Due giorni per riflettere
Il mese di novembre inizia con due celebrazioni – la festa di Tutti i Santi e la Commemorazione dei defunti – in cui trovano espressione i più profondi sentimenti umani e spirituali. Sono giorni in cui, rivivendo le più sacre tradizioni, antiche e recenti, intraprendiamo un pellegrinaggio verso le venerate sepolture dei santi e le tombe dei nostri cari, consapevoli di compiere un cammino che riapre gli occhi sull’eternità. Il Dio dei vivi e dei morti non può lasciarci nella separazione e nel distacco dai nostri cari: una verità, questa, che ravviva l’attesa del nostro ricongiungimento con loro nella celeste Gerusalemme; nello stesso tempo ci aiuta a immaginare «l’oltre» dopo la morte.
Perché nella vita c’è la morte? È il difficile interrogativo che sorge nell’animo in tante tristi circostanze, soprattutto nel distacco radicale da qualche parente o amico; se non trova una risposta soddisfacente può essere origine di frustrazioni e conflitti interiori tanto da giungere alla negazione di Dio. Oggi, gli uomini di fronte al morte, si trovano da un punto di vista culturale indifesi e senza risposte. Solo la fede cristiana può rispondere al nostro interrogativo: non, però, con un discorso consolatorio o filosofico, ma presentando l’esperienza di Gesù che, dopo aver sperimentato il dolore dell’uomo, gli ha ridonato la speranza offrendo volontariamente la sua vita al Padre, e recuperando la nostra con la sua risurrezione. Anche se continuiamo a rimanere, come tutta la natura creata, sottomessi alla caducità (cfr. Lettera di san Paolo ai Romani, cap. 8,19), la sua Pasqua ha fatto rifiorire la vita, ha reso vincibile ogni male, rendendo sacra anche la morte. Uno dei nodi centrali della nostra fede cristiana è infatti la scoperta della vita come dono d’amore attraverso l’incontro con Colui che, compromesso con la nostra storia personale, è morto per salvarci. In sua compagnia, anche se ancora provati, non agisce più il destino fatale della fine, ma sentiamo di possedere la forza di morire per sopravvivere.
Oggi la morte e il mistero del dolore sono due eventi emarginati da una cultura che, sospinta dal progresso tecnologico li sta combattendo, ha cambiato il nostro modo di vivere e di morire. Abbiamo dimenticato che il Dio della rivelazione cristiana è il Dio per la vita e non per la morte, qualunque cosa accada. Ogni giorno stampa, radio e Tv ci presentano drammi, tragedie e morti causate da violenze e da ingiustizie. Ci siamo quasi assuefatti: sono divenuti dei fatti anche tragici che non parlano più, non ci interpellano, né ci provocano. Se, infatti, non poniamo in rapporto gli eventi della storia con l’orientamento impresso da Dio, che può rispondere ai molti perché dell’esistenza, anche i fatti più tragici provocano solo delle emozioni e delle sensazioni transitorie, invece di essere occasioni di riflessione personale e comunitaria per rendere il mondo un pianeta vivibile. Benedetto XVI, quand’era cardinale, in una conferenza tenuta nel marzo del 2002 a Lugano, ricordava che una fede che «non indica una strada è soltanto un ornamento. Non ci aiuta né a vivere né a morire; tutt’al più ci fornisce un po’ di svago, un po’ di piacevole apparenza – ma per l’appunto solo apparenza – e questo non basta per vivere e per morire».
L’evento della morte e della risurrezione di Cristo, come totale atto d’amore verso ognuno di noi, di fronte all’oscuramento provocato da culture chiuse alle dimensioni della trascendenza, ci offre un’ulteriore prova che siamo stati creati per l’eternità. L’esperienza dell’amore umano può assumere un significato emblematico, ancor più vero se si inserisce in una dimensione di fede, come valore aggiunto. Più penetriamo, infatti, nelle profondità dei rapporti che ci legano ai nostri familiari e amici, più scopriamo che nei nostri sentimenti d’amicizia, di profondo amore, di fraternità e di solidarietà, vi è qualcosa che non può cessare con le naturali scadenze dell’esistenza. La fedeltà e la profondità dell’amore non hanno limiti se non quelli dell’eternità.
Pellegrini, allora, alle tombe dei santi e dei nostri cari, rimane viva la percezione della durata e della continuitàdei nostri affetti e dei nostri legami spirituali. Santa Teresa d'Avila ammoniva: «Nulla ti turbi, nulla ti sgomenti. Tutto passa, ma Dio non muta: a chi ha Dio, nulla manca». Il Dio della nostra fede è infatti il Dio della vita e della morte, del tempo e della storia.