Dopo la tragedia di Tommy
La tragica vicenda di Tommy ha scatenato le consuete reazioni: dolore, indignazione, giudizi critici sulla magistratura, ragionevoli dubbi sull’efficacia del sistema giudiziario, ma anche un’ondata di commozione nell’opinione pubblica con l’improvviso nascere di altarini con fiori, biglietti affettuosi, teneri, accorati. Poi, le solite interviste. Abbiamo sentito i pareri di parenti, vicini e lontani, di genitori, di amici, di conoscenti.
Insomma, il consueto scenario. In una parola, tutto secondo copione: il rituale di sempre, quello che ho visto ripetersi sin da quando ero bambino. Gli italiani sembrano capaci di essere vicini agli altri, di aiutarli nei momenti difficili; rivive un «noi» che nel quotidiano sembra quasi inesistente, ma rinasce quando c’è bisogno dell’aiuto degli altri.
Bontà, cortesia, amicizia, sembrano i caratteri dominanti dei nostri concittadini.
Ma è proprio vero? Per lungo tempo l’ho creduto anch’io. Quando ho cominciato a dubitare? Forse quando ho ricevuto una lettera dall’America di una signora emigrata trenta o quaranta anni or sono e rientrata, come turista, soltanto un anno fa. Mi scriveva, come affezionata lettrice del giornale su cui scrivo: per lei l’unico legame con l’Italia.
Sosteneva: «L’Italia che ho lasciato non esiste. Questa, che ho riscoperto al mio ritorno, è un’altra cosa e somiglia maledettamente al resto dell’Europa».Le risposi:«Credo che da molti punti di vista lei abbia ragione». Infatti, in questa società in cui sembra che tutti siano vicini perché vanno al ristorante, in discoteca, in ferie insieme, uno dei problemi fondamentali è la solitudine.
Il mondo che sta morendo riusciva a combatterla, perché la cultura, la politica e la religione avevano elaborato gli strumenti per arginarla. L’Italia di ieri ci aiutava a vivere. Essenziale era la capacità di stare insieme, di aiutarci reciprocamente. Ma oggi è diverso. Gli italiani sono più soli e quindi più freddi, incapaci di dare una calorosa amicizia a chi li avvicina.
Certamente, ieri chitarre e mandolini, spaghetti e fisarmonica, cioè un’Italia di cui si poteva ridere, ma non piangere. Oggi? Un mondo più efficiente ma più triste, insensibile e, alla fine, in alcuni casi, feroce. Ma si pensi anche alla famiglia allargata di una volta, in cui figli e nipoti, fratelli e cugini, erano insieme e si sostenevano l’un l’altro, anche affettivamente. Si amavano e odiavano, era bandita l’indifferenza. Ma l’essere insieme era presente anche in chiesa, prima che la pratica religiosa declinasse come ai nostri giorni. Gruppi, associazioni religiose di ogni tipo coprivano il territorio con una rete fittissima. Persino la patria era motivo e fonte di aggregazione.
«Me ne torno in America», mi scrisse la turista americana, amareggiata e delusa. Gli italiani non sono più «brava gente», sono soli, cinici, disinteressati ai problemi del dolore, della sofferenza, della solitudine, e anche feroci, probabilmente proprio o anche a causa di questa solitudine.
La gente ha bisogno di dialogare, di essere insieme e, purtroppo, lo fa quasi soltanto con i mezzi di informazione, anzitutto con la televisione, dove trova alcuni concetti generalissimi, poco chiari, a volte veramente confusi, che tuttavia permettono di essere in qualche modo in compagnia. Al «noi» di un tempo si sostituisce un noi generico nel quale confluiamo insieme, a milioni. La solitudine viene schiacciata dalla moltitudine, che in tal modo si sente buona, unita nel nome della fratellanza.
Quando muore un bambino come Tommy ci sentiamo più vicini agli altri. La morte, anche di un bambino, ci aiuta a ritrovare quell’amicizia che abbiamo sostituito con la solitudine. Una solitudine tecnologica, efficiente, moderna, ma sempre solitudine.