Doceo ergo sum

Insegno, dunque sono, esisto. Questa la traduzione del titolo latino, parafrasato da un motto del filosofo Cartesio. Insegnanti alle prese con una variabile che fa la differenza: la fiducia che ragazzi e famiglie continuano a esprimere nei loro confronti.
30 Agosto 2013 | di

Regola numero uno per la sopravvivenza: non fermarsi mai dietro la porta. «È la prima cosa che ho imparato. I ragazzi la aprono con i piedi, violentemente. Se stai nelle vicinanze rischi di andare all’ospedale». Lucio è un bell’uomo, quarantenne. Laurea in architettura, docente di disegno e arte in una scuola media nella periferia napoletana. Dopo anni nelle private ha fatto il grande salto nel pubblico. La graduatoria l’ha spedito in «frontiera». «Ti mettono alla prova, ti sfidano. Non è il ruolo che conta, ma la capacità di conquistare la loro fiducia con i fatti, senza troppe parole». Che comunque poi arrivano, magari in un secondo momento, per spiegare il perché di qualche ora in più spesa per fare i lavoretti di Natale o per l’installazione della mostra di fine anno. «Alla fine un canale di comunicazione l’ho trovato. Ma ogni giorno è un’avventura».

Francesca, invece, ha conosciuto la periferia romana. Qualche ora di supplenza in un istituto tecnico (materia insegnata: italiano) per trovare poi, con successo, una diversa strada professionale. Ricorda quell’esperienza come una grande lezione di vita: «Una volta sono tornata a casa in lacrime. Mi sentivo distrutta: la giornata si era ridotta a cercare invano di mantenere l’ordine. In classe succedeva di tutto. C’erano ragazzi che avevano ripetuto l’anno già un paio di volte. Erano più grandi di me. Non nascondo di aver provato un certo timore».

Certo, non tutti i circa 800 mila insegnanti della scuola italiana – in un panorama di studenti che si attesta tra gli 8 e i 9 milioni – sono costretti ogni giorno a confrontarsi con situazioni simili. Eppure è vero che la più grande azienda italiana – nessuna industria ha un numero così alto di impiegati come la scuola – ha un personale chiamato a svolgere un ruolo di altissima responsabilità con sempre meno risorse e strumenti a disposizione.
 
La lezione di don Lorenzo
La situazione appena descritta è stata ripresa durante la XII marcia di Barbiana (FI) del maggio scorso. «I valori di don Lorenzo Milani, la memoria della sua opera e del suo pensiero sono ancora attuali, ci scuotono e ci incitano a non arrendersi», sta scritto nel manifesto diffuso il 19 maggio. «Per la scuola di tutti e di ciascuno, senza cedere a stanchezza e amarezza. Per la scuola a cui ora, come non mai, è negato il ruolo che le è proprio, di fulcro della crescita delle persone e della nazione. Per la scuola di cui ormai si parla solo in termini economici: spesa e risparmio. La scuola italiana è diventata l’ultima in Europa per investimenti pubblici».

Un’affermazione confermata dai numeri. Secondo il recente rapporto «Education budgets under pressure in member States» della Commissione europea, l’Italia nel 2010 ha speso per l’istruzione gli stessi soldi del 2000, cifra che lo scorso anno si è ridotta del 5 per cento, andando a colpire gli interventi nei settori dell’edilizia scolastica, limitando l’introduzione di nuove tecnologie e servizi per gli studenti e aumentando il numero di alunni per classe.

«Nutriamo ancora la speranza, e coltivarla è un imperativo morale, per combattere alla radice la decadenza della nostra società» scrivono gli organizzatori della marcia (alcuni Comuni toscani, Regione Toscana, Provincia di Firenze). «I giovani che don Lorenzo Milani mandava all’estero, per imparare la vita e le lingue e poi tornare a dare il loro contributo alla nostra nazione, ora fuggono sempre più numerosi e solo all’estero pare che trovino la realizzazione dei propri sogni, portando lì, e non qui, il loro contributo di intelligenza, di saperi e di saper fare».
 
Fanalino di coda
Fuga dei cervelli da una parte, senso di frustrazione tra quanti restano dall’altra. Con questo panorama fanno i conti gli insegnanti che, della scuola, sono un po’ il cuore: a fare la differenza nella qualità dell’apprendimento dei ragazzi è, in fondo, la relazione educativa che i docenti riescono a instaurare con la classe e con ciascuno degli allievi. Un universo variegato quello dei docenti, del quale proviamo a tracciare un identikit a grandi linee, grazie all’aiuto di alcuni esperti. Partendo da punti di vista diversi – la ricerca sociologica, l’esperienza didattica ed educativa, la psicologia e la medicina del lavoro –, essi cercano di mettere in luce frammenti del mondo al quale è affidato il futuro delle nostre famiglie e del nostro Paese.

