Dio vi ricompensi
Sulla carta geografica dell'Ecuador, San Nicolà¡s non si trova. Da quanto scrivono Peppo e Adriana Piovanelli, due coniugi bresciani, missionari in Ecuador da oltre 20 anni, la località in cui ora vivono dev'essere un puntino microscopico vicino a Pujili, una cittadina delle Ande sopra i 3.200 metri, nella regione del Cotopaxi. Un posto sperduto, a un centinaio di chilometri a sud della capitale, Quito, popolato in maggioranza da contadini poveri di origine quechua. La nostra solidarietà è arrivata fin lassù, da dove, giurano i Piovanelli, si stenta a percepire il grido dei poveri.
I rapporti con la famiglia Piovanelli risalgono al 1997. Scrissero al Messaggero di sant'Antonio, e l'allora direttore, padre Giacomo Panteghini, recapitò la lettera alla Caritas antoniana. Fu, per Peppo e Adriana, il segno della provvidenza. Da un anno, stavano affrontando una situazione difficilissima: un terremoto aveva distrutto il collegio-scuola professionale Juan Pablo II per ragazzi poveri e aveva raso al suolo le baracche di anziani e malati. La nenia dei poveri si era levata, eppure nessuno aveva mosso un dito.
La casa di oltre 300 anni, che ospitava il collegio, era inagibile; in pochi minuti era sparito l'unico centro professionale bilingue, quechua e spagnolo, che valorizzava la cultura indigena e insieme offriva formazione umana e la conoscenza del mestiere di falegname o di scultore del legno. Era frequentata da oltre 250 ragazzi, 60 vivevano nel collegio. Questi ultimi non si diedero per vinti. Dormirono per mesi sotto le tende, sfidando la pioggia, il freddo, il sole.
Giovani e vecchi s'incontravano nello stesso disagio e nello stesso dolore. Si rafforzò il senso di comunità , così viscerale per gli indios, i quali per cultura si sentono figli della stessa Madre terra. Quando arrivarono i finanziamenti della Caritas antoniana, 122 milioni di lire in 4 rate, fu una vera festa e il canto di dolore si trasformò in un sussurro di gioia, in un ringraziamento... Dios les pague... (Dio vi ricompensi), le tipiche parole di gratitudine dell'indio povero. La frase è ripetuta in ogni lettera, in ogni ricevuta, in ogni foto, come un richiamo, una preghiera.
Dopo lo studio e il lavoro, ognuno metteva a disposizione la sua opera. L'inflazione erodeva il gruzzolo ogni giorno di più, ma loro supplivano alle perdite lavorando con maggior lena. Salivano sulle montagne per procurarsi la legna per le assi portanti del tetto. Sfruttavano le ore dopo cena, la notte e le domeniche. Nel giro di un paio d'anni, riuscirono a ristrutturare il collegio: 800 metri quadrati di dormitorio, aule, laboratori, biblioteca, cucina e refettorio. Le attività ripresero a pieno regime. Da allora il refettorio à aperto alla comunità dei poveri. A turno, 900 persone - facce scavate dal tempo, bocche senza denti, bambini infreddoliti, ragazze madri - fanno la fila per riempire una scodella di brodo caldo. Poi si siedono sulle panche, a tavola, come tutte le persone normali.
Come nella parabola della moltiplicazione del pane e dei pesci, la solidarietà della gente moltiplicò il valore di quei 122 milioni; furono costruite anche 35 casette per i poveri. Per ringraziare chi li ha aiutati, si sono messi in posa davanti alle loro nuove case, dignitosi nella loro povertà , per regalare ai fratelli lontani l'immagine silenziosa della loro gratitudine.