Don Lorenzo Milani, il maestro «scomodo»
Ero salito a Barbiana quando, sulla tomba di don Lorenzo Milani, nel cimitero che s’affaccia su uno splendido scorcio del Mugello, i fiori del funerale non erano ancora appassiti. C’era un’aria triste e sospesa, in quel meriggio assolato di luglio. Con la morte del priore, chiudeva i battenti la Scuola di Barbiana, straordinaria esperienza che aveva ridisegnato il futuro di alcuni ragazzi e portato benefico scompiglio nell’ingessato mondo dell’istruzione italiana. I più smarriti, ma decisi a non mollare, sembravano proprio loro, i ragazzi. Mostrandoci la stanza della canonica, trasformata in aula, raccontavano la passione con cui don Lorenzo li teneva inchiodati ai banchi. Da lì, voleva che uscissero preparati ad affrontare la vita, da uomini liberi e consapevoli dei propri diritti.
Don Milani era morto a Firenze il 26 giugno 1967, distrutto dal cancro. Aveva 44 anni «e 42 parrocchiani» come aveva ironicamente scritto. La morte è stata la sua ultima lezione di vita. Quando seppe di avere un tumore, lo disse ai suoi ragazzi, con serenità, informandoli di quel che gli sarebbe successo: ospedale, terapie debilitanti, sofferenza. E così fu: un calvario, vissuto anche attraverso le dolorose «stazioni» di un processo a suo carico subìto per aver invocato il diritto dell’obiezione di coscienza al servizio militare.
Mi ha raccontato Franco Puti, ex allievo, incontrato alcuni anni dopo a Vicchio: «Con noi intorno, e i medici e gli infermieri che lo curavano, si sentiva un privilegiato: “Mi date molto di più di quello che io vi abbia dato”, aveva detto un giorno». E Nevio Santini, un altro ex allievo, così lo ricorda: «A me confidò: “Nevio, ti ho insegnato tante cose nella vita, non mi resta che insegnarti come si fa a morire”».
«Ai funerali – scriveva Piero Magi su “La Nazione” – c’erano giornalisti e cineoperatori, ma i più erano contadini, in maniche di camicia, col collo tinto dal sole… Lo hanno seppellito gli ex allievi. Si udiva la preghiera dell’officiante, nel silenzio».
Se n’era andato un prete scomodo che aveva riempito tanti cuori di ideali, ma anche urtato sensibilità e innescato roventi polemiche, «più ansioso di affermare gli ideali evangelici che preoccupato di far compagnia ai conformismi clericali» ha scritto il cardinale Silvano Piovanelli.
Provocatore nato, si era scontrato con il suo vescovo, il cardinale Ermenegildo Florit, perché riteneva più cristiano dire apertamente quel che pensava piuttosto che mormorarlo nelle adunanze dei preti. E ne aveva pagato le conseguenze. Ma non si era ribellato.
La Chiesa prima di tutto
Scriveva: «Nessuno riuscirà a farmi disobbedire. Se il vescovo mi sospendesse, mi arrenderei immediatamente, rinunciando alle mie idee. Delle mie idee non mi importa nulla, perché io, nella Chiesa, ci sto per i sacramenti, non per le mie idee».
Monsignor Raffaele Bensi, padre spirituale di don Milani, a chi gli chiedeva se avesse avuto l’impressione di aver a che fare con un santo o con un diavolo, rispondeva: «Con un santo, non c’è dubbio, anche se a volte travestito da diavolo». Ricordo di aver letto, nel diario della cappella del cimitero: «Profeta per la Chiesa del Concilio… mal sopportato, perché si voleva tu fossi zucchero e non sale della terra».
L’esperienza di San Donato
Don Milani proveniva dalla borghesia fiorentina. La mamma, Alice Weiss, era ebrea. Il papà, Albano, agnostico. Nel 1933, per sfuggire alle leggi razziali, aveva ricevuto il battesimo. Dopo aver conseguito la maturità, a Milano nel 1941, fu affascinato dall’arte sacra e decise così di approfondire il cristianesimo sotto la guida di don Bensi. Era poi andato in Seminario guadagnandosi, da subito, la fama di ribelle.
Fresco di ordinazione, avvenuta nel 1947, fu mandato cappellano a San Donato di Calenzano, in provincia di Firenze. Nella nuova comunità svolse un’accurata indagine per conoscere i bisogni della parrocchia e commisurare a essi le azioni pastorali. L’indagine, pubblicata nel 1958 con il titolo di «Esperienze pastorali», suscitò un vespaio di critiche velenose e ingiuste, tali da indurre la gerarchia a togliere il libro dalla circolazione. I dati raccolti avevano messo a nudo le contraddizioni di una Chiesa che preferiva l’alleanza con i ricchi alla vicinanza evangelica con i poveri. Don Lorenzo le aveva denunciate senza reticenze, sollecitando un nuovo modo di essere Chiesa tra la gente. Un approccio, il suo, di fede, coerenza e radicalità evangelica. Per altri, invece, si trattava di una «pericolosa deriva classista» che sembrava trovar conferma nel fatto che lui, nella scuola serale avviata per dare risposte a urgenze emerse dall’indagine – come, ad esempio, sottrarre all’analfabetismo contadini e operai – invitava a tenere lezione «cattivi maestri», di fede socialcomunista, «mostri con le corna», come li aveva dipinti uno scandalizzato monsignore datosi da fare nella locale Curia arcivescovile perché il «prete rosso» fosse allontanato.