«Il corpo docente della scuola italiana costituisce la prima comunità professionale a livello nazionale, il che implica un peso elettorale, e quindi politico, della categoria abbastanza significativo» sottolinea Stefano Molina, dirigente di ricerca presso la Fondazione Agnelli. Per come è stata organizzata dalla normativa italiana, una caratteristica che accomuna l’intera classe docente è una carriera «straor­dinariamente piatta». A differenza di quello che succede in altri Paesi, dove ci sono più scalini di carriera, in Italia sostanzialmente funziona così: c’è un periodo di precariato, che tende ad allungarsi moltissimo e che, negli ultimi anni, è cresciuto con una media di circa undici anni di contratti a tempo determinato per ciascun docente. Con il progredire dell’anzianità, la posizione in graduatoria tende a salire finché avviene il sospirato passaggio in ruolo, cioè l’assunzione a tempo indeterminato. A quel punto «la carriera è completamente piatta: non c’è nessun cambiamento fino al pensionamento, se non in termini di scatti di anzianità». Insomma «niente forme di valutazione o verifiche. Gli insegnanti proseguono come galleggiando in un fiume tranquillo lasciandosi trasportare dalla corrente» sottolinea Molina.
 
Giovani cercansi
Altra caratteristica della classe docente italiana è un’età piuttosto avanzata, certamente non per colpa o per merito dei singoli docenti. La storia delle assunzioni e delle uscite, spiega la Fondazione Agnelli, segue con un ritardo di circa un decennio l’andamento demografico ed economico dell’Italia: molti ingressi, quando c’è stato il boom delle nascite, poi un rallentamento, sia perché la demografia ha tirato il freno sia perché le finanze pubbliche hanno tagliato la spesa. Questa decrescita nelle assunzioni di giovani insegnanti ha procurato un invecchiamento accelerato del corpo docente: oggi, nelle scuole di primo e secondo grado, l’età media supera i 50 anni. «L’anomalia italiana non è tanto la presenza di numerosi insegnanti adulti maturi, quanto l’assenza di giovani in cattedra. Da dieci anni a questa parte, con pochissime eccezioni, il numero di passaggi in ruolo è stato limitatissimo. Non è dimostrato che l’insegnante di 55 anni lavori meglio o peggio di uno di 35, ma è incontrovertibile il divario generazionale che si apre in presenza di studenti che stanno cambiando molto rapidamente, in particolare nel loro approccio alle tecnologie che modificano il modo di apprendere e di  relazionarsi con gli altri» dice Molina. «Lo studente è un nativo digitale mentre l’insegnante, nella migliore delle ipotesi, è un immigrato digitale o, nella peggiore, rifiuta questa dimensione». Una situazione che potrebbe ostacolare la creazione di quelle «occasioni di sintonia e di complicità tra docenti e discenti fondamentali nella costruzione dell’apprendimento».

Servirebbero, dunque, direbbe il buon senso comune, dei corsi di formazione e aggiornamento per risanare in parte il gap cognitivo. Ma anche qui le notizie non sono buone: «Siamo sbigottiti di fronte al fatto che, nelle scuole italiane, non si fa formazione. In genere, una buona formazione costa fatica a chi vi partecipa, e soldi, perché va organizzata». Di fronte alla penuria di fondi, la formazione è una sorta di diritto-dovere che l’insegnante dovrebbe pagarsi. Un’attivazione spontanea che, paradossalmente, finisce per indirizzarsi di solito verso campi in cui il docente è già preparato, in materie in cui si sente a suo agio e che approfondisce volentieri. L’impressione è di trovarsi di fronte a «progetti alla deriva lasciati alla buona volontà dell’insegnante e alla sua capacità di fare autodiagnosi».
 
