenti o missioni divine. E non fosse piuttosto, anche e soprattutto, una faccenda di responsabilità personali. Penso certamente che al giorno d’oggi si sono perfezionati gli strumenti che abbiamo tra le mani per farci del male: sono aumentate le nostre abilità manuali, se così vogliamo dire, ma non di pari passo il pensiero e la coscienza. Siamo rimasti adolescenti ombrosi, incostanti e capricciosi, che si ritrovano a impugnare una micidiale mitragliatrice. Che è potenzialmente, questo sì, molto più dolorosa di quando avevamo a nostra disposizione solo arco e frecce. Insomma, visto il potenziale distruttivo, ne vengono fuori puntualmente delle stragi. E, visto che questo potenziale distruttivo sarebbe anche sempre più «intelligente», soprattutto di povera gente o di donne, vecchi e bambini.

Penso poi che la facilità grazie alla quale oggigiorno veniamo a sapere di quello che succede anche all’altro capo del mondo, per certi versi amplifica la nostra percezione di violenza e di sofferenza. Diciamo che ora veniamo a sapere di tutta quella che c’è, mentre una volta la nostra cronaca, nera o rosa che fosse, si fermava ai confini del villaggio. Non è che c’erano meno guerre o terremoti, solo che nessuno ce lo veniva a dire. Mi sa poi che anche rispetto alle cause non siamo poi progrediti molto. Nell’antica Grecia si tiravano in ballo le beghe tra gli dei sull’Olimpo, oggi si accampano motivazioni religiose o nazionalistiche, ma sarebbe meglio essere tutti più onesti e veri: prima del poliziesco «chi è stato?», non dovrebbe ognuno di noi porsi il metafisico «chi sono?», se desideriamo sul serio estirpare le radici dell’odio dal nostro cuore? La Terra si sta ricoprendo di stazioni della via crucis, e noi arriviamo ormai sempre troppo tardi anche solo per accendervi l’ennesimo lumino della nostra cattiva coscienza. Il nostro è il tempo sfinito del rimpianto. Ci sentiamo demoralizzati. Perciò inermi, senza fiato per il futuro.

Ma se è dentro di noi che transitano le strade del male, come direbbe Gesù (Mt 7,21-23), non sarà forse vero che dalle stesse parti passeranno anche quelle del bene? Essere «de-moralizzati» non ha semplicemente a che fare con il pessimismo e la conseguente inattività. Quella che i padri del deserto chiamavano «accidia», e di cui sant’Antonio scriveva: «Il torpore dell’accidia non permette certo che si salga in alto: al contrario, vuole sempre camminare in piano» (Sermone Domenica I dopo Natale). Ma ha a che fare con l’essersi scollegati, o col sentirsi in qualche modo orfani di una morale, di un’etica: non sapere più bene per chi o per che cosa viviamo. E come dovremmo vivere, ogni giorno, in casa, sul luogo di lavoro, tra gli amici. Aver reso tutto possibile, aver messo tutto sullo stesso piano, non dover rendere mai ragione, fare di se stessi l’unico metro di paragone: tutto ciò non ci ha facilitato la vita. Un’etica non per essere assillati da norme, non per essere meno presenti, ma per esserlo in modo diverso: «Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (1Pt 3,15), a parole e con la vita. Come necessiteremmo di un ideale alto verso cui rilanciare la nostra vita, di un Dio che ancora imperiosamente rintonasse le nostre orecchie con l’esigente: «Siate santi, perché io, il Signore vostro Dio, sono santo» (Lv 19,2)! Come ci prende sul serio! «Siate santi», perché né lui né noi abbiamo dubbi che per ora non lo siamo, ma che possiamo esserlo, sì! E niente di meno che sulla sua misura. Mio Dio…

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017
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