Dilagano parole passepartout

Le parole abusate, o usate a sproposito, si vanno moltiplicando. Il «plastismo» dilaga: basta ascoltare un telegiornale, un dibattito televisivo o una conversazione salottiera per capire come si va appiattendo il nostro linguaggio.
26 Gennaio 2010 | di

Quasi vent’anni fa ho scritto per i miei studenti di psicologia un opuscolo dal titolo L’attimino sfuggente, oggi disponibile gratuitamente in Rete per i soci dell’Associazione GeA - Genitori Ancòra (www.associazionegea.it). Quelle poche paginette avevano lo scopo di evitare che gli studenti facessero eccessivo ricorso a frasi fatte, a espressioni ripetitive e ai veri e propri tic verbali che in quell’epoca imperversavano e che io ritenevo, erroneamente, un’esclusività dei più giovani.

La mia è stata una battaglia perduta. Non soltanto le parole e le espressioni abusate o usate a sproposito si sono moltiplicate, ma tutto si può dire meno che siano una caratteristica del solo mondo giovanile. Il «plastismo» dilaga. Si intende per «plastismo» la formula – singola parola o combinazione di parole – che, «dopo essersi presentata con un marchio di novità, per esempio perché assunta da un particolare linguaggio settoriale, mette in moto un meccanismo di mimesi. Il termine prolifera e ben presto si trasforma in un cliché, ovvero si finisce per usarlo anche a scapito di altre soluzioni lessicali più adeguate». Ascoltate un telegiornale, un dibattito televisivo o una conversazione salottiera, tanto per capire meglio di cosa vi sto parlando. Gli «assolutamente sì» si sprecano. Comprensibile in un tempo in cui il bisogno di assoluto si scontra con l’esperienza quotidiana del relativo e dell’effimero, ma del tutto fuori luogo in risposta a domande come: «Ti sono piaciuti gli spaghetti con le vongole che ti ho preparato?». Basterebbe rispondere «sì». L’aggiunta dell’«assolutamente» è quanto meno sospetta: chi ha posto la domanda non si fida della mia sincerità? Il mio parere vale di più con l’uso e l’abuso di un avverbio che lo rinforza? La ridondanza fa più effetto sul mio interlocutore? Il troppo è meglio del troppo poco? Mi vengono in mente le mie perplessità che risalgono agli anni dell’infanzia, quando studiavo il Catechismo. Un giorno chiesi all’insegnante perché a scuola l’aggettivo «perfet­tissimo» era considerato un errore mentre al Catechismo mi insegnavano che «Dio è l’essere perfettissimo». La risposta fu: «Ma qui stiamo parlando di Dio». Non feci una piega. Una volta cresciuto, mi convinsi però che un superlativo applicato a un Essere senza imperfezioni non ha molto senso perché «perfetto» è più che sufficiente per distinguere noi mortali e imperfetti dal Creatore. Del resto l’italiano è italiano, a scuola o al Catechismo.

Torniamo al telegiornale e ascoltiamo quante volte il conduttore o la conduttrice ci dicono «cambiamo decisamente argomento» per prepararci alla prossima notizia, di solito di carattere più leggero rispetto a quella tragica o preoccupante letta poco prima. Oppure ascoltiamo il politico che, in perfetto burocratese, snocciola una serie di «e quant’altro» che implica un’immotivata fiducia nella capacità di individuare con precisione che «altro» ci sia in quel «quant’altro». Ricordate Peppino che faceva imbestialire Totò ripetendogli «e ho detto tutto» senza dirgli niente? È un diluvio di «in qualche modo», «esattamente», «lei mi insegna», «praticamente», «voglio dire», «come dire», «spesse volte», «la questione è più complessa», «il problema è a monte» e altri segnali di piatto conformismo linguistico che ormai hanno contagiato ogni fascia d’età per pigrizia, mancanza di coraggio e desiderio di mimetizzarsi nel luogo comune.
Nell’adolescenza l’uniformità è spesso necessaria per riconoscersi tra pari, sentirsi gruppo, essere «contro». In altre età e in particolari situazioni, il ricorso al linguaggio in uniforme si spiega, forse, con il timore che variazioni troppo personali possano disturbare la comunicazione.

Tuttavia, l’eccesso di uniformità di parola rispecchia spesso quella di pensiero e l’una e l’altra possono rafforzarsi reciprocamente. Se questo è fondato, un’energica potatura di vecchi e nuovi stereotipi linguistici non potrebbe che far bene al pensiero, al linguaggio e ad altre forme di espressione.



SCAFFALE

Riscrivere la storia di Pinocchio in versi semplicissimi e divertenti: lo fece Gianni Rodari nel 1954, dando vita a un libro illustrato a vignette (sul modello delle storie del signor Bonaventura). Le tavole apparvero inizialmente a puntate sul periodico «Il Pioniere», e poi vennero raccolte in volume. Ora le edizioni Emme ripropongono il libro con le illustrazioni di Febe Sillani.

Gianni Rodari,  La filastrocca di Pinocchio, illustrazioni di Febe Sillani, Emme Edizioni, € 13,90.


Sembra un gioco di parole, ma anche il Sole può soffrire di… solitudine. Non può mai chiacchierare con nessuno, perché ogni volta che si avvicina a qualcuno per fare amicizia, senza volerlo provoca un disastro. Ma un giorno…

Lia Levi,  Il Sole cerca moglie, illustrazioni di Maurizia Rubino, Piemme Junior/Il Battello a Vapore, € 7,50.

S. F.

www.libreriadelsanto.it

 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017