La spina del precariato
Un’altra tipica connotazione italiana è che, mentre negli altri Paesi europei le scuole hanno una certa facoltà di scegliersi e assumere gli insegnanti che servono al loro piano formativo, in Italia per gli insegnanti di ruolo, che sono circa 650 mila, accade esattamente il contrario. «I precari cambiano vorticosamente a seconda delle graduatorie, ma un docente di ruolo è teoricamente inamovibile e può fare domanda di trasferimento in una scuola di suo gradimento senza che questa abbia nessuna voce in capitolo. Il risultato è che, di solito, la scelta ricade su un certo istituto più che su un altro per due motivi: la scuola vicino casa o quella prestigiosa del centro città». Una delle proposte della Fondazione Agnelli ipotizza che, almeno per gli insegnanti precari annuali, nel caso in cui il docente si sia trovato bene in una scuola e viceversa, «si potrebbe prevedere  una ferma aggiuntiva per un secondo e terzo anno in deroga al meccanismo determinato dalle graduatorie».

Capitolo complesso e impopolare è poi quello della remunerazione: non è elevatissima, «anche se è vero che gli insegnanti superiori hanno contratti che non sono particolarmente esigenti, al confronto con altri Pae­si europei» afferma Molina, riferendosi agli studi dell’Ocse in merito alla comparazione tra i Paesi europei. Rilancia, quindi, alcune proposte avanzate dalla Fondazione Agnelli. «Il sistema retributivo è iniquo: un insegnante che spende 42 ore, tra attività frontale, correzioni compiti, riunioni e quant’altro, effettivamente guadagna poco. Quello furbetto, che fa le 18 ore previste dal contratto e non un minuto in più, e magari è assente a qualsiasi attività collegiale, prepara lezioni svogliatamente e corregge i compiti nel tragitto che lo separa da casa, prende la stessa cifra. Il primo per un lavoro full time è pagato poco, il secondo per un part time fin troppo».

Una proposta che la Fondazione Agnelli ha fatto in passato è quella di superare questa iniquità, prevedendo nel contratto posizioni e salari diversi a fronte di un diverso monte ore. «Questa soluzione dovrebbe passare al vaglio, non sempre facile, delle organizzazioni sindacali, all’interno di un dibattito serio. Superato lo shock derivato dall’affrontare una questione spinosa come quella del docente unico, dal punto di vista contrattuale si potrebbe fare un ulteriore passo in avanti permettendo agli insegnanti più motivati, o che hanno più tempo da dedicare al lavoro, di vedersi giustamente remunerati per questo impegno maggiore». Un aumento di salario che andrebbe a tirare un po’ su il morale dell’intera categoria sulla quale le politiche di contenimento della spesa hanno avuto un effetto certamente demotivante. «La razionalizzazione delle spese non è stata accompagnata adeguatamente da una cultura di valorizzazione del ruolo docente, per cui gli insegnanti si sono sentiti nella pratica caricati di molte incombenze, compiti, e hanno percepito un indebolimento del riconoscimento sociale e delle risorse» commenta Pierpaolo Triani, professore associato di didattica generale a Piacenza e a Brescia e direttore di «Scuola e didattica», rivista per insegnanti di scuola media.

Vittime dei tagli sono state anche quelle attività di prevenzione volte a rilevare il cosiddetto stress da lavoro correlato: «Sebbene il decreto legge 81 del 2008, operativo dal primo gennaio 2011, renda obbligatoria l’attività di prevenzione, di fatto nessuna scuola la fa, a parte quell’1 per cento che l’affida a ingegneri o geometri, ossia a coloro che si occupano della situazione anticendi e della stabilità degli edifici». A parlare è il professor Vittorio Lodolo D’Oria, medico del lavoro che, sull’argomento, ha condotto diverse indagini e scritto numerosi libri, l’ultimo dei quali dal titolo emblematico: Pazzi per la scuola. Episodi anche gravissimi di violenza, insegnanti che, dopo decenni di onorato servizio, si trasformano in aguzzini spietati contro i più deboli, a detta di Lodolo D’Oria sono un campanello di allarme. «Oltre il 70 per cento delle motivazioni di inidoneità al lavoro per causa di salute degli insegnanti comporta una diagnosi psichiatrica, percentuale superiore rispetto a quella delle altre professioni. Fatte cento le patologie psichiatriche, 70 sono di tipo ansioso e 30 riguardano quelle più gravi di tipo psicotico».

