È l’April! È l’April!
Quella nel titolo è quasi una «chiamata alle armi», una sirena ma al contrario: non per un pericolo, semmai perché la vita sta di nuovo scoppiando! In realtà è il ritornello di una canzone di Beniamino Gigli, che quindi gorgheggia: «È la stagion d’amore! Deh, vieni, o mia gentil, sui prati in fiore!». Più espliciti non si potrebbe essere. Ma effettivamente il mese di aprile, per via della sua posizione nel calendario ed avere esso la fortuna di aprire le porte alla primavera, ha sempre mietuto citazioni tra poeti e cantanti. Che poi sia Battiato in Tiepido aprile che consola «da sempre il viandante» e risveglia «all’amore gli amanti», Carmen Consoli per la quale la Pioggia d’aprile è promessa di tempo migliore in tutti i sensi, o The Rasmus che duetta con Anette Olzon in October & April quasi fossero due forze, le tenebre e la luce, contrapposte, la musica cambia di poco, se non con qualche variazione stilistica.
Finalmente il buio precoce smette di rumoreggiare alla finestra. La terra comincia a rigurgitare di nuovi fiori ed erbe, e l’aria di suoni e canti inequivocabili. La vita sembra rimettersi in moto, risvegliarsi. E tutto ciò da sempre ha prestato la propria immagine e il proprio linguaggio per parlarci anche dell’amore. E soprattutto dell’amore tra un uomo e una donna.
Certo, va da subito affermato che quando due persone si vogliono bene, con verità e passione, responsabilità e fedeltà, nel rispetto dell’unicità e della bellezza di questo sentimento che è ben più del semplice rapporto genitale – che semmai ne è un aspetto fondamentale di feconda intimità e di piacere – Dio non può essere estraneo al loro amore e non benedirlo. Che le due persone ne siano consapevoli o meno, che il tutto rientri o no nei nostri schemi. Anzi, che le cose non stiano poi esattamente o di già in questi termini perentori, che sono ideali tutti da raggiungere in un cammino faticoso. Ma anche tutti da chiedere in dono da Dio.
Che è come dire che la perfezione non ci appartiene neppure sotto le lenzuola. Aver celebrato il proprio amore nel sacramento del matrimonio, così come qualsiasi altra forma di convivenza, in sé non garantisce nulla. Un marito non finisce mai. Non smetterò mai di cercarlo, e viceversa: una moglie non finisce mai, e non potrò smettere mai di cercarla. E lo stesso succede tra genitori e figli: per i secondi è la prima volta, d’accordo, ma in qualche modo lo è anche per i primi, e lo sarà ad ogni successivo figlio.
Altrettanto certo che io vorrei che ogni uomo e ogni donna che si amano si sposassero in chiesa. Non per la cerimonia, che ormai si può replicare in più pompa magna ovunque, né per le tradizioni sacrosante di nonni e genitori. E neanche perché porti bene. Ma perché credo che Gesù è la nostra vita e la forza dei nostri progetti di vita, e nella fedeltà di Dio possiamo giocarci arditamente e sconsideratamente anche la nostra promessa di fedeltà reciproca. Dio non abbandona nessuno, ma celebrare il sacramento del matrimonio è partire, come dire?, in maniera forte e audace. Per continuare altrettanto e terminare sempre nello stesso modo. Forse che cominciare con legami «deboli», sostando perennemente accanto a porte di sicurezza aperte, confidando solamente sulle proprie forze emotive e la tenuta dei propri sentimenti, insomma da soli, non avrà esiti altrettanto «deboli»? Evidentemente ogni storia è a sé, ma mi colpisce la reazione dei nostri anziani di fronte a coppie che si separano: incredulità, e la tristezza che qualcosa di importante, di buono e di bello, un tesoro vada perso. Per tutti.
Un affettuoso ricordo, anche nella preghiera, a tutte le famiglie!