Barbiana – una chiesetta fatiscente, la canonica e qualche casolare sparso tra i boschi – era il posto ideale per mandarvi qualcuno, sicuri che non avrebbe dato noie. Don Lorenzo vi era arrivato «in esilio» nel 1954. Non c’era nulla lassù, solo povertà e fatica. Lo Stato si faceva vivo solo per riscuotere le tasse e portare le cartoline di precetto. Il male peggiore era, però, l’ignoranza. I barbianesi, semianalfabeti per aver abbandonato i libri anzitempo, respinti da una scuola staccata dalla vita, finivano quasi sempre tra il sottoproletariato, incapaci di crescere e di difendersi.
«Dare la parola ai poveri»
«Dare la parola ai poveri» divenne lo scopo dell’apostolato di don Lorenzo e della sua scuola, improvvisata in una stanza della canonica.
Inizialmente faceva doposcuola ai bambini che frequentavano le elementari e, successivamente, scuola a tempo pieno per chi voleva proseguire gli studi. La sua era una scuola impegnativa e dura.
Mi ha raccontato ancora Nevio Santini: «Si studiava otto ore al giorno. Si interrompeva solo per il pranzo. Niente ricreazione. Non tollerava perdite di tempo. I figli dei poveri che vivono sulle spalle dei genitori, ci diceva, non possono permettersi il lusso di perdere tempo».
Come insegnante era bravissimo. Andava all’essenziale, con molto senso del concreto. Per interessare, traeva spunti dalla vita, dalla storia, dai fatti di cronaca. E dall’esperienza di chiunque passasse per Barbiana: intellettuali, politici, artigiani, contadini. Li faceva salire in cattedra sorvegliandoli a vista, perché, se dicevano «bischerate», li metteva bruscamente a tacere.
A chi gli obiettava che non era sufficiente far scuola per creare dei buoni cristiani, rispondeva: «Con la scuola non li potrò fare cristiani, ma uomini sì. E, a uomini, potrò spiegare la dottrina. Quando un operaio e un contadino hanno raggiunto un buon livello di istruzione civile, non occorre far loro lezione di religione, basta “turbare” la loro anima, proponendo problemi religiosi. Poi decideranno da sé».
Capitava che qualche allievo non superasse gli esami di Stato. Fu proprio una bocciatura a suggerire a don Lorenzo la Lettera a una professoressa, bruciante atto di accusa a una scuola vuota, falsa ed emarginante, che suscitò l’indignata reazione di molti insegnanti. Ma quando, sull’onda della contestazione del ’68, fu riformata la scuola, vennero buone molte delle osservazioni contenute in quel libro-denuncia.
Don Lorenzo si scontrò anche con i cappellani militari. In di-fesa del diritto all’obiezione di coscienza, scrisse, infatti, che «l’obbedienza non è una virtù» perché, prima che alle legge dello Stato, è alla Parola di Dio e alla propria coscienza che si deve obbedire. Per questo finì in tribunale e, dopo un lungo e clamoroso processo, fu condannato. La sentenza, quasi uno scherzo del desti-no, giunse quando don Lorenzo Milani era già morto.
notes
La sua vita in breve
Lorenzo nasce a Firenze il 27 maggio 1923 da Albano Milani e Alice Weiss. Nel 1930 si trasferisce a Milano. Nel 1941 ottiene la maturità classica. Rifiutata l’Università, frequenta la Scuola di pittura di Hans J. Staude e l’Accademia di Brera. Nel 1943, dopo i bombardamenti su Milano, ritorna a Firenze dove entra in Seminario. Nel 1947 viene ordinato sacerdote e poi nominato cappellano a San Donato di Calenzano, da dove, nel 1954, viene mandato «in esilio» a Barbiana. Nel 1958 pubblica Esperienza pastorale. Il 28 ottobre 1967, tre mesi dopo la sua morte, il Tribunale di Roma lo condanna per avere sostenuto il diritto all’obiezione di coscienza. Le Edizioni Messaggero hanno, di recente, pubblicato Don Lorenzo Milani di Piero Lazzarin.
Notes
Hanno detto di lui...
«Ammiro l’estrema coerenza di don Lorenzo, più ansioso di affermare gli ideali evangelici che preoccupato di far compagnia ai conformismi clericali. Ha radicata in sé la parola di Gesù sul farsi prossimo, non genericamente, ma di coloro che incontri».
cardinale Silvano Piovanelli
«Un personaggio fraterno nel nostro universo: una figura disperata e consolatrice».
Pier Paolo Pasolini
«È inevitabile che un prete così rivoluzionario sia anche scomodo. Non siamo ancora abituati, come Chiesa, ad obbedire a Dio, alla Parola. Siamo, per tanti versi, idolatri. Non è entrato nel nostro stile di vita uno degli insegnamenti di don Milani. E cioè che non si può fare carità senza fare giustizia».
padre David Maria Turoldo
«Il suo modo di vivere la scuola è stato unico e irripetibile. Doppiamente proponibile è invece il suo rigore, il suo estremo rispetto per gli alunni, la sua laicità. Don Milani è stato l’educatore più laico che l’Italia abbia avuto, egli ha abbattuto tutti gli idoli della scuola italiana».
padre Nazareno Fabbretti
«Caro Michele, caro Francoccio, cari ragazzi, non è vero che non ho debiti verso di voi, l’ho scritto per dare forza al discorso! Ho voluto più bene a voi che a Dio, ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto al suo conto».
dal Testamento di don Lorenzo Milani