Il panorama è decisamente variegato e le manifestazioni sono tante. Il problema è che, in caso di docenti genericamente «depressi», come vengono etichettati, di solito il dirigente scolastico «fa una cosa drammatica: richiede il cosiddetto trasferimento per incompatibilità ambientale della persona e passa la patata bollente a un collega. La patologia non si risolve e si ricomincia daccapo». Puntare a una seria prevenzione, secondo D’Oria, vorrebbe dire rendere consapevoli dei rischi professionali prima di tutto gli stessi docenti. «Il secondo punto è far conoscere gli strumenti a cui si può ricorrere per difendersi: oltre a realizzare un automonitoraggio della propria situazione, si può contare sull’accertamento medico: esso viene richiesto o dall’insegnante stesso o dal dirigente scolastico». Si tratta di presentarsi di fronte a una commissione medica che è preposta a valutare la condizione dell’insegnante e la sua capacità di esercitare la professione. Ma, anche su questo, c’è enorme ignoranza: «Se l’insegnante valuta alla stregua di un atto di mobbing l’accertamento richiesto dal datore di lavoro, compie un grosso errore, perché la verifica è comunque sempre a tutela del lavoratore. Prima di stare veramente male e giungere a sconfinare in una patologia psichiatrica, conviene fare questa richiesta».
 
Prof al centro
Ma la scuola non è solo questo. Ci sono anche aspetti confortanti. Una ricerca sui giovani, condotta dall’istituto di studi superiori «Giuseppe Toniolo» – che sarà pubblicata dalla casa editrice «Il Mulino» nel corso di questo mese di settembre – dice che «i dati sulla fiducia dei giovani nelle istituzioni mettono al secondo posto, dopo la famiglia, la scuola insieme con le forze dell’ordine. E anche il rapporto con gli insegnanti è positivo». Sottolinea il professor Triani: «Se culturalmente si cominciasse ad agire ribadendo la centralità del docente, le cose andrebbero meglio». Un passaggio che non può non avvenire senza la ricomprensione del rapporto docente-famiglia.

Se in passato i genitori riconoscevano al ruolo dell’insegnante una positività, oggi gli chiedono un innalzamento delle competenze e una capacità di interloquire. «Quando i genitori sono collaborativi si hanno veri e propri colloqui pedagogici; quando sono oppositivi è richiesta una competenza nella risoluzione dei conflitti che non sempre i docenti hanno». Il rapporto scuola-famiglia, suggerisce il professor Triani, va letto in maniera più ampia «dentro il cambiamento generale del rapporto con le istituzioni, non più pensate nella loro funzione di bene comune». Nel caso della scuola, purtroppo, tutto diventa ancora più difficile: «Se i genitori non immaginano quest’ultima come un servizio individuale per i figli dentro un bene collettivo, leggeranno tutte le problematiche in termini individualistici».

In questo contesto quale autopercezione di sé hanno i docenti? «In genere è realista e tien conto della molteplicità di funzioni che la società ormai attribuisce alla scuola. L’allargamento del diritto all’istruzione ha, infatti, aumentato le sue funzioni: oltre a socializzazione e selezione oggi si chiede la promozione del benessere, della salute, delle caratteristiche del singolo, quella che viene chiamata più ampiamente una funzione educativa». Il punto, dice Triani, è che tutti concordano, formalmente, sulla funzione educativa. La questione vera si pone, piuttosto, sul capire che cosa ciò significhi, nel concreto.
 
Strumenti di crescita
Dall’osservatorio sul mondo della scuola il professor Triani traccia alcune priorità: parlare di «docente-educatore» significa essere consapevoli che già il modo con cui ci si relaziona con i ragazzi e con cui si insegna inciderà sul ragazzo stesso, su come si rapporterà con gli adulti e con il sapere: «C’è una responsabilità educativa nel modo di stare e di lavorare con i ragazzi». 

C’è poi una responsabilità sui contenuti, su che cosa, ma anche su come si insegna. «Gli insegnanti dovrebbero cominciare a considerare la portata educativa della loro didattica quotidiana, accrescere la loro competenza conoscitiva delle discipline che vanno a insegnare. Accanto a tutto questo dovrebbero avere, a mio avviso, tre attenzioni tra le tante: la gestione della relazione con i ragazzi, la costruzione delle dinamiche della classe, la promozione del successo scolastico dei singoli ragazzi, cercando di muoversi in  un’ottica di pluralità metodologica proprio per cercare di garantire a tutti l’apprendimento».
Il passaggio culturale da fare è questo: l’insegnamento è uno strumento, non il fine dell’insegnante.

«L’obiettivo dell’insegnamento è l’apprendimento e, di conseguenza, lo sviluppo e la crescita del ragazzo. Già condividere questo principio sarebbe un passaggio molto importante».

 
 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017